Tra
le testimonianze sulla Resistenza, questa è certamente una delle più intime e
sentite. Con uno stile asciutto, senza orpelli di sorta, Guglielmo Petroni
racconta i trentatre giorni trascorsi da detenuto a Roma nel 1944, arrestato
dai tedeschi per la sua attività di antifascista. Il libro (prima edizione
1949) appartiene al genere del “memoriale dal carcere”, che tanti illustri
predecessori ha avuto, da Wilde a Gramsci. Quattro le prigioni visitate
dall’autore nei tragici giorni che precedettero la Liberazione alleata: la
casermetta dei militi forestali, il commissariato di Via Flaminia, l’atroce Via
Tasso e, infine, il terzo braccio di Regina Coeli, gestito dagli occupanti tedeschi.
Petroni
credeva fermamente nel suo ruolo di intellettuale, nel dovere di assumere
l’onere e i panni del testimone, per far conoscere a tutti, specie ai più
giovani, ciò che aveva visto e provato. Il carcere patito dall’autore non è
solo la violazione di ogni elementare diritto, ma è la negazione stessa della
civiltà e dei basilari principi di giustizia e umanità. Ne esce un quadro di
cupa desolazione: uomini stipati in celle sordide, avvezzi alle percosse e alle torture, condannati a morte o ai lavori forzati senza un equo processo. Con
grande sensibilità Petroni ne racconta storie e passioni, ne descrive i volti e
gli affanni, avendo cura di non dimenticare nessuno di quelli che ha sentito
fratelli per comunanza di destino. In queste pagine si respira un’aria di
drammatica precarietà, che porta il lettore a immedesimarsi nei personaggi,
fino a provare la stessa angoscia e le medesime semplici speranze.
Il romanzo è
anche un grande atto d’accusa contro la detenzione per ragioni politiche, dove
la differenza tra carcerati e carcerieri non presuppone la commissione di un
crimine da parte dei primi, ma l’esercizio della tirannide e della oppressione
a opera dei secondi. Anche fuori
dal carcere, però, la libertà non ha il dolce sapore tanto desiderato: tutto il
mondo è una prigione, e lo sarà fin quando gli uomini non giungeranno a una
soluzione morale, che consenta loro di intraprendere un nuovo cammino verso la
giustizia e la fratellanza. La guerra e la prigionia hanno trasformato
irrimediabilmente lo spirito e le relazioni umane; solo nel profondo del cuore
sarà possibile rintracciare quei beni universali che, al di là delle
contingenze storiche, hanno la capacità di resistere alle tragedie e all’olocausto dei valori.
Petroni
amava soprattutto una cosa di questo libro, che spesso rimarcava: la sua
valenza generazionale. Il mondo è una prigione ha il merito di aver dato
conto di una generazione di intellettuali, di coloro che più di tutti hanno
sofferto la vergogna della prigione e l’isolamento del confino, pur di portare
avanti un insopprimibile desiderio di ribellione.
[ Questa mia recensione è apparsa anche su Sololibri.net ]
Copertina prima edizione Mondadori, collana Medusa
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