Ricevo e pubblico molto volentieri una recensione del mio
romanzo a cura dell’amico e scrittore Gabriele Lorizio. Nel ringraziarlo
pubblicamente per i tanti e interessanti spunti letterari e cinematografici, lascio a lui la parola.
LA SOLITUDINE DELL'ANTICO MANIERO
A cura di Gabriele Lorizio
È un’opera fuori dal tempo, questo romanzo dal titolo che sa
di un passato intriso di epicità. Come un antico rudere, scalfito dalla mano
irriguardosa dei secoli, tuttavia in piedi, isolato, ricoperto da un’incolta
vegetazione che tutto divora e nasconde, ma non spazza via, preservando in tal
modo la propria sorte dal passaggio devastante della massa. Solo a leggerne
distrattamente il titolo verrebbe da pensare che si tratti di un vecchio
manoscritto seppellito da cumuli di polvere, magari scovato per caso nella soffitta del casolare di
campagna dei nonni, uno di quei libri della prima metà del Novecento che si
credeva andato perduto. Ed anche il nome dell’autore, Alfonso, reca in sé
qualcosa di remoto ed autorevole, rispetto ai vari Nicolas e Thomas, internazionali
appellativi di cui il panorama italiano dei nomi di questi informi anni Duemila
si va costellando e stravolgendo. Eppure non si tratta di un risalente volume
della cantina dei nostri avi, nonostante gli indizi lo lascino presagire. Le rovine in attesa è un romanzo del
2015, fatica letteraria di un giovane avvocato poco più che trentenne ben
inserito nelle alienanti e frenetiche dinamiche della vita moderna. Un libro
che si discosta dalla più recente produzione della narrativa del XXI secolo, un’opera
decisa a rivendicare una nicchia temporale novecentesca in questa era scarna di
idee e di contenuti, in cui si predilige ricorrere ad espressioni povere e
stilizzate a tutto detrimento della ricchezza della lingua italiana, martoriata
dalle semplificazioni verbali ad uso e consumo degli internet addicted people
(ecco che indulgo nell’utilizzo di anglicismi rubati al gergo dello homo mechanicus!). Riecheggiano nel
romanzo del Cernelli - senza voler esprimere paragoni eccessivamente impegnativi
per l’autore - le atmosfere delle opere di alcuni esponenti meridionali della
letteratura del secolo passato, quali Vitaliano Brancati, Elio Vittorini,
Ignazio Silone (ascrivibile quest’ultimo al novero degli scrittori del versante
sud italico più per il retaggio socio-culturale che per la collocazione
geografica), tanto per citarne alcuni. Innanzitutto, si può ravvisare una
somiglianza con la narrativa appena descritta già nel tema trattato: la
questione del Mezzogiorno. Non è un segreto, infatti, che il Cernelli, benché
cresciuto a Roma e tutt’ora abitante ed operativo nella capitale, abbia un
profondo legame con la sua terra d’origine, il Cilento, dove ritorna ogni qual
volta gli è possibile per purificarsi dall’aggressiva e violenta esistenza
urbana e andare ad immergersi nei più miti e pacifici tempi dell’anima paesani.
La vicenda prende avvio in una biblioteca di teologia, dove
il giovane giurista spiantato e demoralizzato, Erminio Narri, svolge la
funzione di inserviente sotto lo sguardo austero e sprezzante di un dispotico
direttore. Erminio detesta trascorrere le giornate tra gli scaffali colmi di
opere a tema religioso, materia che non lo interessa minimamente. La sua vera
passione, infatti, è il diritto, disciplina che non si stancherebbe mai di
studiare. All’immobilismo in cui staziona la sua vita sembrerebbe dare uno
scossone l’arrivo di una lettera, una preziosa e misteriosa missiva che
potrebbe cambiare radicalmente l’esistenza del Narri. Il pezzo di carta su cui
sono vergate le parole che mandano in fibrillazione Erminio, è trattato come un
feticcio dall’aspirante giurista. Non fa altro che soppesare la lettera,
sfiorarne la consistenza con i polpastrelli, elettrizzato al solo contatto.
