Impossibile dire
qualcosa di originale o diverso su Unknown pleasures, considerato un caposaldo
della storia del rock, nonché una delle opere che più sono state in grado di
influenzare la produzione successiva. I Joy Division sono stati il necessario
anello di congiunzione tra il punk e la new wave, spediti in prima linea ad
esplorare quella che era ancora una terra di nessuno. Si può parlare di
post-punk o di dark, ma ascoltare il disco significa prima di tutto calarsi
nella mente e nelle ossessioni di Ian Curtis, scandagliare le pieghe di una
notte del cuore che non vedrà mai l’alba. Se dunque è vero che ci troviamo di
fronte ad un lavoro di squadra, esaltato da un’attenta e incisiva produzione,
è altresì indubitabile che Curtis ne è il protagonista assoluto, con la sua
voce distante e spettrale e un’interpretazione lucida e disarmante. Angoscia e
male di vivere traspaiono da ognuna delle dieci tracce, che abbiano l’andamento
funebre di Day of the lords o l’incedere nervoso di Disorder. Bernard Sumner
alla chitarra, Peter Hook al basso e Stephen Morris alla batteria danno corpo a
questi fantasmi.
Già dai primi solchi, una
cappa plumbea e ipnotica cala sull’ascoltatore. Unknown pleasures traccia i
canoni di un’estetica cupa, in divenire, che si carica di connotazioni
introspettive grazie ad una costruzione dei pezzi tale da non potere essere
slegata dall’interpretazione. L’unico vero cantore catacombale non può che
essere Curtis; le canzoni sono la sincera espressione di uno spirito martoriato
da un’angoscia che trovava la sua causa nel vivere e l’unica consolazione
nell’attesa della fine.
Celebre l’immagine di
copertina, curata dal grafico Peter Saville, che rappresenta le vibrazioni
elettromagnetiche prodotte da una pulsar; nella sua alternanza ossessiva di
bianco e nero introduce le atmosfere dell’album. Fondamentali le intuizioni del
produttore Martin Hannett, che ha inciso profondamente sulle canzoni,
trasformandole in pezzi più lenti, cadenzati e ossessivi; ed è stato proprio
questo lavoro di produzione ad aver reso immortale il disco, operando una netta
cesura rispetto a quanto era stato scritto e suonato fino a quel momento.
Le due facciate hanno
i curiosi nomi di inside e outside, dentro e fuori le quattro mura in cui Curtis
coltivava il suo dolore. Il disco si apre con l’inconfondibile ritmo di Disorder.
Basso e chitarra si rincorrono sopra una base ritmica dettata da una batteria
ovattata, quasi elettronica; è una canzone sulla perdita di senso e
sull’incapacità di comunicare. Ian Curtis lo rivela subito nei primi versi, sta
cercando una guida che lo prenda per mano e lo aiuti a provare le sensazioni di
un uomo normale; ma questo non è possibile, perché «I've got
the spirit, lose the feeling» (ho l’anima, ma ho perso il sentimento; sono vivo, ma ho perso la voglia
di emozionarmi). Il lamento diventa funereo e strisciante nella successiva Day
of the lords, dove una chitarra tagliente lacera lo spazio e regge le sorti di
un mondo in sfacelo, su cui si staglia una voce che assume i toni del sermone. Ancora
una volta sono l’incomunicabilità e la diversità le fonti del male di vivere:
«There’s no room for the weak», canta amaramente. La facciata si chiude con due
capolavori. Un basso possente e bordate di chitarra elettrica, che disegnano
melodie ipnotiche, caratterizzano Insight, in cui persino i sogni alzano
bandiera di resa. Spettacolari i versi iniziali: «Guess you dreams
always end. / They don't rise up, just descend. / But I don't care anymore, /
I've lost the will to want more. / I'm not afraid not at all, / I watch them
all as they fall, / but I remember when we were young». Chiude la prima facciata un’altra
traccia memorabile, quella New dawn fades in cui Curtis parla dei suoi
tentativi di cambiare, destinati ad infrangersi perché, quando il nemico si
annida nel proprio animo («It was me, waiting for me»), non è possibile sfuggire.
Allora non resta che intraprendere l’unica strada possibile, sebbene tutti
sconsiglino di farlo: «A loaded gun won’t set you free, so you say».
Il secondo lato si
apre con She’s lost control, un classico del repertorio; ritmo serrato e senza
respiro, per raccontare la dolorosa vicenda di un’amica di Ian, morta a seguito
di una crisi epilettica. Anche il cantante ha paura di perdere il controllo e
l’amara cantilena finisce per diventare un triste presagio. Altri due brani di
forte impatto, che richiamano le origini punk del gruppo, sono Shadowplay e
Interzone. La prima racconta l’impossibilità di trovare nell’amore una strada
per affrontare il dolore del mondo. In Interzone, Curtis, quasi conscio della
fine, dà sfogo a tutte le visioni della sua mente e conduce l’ascoltatore in un
gorgo di visioni apocalittiche senza speranza. I remember nothing, della durata
di sei minuti che si dilatano in una lenta agonia, chiude l’album. Ian è
ingabbiato nel suo mondo ed è incapace di uscirne: «Me in my own world […] we
were strangers», ammette con un celato rimpianto. Con questo pezzo, i Joy
Division suggellano un capolavoro e rendono permanente quella notte del cuore
che tutti abbiamo provato almeno una volta nel corso della nostra esistenza.
Unknown pleasures: un'icona senza tempo
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