L’esperienza del collegio gesuita di Frascati, da cui il giovane Corrado
Alvaro fu espulso perché scoperto a leggere “libri proibiti”, è alla
base di questo intenso romanzo del 1946, il primo della trilogia delle “Memorie
del mondo sommerso”.
Spunti autobiografici possono essere rintracciati anche nelle vivide
descrizioni dell’immaginario paese calabrese di Corace. Qui vive Rinaldo
Diacono, primogenito di una modesta famiglia di piccoli possidenti. Sebbene nella
casa «facesse ancora impressione la dicitura di secondo piatto», il padre
Filippo coltiva sogni di grandezza, al limite della megalomania, e vuole
utilizzare il figlio per imporli. Filippo Diacono è tutt’altro che stupido;
anzi, è un uomo dotato di intelligenza e carisma, forse anche più dei
maggiorenti del paese. La sua smodata ambizione, però, è un instancabile tarlo,
che lo spinge a scelte avventate, fino ad attirarsi l’odio di tutti e mandare
la famiglia sull’orlo della rovina. Illuso dai sogni che gli si affollano in
testa, crede di vedere nel primogenito Filippo tutti i prodromi della
genialità, tanto da prenderlo sul serio quando questi, ancora bambino, dichiara
che da grande farà il poeta: «erano miseri possidenti di un ettaro di terra, e perciò non lo sgridarono,
non lo derisero; lo consideravano
visitato da un male divino, una divina idiozia o epilessia». Si sviluppa così
in Filippo un’idea, rivoluzionaria per sua stessa ammissione: mandare il figlio
a studiare in un collegio vicino Roma, per farlo diventare un “dottore” temuto
e rispettato, a cui tutti dovranno rivolgersi con il “voi”. La scelta è fonte
di sconcerto e invidia, al punto che Nicola Oscuro, appartenente ad una delle
famiglie più in vista di Corace, esprime una sinistra profezia: «tu mi stai
portando la rivoluzione in paese, già molti pensano di fare gli studenti, e
vedrai i pastori e i calzolai che manderanno i loro figli per farli
addottorare; gente che non ha mai veduto altro che le pecore, cosa vuoi che
capiscano di Giulio Cesare o di algebra».
La realtà del collegio si dimostra soffocante. La perversione delle regole dell’istituto,
che avvincono ragazzi ed educatori in una innaturale e pericolosa promiscuità,
svela agli occhi di Rinaldo il male del mondo. Proprio nel collegio nascono
nella sua mente «pensieri di cose che si sciupano e si corrompono», perché «qui
egli aveva per la prima volta l’impressione delle cose che decadono, del tempo
che divora, degli elementi nemici; ora cominciava ad avere nozione della lotta
contro il tempo, e quindi della lotta contro la corruzione e la fine, e quindi
contro il brutto, il deforme, il guasto, e quindi contro tutto quello che si
sciupa».
L’istituto, a parte la luminosa figura di Padre Orbain, è popolato da
personaggi infidi, come l’ambiguo Luisella o il padre Rettore, ossessionato dal
“fiore dell’innocenza” dei ragazzini ancora impuberi. Rinaldo è emarginato per
via della provenienza da una famiglia modesta; viene così a contatto per la
prima volta con il disprezzo che i ricchi nutrono nei confronti dei poveri. Ma soprattutto, gli inflessibili
sacerdoti inculcano nelle menti degli allievi una concezione profondamente
misogina, che vede la donna come un vaso dei peccati, sirena ingannatrice che
contiene la summa di ogni perversione. Rinaldo, invece, anche grazie ai libri
di poesia che legge di nascosto, comprende che la realtà è ben più complessa di
quella che gli viene raccontata. Nei libri apprende «che tutto parla della
donna, al contrario di quello che si sente dire intorno».
In breve, il desiderio
di conoscere la verità, unito ad un’indefinita attrazione verso l’altro sesso
amplificata dalla dimensione castrante del collegio, portano Rinaldo a
trasgredire le rigide regole imposte; inizia così una platonica relazione epistolare
con una ragazza, da lui chiamata Amanda. Scoperto, viene espulso senza
possibilità di appello. L’istituzione mostra tutta la sua ipocrisia:
spietata coi poveri e indulgente verso i ricchi, mette alla porta Rinaldo per
un peccato dell’immaginazione, mentre tollera abusi ben più gravi e reali che
si consumano tra le sue mura.
Con il ritorno del
giovane a Corace si apre la seconda parte del romanzo. Filippo Diacono,
incapace di ammettere la sconfitta del figlio persino a se stesso, si rifugia
nella menzogna, arrivando a dar credito alle sue stesse bugie. Dopo aver vestito
il figlio come un “dottorino”, con tanto di tuba e occhiali, inizia a portarlo
in giro per il paese a mo’ di trofeo, per suscitare in egual misura invidia e ammirazione: «il cemento era suo figlio, di cui, a furia di raccontare pretesi
successi, egli si era fatta una garanzia di avvenire, un segno di nuova nobiltà».
L’ambizione gli si ritorce contro, ma Filippo non se ne avvede fino
all’inevitabile catastrofe finale. Guidato dalla stupida illusione di aver «portato
la rivoluzione in paese», egli tenta di sovvertire la legge imperativa che non
consente ai poveri di ergersi al livello dei ricchi. Corace, così come il
collegio gesuita, è la roccaforte delle regole immutabili, architrave di un
sistema ancestrale retto dal Re e dal Papa, governato da preti, ricchi e
notabili, di cui i cafoni costituiscono la parte più misera e bistrattata.
D’altronde, è ancora una volta Nicola Oscuro a spiegare perché i poveri non debbano
avvicinarsi all’educazione, sancendo che «prima, sapere era privilegio di
pochi, ora sanno tutti; poi si mettono a pensare, ad avere delle idee, i libri
guastano la testa, la penna è la rovina dell’uomo». L’errore di Filippo Diacono
non è stato quello di aver fatto studiare il figlio, che anzi è un atto
apprezzabile e di grande intelligenza. Il suo sbaglio è stato l’aver inteso lo
studio non come un fine, ma quale mezzo di scalata sociale, strumento per
attirare su di sé l’invidia e il rispetto dei compaesani. Per questa ragione
viene infine punito.
L’età breve è naturalmente un romanzo di formazione, la
narrazione compunta del passaggio dall’infanzia alla maturità, dall’epoca dei
giochi innocenti a quella del peccato e delle responsabilità. E alla fine anche
Rinaldo dovrà accettare la tragedia del divenire, proprio lui che credeva che
«sarebbe rimasto piccolo», perché «tutto è eterno nell’infanzia, anche i
vecchi, anche la morte».
Edizione Fabbri su licenza Garzanti del 1980
Interessante mi farebbe tanto piacere saperne di più.
RispondiEliminaIl libro non é fuori catalogo. Credo sia facilmente reperibile in libreria o su internet.
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