Una
recensione de Le rovine in attesa è stata pubblicata sul sito
sudsostenibile.it. La riporto di seguito, ringraziando l’autore, il giornalista
Gerardo Russo, per le parole di elogio che ha voluto spendere.
“LE ROVINE
IN ATTESA”: UN NUOVO GENERE DI ROMANZO FILOSOFICO
A cura di Gerardo Russo
Cosa c’è dietro un maniero che si erge
sulla cima di una collina, all’estremità di un paese del Mezzogiorno? Cosa ne
anima ancora le mura austere, gli stanzoni bui e freddi e la stessa vita
dell’ultimo discendente di una stirpe di condottieri, prelati e grossi
proprietari terrieri? I secoli han portato via il regno di cui queste mura
robuste erano a guardia, ne han portato via l’autorità e il potere. I secoli ne
hanno decretato la morte, lenta e inesorabile.
Eppure non tutto è perduto: quelle
mura possenti hanno ceduto solo in parte; rimane, indelebile, un patto etico
che la sensibilità, messa a dura prova dal mondo virtuale, potrebbe riuscire
ancora cogliere. Sono queste “le rovine in attesa” e questi i pensieri che si
affollano nella mente dopo che gli occhi si sono staccati dall’ultima pagina del
romanzo del giovane Alfonso Cernelli. La struttura narrativa de “Le rovine in
attesa” ha una valenza filosofica più che letteraria: non v’è una narrazione
allegorica che si sviluppa sulla dialettica “protagonista-antagonista”, non v”è
una vera e propria “fabula” ricca di intrecci. Il racconto inizia con una
descrizione quasi giornalistica della vita di due giovani in una città: uno di
loro, Erminio Narri, ha terminato, con ottimi risultati, gli studi giuridici.
La triste condizione di una società in via di decadenza lo costringe a lavorare
in una biblioteca e a tentar di strappare una donna ad un poeta dozzinale
attraverso circoli, bar e bistrot. A modificare questa monotonia “fin de
siècle” è la lettera di un marchese del Sud, sembra quasi di leggerne una provenienza
cilentana, Alberico Priviano, che offre al giovane l’incarico, segreto sino a
metà del romanzo, di fondare uno Stato meridionale attraverso una nuova Carta
Costituzionale, una summa di valori etici che colleghino l’austerità del
passato con la frivolezza del moderno. Questa carta dei valori viene concepita
e redatta, ma, causa l’interdizione del nobile, rimane sui fogli che Priviano,
in attesa di essere quasi deportato al sanatorio, scorre con lo sguardo
compiaciuto e firma, sottoscrivendone l’intesa valoriale. La dialettica, si
diceva, non è narrativa, ma scorre sul terreno della costruzione filosofica. La
narrazione si dirama su due registri epidittici. Il primo registro promana
dall’austerità del passato. Si fonda su una nobiltà, forse un tempo ricca di
vizi, ma pregna di valori e di contenuti, ormai in decadenza: l’antica torre di
palazzo Priviano svetta ancora sulla vallata e sul paese sottostante, rimane
ancora il cuore forte e altero del resto del palazzo e del giardino a pezzi.
Questo registro narrativo definisce un
effetto compartecipativo: si svolge in una narrazione più piana, ricca di
particolari descrittivi che ne accelerano una confidenzialità estetica. Il
secondo registro è invece più distaccato, ha un’intensità semantica volutamente
più fredda, quasi a voler sfiorare il racconto dei fatti in un processo. E’ la
frivolezza del presente: dalla precarietà del lavoro del giovane guirista, che
nel romanzo non verrà mai chiamato per nome, ma sarà, quasi col gelo della
cronaca giudiziaria, “il Narri”, alla debolezza di un amore tra Erminio ed
Anna. Un sentimento, quest’ultimo, che già alla nascita non ha consistenza e si
sfarina, nel prosieguo della narrazione, nei vani tentativi di Erminio di
scrivere lettere d’amore dalla residenza nobiliare e in una sorta
d’inseguimento quando, tornato per pochi giorni in città, rivede la ragazza
uscire dal portone di casa. Sembra che, questa dell’inseguimento, sia
un’impresa cominciata controvoglia: più per dare spiegazioni che col preciso
intento di ridare consistenza al gioco amoroso. La contrapposizione, non
dialettica, avviene tra questi due registri narrativi: il “pathos” che svetta
dal passato con un ultimo discendente di una casata nobiliare in rovina e
l’insicurezza di un’attualità liquida, dove niente ha più sostanza, nemmeno gli
affetti. Si potrebbe affermare che la contrapposizione è tra “due decadenze”:
un mondo che non c’è più, ma di questo se ne scorgono le vestigia prepotenti, e
un mondo che forse non c’è mai stato, vissuto e trasmesso su
fogli virtuali. Tutto è perduto? Non ci può essere un ponte tra queste due
derive? Il ponte, sembra suggerire il giovane autore, non può essere virtuale,
deve poggiare sulla consistenza di un esercizio quotidiano e costante. La sigla
della Costituzione, nelle ultime pagine del romanzo, vuole sancire un patto, un
ponte di valori etici che da contratto intergenerazionale tra un vecchio
signore, ormai privo di autorità, e un giovane giurista, che non sa come
sbarcare il lunario. Proprio su questo lembo tra passato e presente si eleva un
richiamo esistenziale. Il richiamo al Mezzogiorno acquista così un valore di
palingenesi culturale più che avere contenuti meridionalisti. Il Mezzogiorno è
depositario di valori che hanno attraversato i secoli: le “rovine in attesa” sono
al Sud, ma questa non vuole essere un’ammonizione, è invece un richiamo, quasi
sussurrato con la forza descrittiva della natura, delle pietre, dei palazzi,
che, nonostante l’età e l’incuria, rimangono in piedi nella loro severa
austerità. Questo è, in sintesi, il valore filosofico del romanzo, il secondo,
di Alfonso Cernelli.
E’ un lavoro che detta con maggiore incidenza un percorso
che si intravedeva già nella sua opera di esordio. E’, il romanzo filosofico,
un’ottica per indagare l’animo umano che ha origini lontane, un campo poco
battuto nella deriva di “thrilleraggio” che, ormai da decenni, ha assunto
l’industria editoriale contemporanea. Eppure, la ricchezza di prospettiva, la
rara perizia del giovane autore nel toccare temi così alti e austeri, fanno del
romanzo un vero e proprio capolavoro.
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