Licenziatosi dall’impiego in biblioteca, decide di salutare l’amico di sempre,
Duilio Sollani, e di partire per l’ignota località in cui è atteso dal mittente
della missiva. Un luogo imprecisato, distante una decina di ore di treno in
direzione sud dalla città di provincia che Erminio si risolve ad abbandonare “…
aveva scelto il treno delle nove di sera.
Sarebbe arrivato la mattina successiva alle sette …”. Da queste parche e
volutamente generiche indicazioni, sembrerebbe desumersi che il centro urbano
in cui la storia ha origine sia situato presumibilmente al centro-nord della
penisola, considerati i tempi di spostamento che l’autore descrive. Tutte
supposizioni che non trovano alcuna conferma in quanto il Cernelli preferisce
non fornire alcun dettaglio che possa agevolare il lettore nell’individuazione
di una particolare cittadina. Nel corso del viaggio viene svelato finalmente il
contenuto della lettera: si apprende che un certo Marchese Alberico Priviano,
venuto a conoscenza della grande competenza di giurista del Narri, sia
intenzionato ad offrire al giovane un prestigioso incarico “… per sbrigare alcuni affari segreti e di
somma importanza …”. Giunto a destinazione, in un villaggio di sparute
anime dimenticate da Dio, Erminio si trova al cospetto del palazzo del Marchese.
Da quell’istante il giurista sarà catapultato in un’altra dimensione, dove i
bistrattati disvalori della vita cittadina – l’isolamento, l’asprezza del
territorio, l’assenza delle comodità – assurgeranno a valori, pregiato ed
inestimabile tesoro. Iniziato ai segreti affari dal nobiluomo, Erminio lavorerà
alacremente ad un progetto tanto assurdo quanto ambizioso, la cui realizzazione,
ove avvenisse, consentirebbe ai due “… uomini
del nostro rango …” di incidere i loro nomi nelle pagine della Storia.
Senza voler anticipare altro al lettore – troppo già è stato
svelato – che lo privi del piacere di scoprire da sé il prosieguo della
vicenda, l’opera in esame offre degli interessanti spunti di riflessione,
dialogando con alcune pietre miliari del patrimonio culturale nostrano. Al di
là delle intenzioni dello scrittore cilentano (affiora la famosa domanda: che
cosa avrà voluto dire l’autore con questo libro?), sembra quasi che Le rovine in attesa rappresentino
l’altra faccia della medaglia de Il
Gattopardo, ponendosi in profonda antitesi con l’opera di Tomasi di
Lampedusa.
La lotta del Marchese Alberico Priviano all’atavica inerzia
de Il Gattopardo.
“Se vogliamo che
rimanga tutto come è, bisogna che tutto cambi”. La famosa frase pronunciata
dal Principe Fabrizio Salina nel celebre romanzo di Tomasi di Lampedusa
rappresenta simbolicamente lo spirito dell’aristocrazia sicula nei confronti di
ogni cambiamento sociale in cui l’isola si è imbattuta nel corso della storia.
Fin dai tempi degli invasori greci, passando per gli arabi e i normanni, il
popolo siciliano si è adattato ai dominatori senza modificare l’essenzialità
del proprio carattere e delle proprie attitudini. Anche il mutamento apportato
dal Risorgimento e dall’Unità d’Italia viene definito da Tomasi di Lampedusa–
per bocca del Principe Salina – come l’ennesimo cambiamento vuoto di contenuti,
un mero involucro di un atteggiamento stanco ed inerte, privo di iniziativa che
contraddistingue la sicilianità orgogliosa e irremovibile. Secondo l’amara
analisi di Tomasi di Lampedusa sembra non esserci spazio per un cambio di
rotta, per un sovvertimento del nuovo ordine imposto dall’invasore della casata
Savoia: la vecchia classe dirigente siciliana, tutta protesa a sopravvivere
agli eventi che si abbattono sull’isola, non fa altro che asservirsi ai
garibaldini e ai piemontesi, certa che sia questo l’unico modo per sperare che
tutto resti come prima. La nobiltà del meridione che emerge da Il Gattopardo è una classe inerme, pigra
e calcolatrice, senza alcun interesse per le questioni idealistiche che più
appartengono ad una visione romantica della vita. Diversamente, agli antipodi,
si pone la prospettiva del Marchese Priviano. Eroe romantico, idealista e
sognatore, il nobiluomo non si è mai arreso alla decadenza del suo Mezzogiorno.
