26 agosto 2015

"Le rovine in attesa: un nuovo genere di romanzo filosofico". La recensione di Gerardo Russo

Una recensione de Le rovine in attesa è stata pubblicata sul sito sudsostenibile.it. La riporto di seguito, ringraziando l’autore, il giornalista Gerardo Russo, per le parole di elogio che ha voluto spendere.

“LE ROVINE IN ATTESA”: UN NUOVO GENERE DI ROMANZO FILOSOFICO
A cura di Gerardo Russo 
Cosa c’è dietro un maniero che si erge sulla cima di una collina, all’estremità di un paese del Mezzogiorno? Cosa ne anima ancora le mura austere, gli stanzoni bui e freddi e la stessa vita dell’ultimo discendente di una stirpe di condottieri, prelati e grossi proprietari terrieri? I secoli han portato via il regno di cui queste mura robuste erano a guardia, ne han portato via l’autorità e il potere. I secoli ne hanno decretato la morte, lenta e inesorabile.
Eppure non tutto è perduto: quelle mura possenti hanno ceduto solo in parte; rimane, indelebile, un patto etico che la sensibilità, messa a dura prova dal mondo virtuale, potrebbe riuscire ancora cogliere. Sono queste “le rovine in attesa” e questi i pensieri che si affollano nella mente dopo che gli occhi si sono staccati dall’ultima pagina del romanzo del giovane Alfonso Cernelli. La struttura narrativa de “Le rovine in attesa” ha una valenza filosofica più che letteraria: non v’è una narrazione allegorica che si sviluppa sulla dialettica “protagonista-antagonista”, non v”è una vera e propria “fabula” ricca di intrecci. Il racconto inizia con una descrizione quasi giornalistica della vita di due giovani in una città: uno di loro, Erminio Narri, ha terminato, con ottimi risultati, gli studi giuridici. La triste condizione di una società in via di decadenza lo costringe a lavorare in una biblioteca e a tentar di strappare una donna ad un poeta dozzinale attraverso circoli, bar e bistrot. A modificare questa monotonia “fin de siècle” è la lettera di un marchese del Sud, sembra quasi di leggerne una provenienza cilentana, Alberico Priviano, che offre al giovane l’incarico, segreto sino a metà del romanzo, di fondare uno Stato meridionale attraverso una nuova Carta Costituzionale, una summa di valori etici che colleghino l’austerità del passato con la frivolezza del moderno. Questa carta dei valori viene concepita e redatta, ma, causa l’interdizione del nobile, rimane sui fogli che Priviano, in attesa di essere quasi deportato al sanatorio, scorre con lo sguardo compiaciuto e firma, sottoscrivendone l’intesa valoriale. La dialettica, si diceva, non è narrativa, ma scorre sul terreno della costruzione filosofica. La narrazione si dirama su due registri epidittici. Il primo registro promana dall’austerità del passato. Si fonda su una nobiltà, forse un tempo ricca di vizi, ma pregna di valori e di contenuti, ormai in decadenza: l’antica torre di palazzo Priviano svetta ancora sulla vallata e sul paese sottostante, rimane ancora il cuore forte e altero del resto del palazzo e del giardino a pezzi.
Questo registro narrativo definisce un effetto compartecipativo: si svolge in una narrazione più piana, ricca di particolari descrittivi che ne accelerano una confidenzialità estetica. Il secondo registro è invece più distaccato, ha un’intensità semantica volutamente più fredda, quasi a voler sfiorare il racconto dei fatti in un processo. E’ la frivolezza del presente: dalla precarietà del lavoro del giovane guirista, che nel romanzo non verrà mai chiamato per nome, ma sarà, quasi col gelo della cronaca giudiziaria, “il Narri”, alla debolezza di un amore tra Erminio ed Anna. Un sentimento, quest’ultimo, che già alla nascita non ha consistenza e si sfarina, nel prosieguo della narrazione, nei vani tentativi di Erminio di scrivere lettere d’amore dalla residenza nobiliare e in una sorta d’inseguimento quando, tornato per pochi giorni in città, rivede la ragazza uscire dal portone di casa. Sembra che, questa dell’inseguimento, sia un’impresa cominciata controvoglia: più per dare spiegazioni che col preciso intento di ridare consistenza al gioco amoroso. La contrapposizione, non dialettica, avviene tra questi due registri narrativi: il “pathos” che svetta dal passato con un ultimo discendente di una casata nobiliare in rovina e l’insicurezza di un’attualità liquida, dove niente ha più sostanza, nemmeno gli affetti. Si potrebbe affermare che la contrapposizione è tra “due decadenze”: un mondo che non c’è più, ma di questo se ne scorgono le vestigia prepotenti, e un mondo che forse non c’è mai stato, vissuto e trasmesso su fogli virtuali. Tutto è perduto? Non ci può essere un ponte tra queste due derive? Il ponte, sembra suggerire il giovane autore, non può essere virtuale, deve poggiare sulla consistenza di un esercizio quotidiano e costante. La sigla della Costituzione, nelle ultime pagine del romanzo, vuole sancire un patto, un ponte di valori etici che da contratto intergenerazionale tra un vecchio signore, ormai privo di autorità, e un giovane giurista, che non sa come sbarcare il lunario. Proprio su questo lembo tra passato e presente si eleva un richiamo esistenziale. Il richiamo al Mezzogiorno acquista così un valore di palingenesi culturale più che avere contenuti meridionalisti. Il Mezzogiorno è depositario di valori che hanno attraversato i secoli: le “rovine in attesa” sono al Sud, ma questa non vuole essere un’ammonizione, è invece un richiamo, quasi sussurrato con la forza descrittiva della natura, delle pietre, dei palazzi, che, nonostante l’età e l’incuria, rimangono in piedi nella loro severa austerità. Questo è, in sintesi, il valore filosofico del romanzo, il secondo, di Alfonso Cernelli.     
E’ un lavoro che detta con maggiore incidenza un percorso che si intravedeva già nella sua opera di esordio. E’, il romanzo filosofico, un’ottica per indagare l’animo umano che ha origini lontane, un campo poco battuto nella deriva di “thrilleraggio” che, ormai da decenni, ha assunto l’industria editoriale contemporanea. Eppure, la ricchezza di prospettiva, la rara perizia del giovane autore nel toccare temi così alti e austeri, fanno del romanzo un vero e proprio capolavoro.

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