“… Dopo il 1861, invece, è stata attuata
una consapevole politica di depauperamento del Sud in favore del Nord, che ha
determinato il divario attuale. Intere aree sono state spogliate, le industrie
cancellate, i contadini illusi col miraggio della redistribuzione delle terre,
che non è mai avvenuta. E soprattutto, gli illuminati conquistatori si sono
alleati proprio con la parte più retriva della società meridionale, quella che
ha visto confermati, anzi rafforzati, i suoi immutabili e vergognosi privilegi …”.
Il Marchese dialoga con il Gattopardo ponendosi in contrasto con la posizione
dell’aristocratico siciliano. Nel suo visionario ed ambizioso progetto,
vagheggia una rivoluzione che conduca ad un Risorgimento inverso, una rinascita
del Sud che è prima di tutto un ridestarsi culturale, mediante l’instaurazione di
un ordine razionale, il “… regno del
dover essere …”, in una parola, il diritto.
L’altra pietra miliare, non letteraria, ma cinematografica
che il romanzo evoca attraverso uno dei suoi personaggi minori più riusciti, è Il marchese del Grillo.
Fra Ruggero come Fra Bastiano de Il marchese del Grillo
Tra i personaggi secondari dell’opera spicca la figura di
Fra Ruggero, definito dal Marchese Priviano, suo fedele amico, come “… un personaggio particolare. Più che un
sant’uomo è un buon diavolo, non si può pretendere troppo da lui …”. Il
fraticello dai tratti briganteschi (si aggira ramingo, armato di tutto punto
per i terreni più impervi del Marchese, usando un linguaggio e dei modi che si
addicono più ad un bandito che ad un religioso) ricorda molto il Fra Bastiano
della celebre pellicola di Mario Monicelli, Il
marchese del Grillo. Chi non rammenta la famosa scena in cui, tra le rovine
di Monterano, il frate brigante don Bastiano, dal pesante accento pugliese,
lascia circolare, nelle campagne da lui dominate a suon di schioppettate, il marchese
del Grillo (magistralmente interpretato da Alberto Sordi) il quale, sebbene in
compagnia di un francese, invasore inviso al frate con la lupara, riesce ad
evitare di essere bucherellato giustificandosi così? “… No, Bastiano … per me lui è
un uomo, non francese … io so’ amico
dell’omo, no der francese!!” Anche il primo accidentale incontro tra
Erminio e Fra Ruggero, infatti, è contraddistinto dalla rudezza e dalle armi:
“… Per la miseria, se non fossi frate
dovrei confessarmi per questo! Ma dato che sono un umile servo di Dio, mi
assolvo da solo. Segnati pure tu, che sei vivo per miracolo. Ho sparato anche
per meno, pure a persone più innocenti di te!” Autoassoluzione che tanto
evoca – seppur con i dovuti distinguo per l’insolenza grottescamente blasfema del
linguaggio di don Bastiano – il tonante discorso del cinematografico frate
pugliese prima di essere ghigliottinato. “… E
voi, massa di pecoroni invigliacchiti, sempre pronti a inginocchiarvi, a
chinare la testa davanti ai potenti! Adesso inginocchiatevi, e chinate la testa
davanti a uno che la testa non l'ha chinata mai, se non davanti a questo strummolo qua! Inginocchiatevi,
forza! E fatevi il segno della croce! E ricordatevi che pure Nostro Signore
Gesù Cristo è morto da infame, sul patibolo, che è diventato poi il simbolo
della redenzione! Inginocchiatevi, tutti quanti! E segnatevi, avanti! E adesso
pure io posso perdonare a chi mi ha fatto male. In primis, al Papa, che si
crede il padrone del Cielo. In secundis, a Napulione, che si crede il padrone della Terra. E per ultimo al
boia, qua, che si crede il padrone della Morte. Ma soprattutto, posso perdonare
a voi, figli miei, che non siete padroni di un cazzo! E adesso, boia, mandami
pure all'altro mondo, da quel Dio Onnipotente, Lui sì padrone del Cielo e della
Terra, al quale – al posto dell'altra guancia – io porgo... tutta la capoccia!”.
Chissà che il Cernelli non abbia voluto omaggiare il film, ormai diventato un
cult, tratteggiando lo sgangherato fra Ruggero e strizzando così l’occhio al
leggendario don Bastiano.
L’opera del Cernelli si caratterizza per la cura di ogni
particolare; minuziose appaiono le rappresentazioni dei luoghi, approfondite le
descrizioni degli stati d’animo dei personaggi. Ma questo è evidente ed il
lettore potrà bearsene semplicemente perdendosi nelle pagine dedicate ai
paesaggi e all’introspezione, appunto. Nulla invece, come già anticipato in
precedenza, viene riferito suoi nomi dei luoghi, che resteranno ignoti per
tutta la narrazione. Gli unici nomi menzionati sono quelli dei personaggi.
I nomi
Nella maggior parte dei casi i nomi scelti dall’autore per i
suoi personaggi appaiono desueti, talvolta ricercati e ridondanti. Erminio,
Duilio, Federigo, Alberico. Senza aver la pretesa di passarli tutti in
rassegna, è curioso rilevare che il nome del Marchese, Alberico, provenga paradossalmente
dalla tradizione nordica assumendo ora il significato di signore, re degli elfi
(secondo la variante germanica) o di stregone dei nani (secondo la variante
norrena). Nome che calza a pennello con il nobiluomo, il quale sebbene non di
origini settentrionali, si comporta come il signore di creature misteriose,
silenziose ed invisibili.
L’assenza di un rapporto con la tecnologia:
l’incommensurabile valore di una lettera
In ultimo non potrà sfuggire che il romanzo è privo di alcun
riferimento alle moderne tecnologie: non si parla mai di telefoni cellulari, di
internet o di qualsiasi altro supporto elettronico possa essere riconducibile
alla contemporaneità. Si potrebbe semplicemente sostenere che la vicenda sia
ambientata in un’epoca anteriore alla diffusione delle tecnologie di massa,
magari nell’immediato dopoguerra, tutt’al più negli anni Sessanta. Forse è
così. Sarebbe la soluzione più logica. Eppure a me piace credere che l’autore
abbia voluto astenersi dall’introdurre elementi tecnologici non per conferire
una particolare connotazione storica degli eventi narrati, ma, piuttosto perché
abbia ritenuto il monstrum telematico
come un enorme oggetto spersonalizzante, sprovvisto del “giusto” grado di
poeticità e lirismo da cui l’opera è avvolta. Un ipotetico presente privo del
retrogusto informatico che oggi pervade il mondo. Cosa ne sarebbe scaturito se
l’autore, invece di prendere le mosse dalla misteriosa lettera attorno alla
quale ruota tutta la storia, avesse sostituito alla missiva un carteggio
elettronico, un contatto via social network?Probabilmente il romanzo avrebbe
preso tutt’altra piega, o forse, non sarebbe mai nato. Quest’opera, edita nel
futuristico 2015 (non a caso anno in cui fu ambientato il secondo capitolo
della saga di Ritorno al Futuro), ha
tra i tanti, un particolare pregio: quello di essere scritto da un giovane uomo
del XXI secolo che non teme di sporcarsi con il calamaio e l’inchiostro, perché
consapevole di quanto fascino possa celarsi dietro una cara vecchia lettera
affrancata.
👏❤️
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