Il famoso regista Lucio Fulci, interpellato a proposito dei suoi controversi
film, amava definirsi un “terrorista dei generi”, per l’abilità di uscire dal tipo
e disorientare lo spettatore. La calzante definizione mi è ritornata in mente
leggendo il romanzo d’esordio di Gabriele Lorizio, che si avvale di archetipi
tipici del giallo, del noir, del romanzo introspettivo e del racconto
metafisico, sebbene non possa essere ricondotto in un genere circoscritto. Le
pagine sono attraversate da una vena surreale che, pur deviando spesso verso
l’ironia, dà al lettore un’inquietante sensazione di straniamento. Si potrebbe
dire che ne La macchina di carne è adottato un meccanismo ciclico: da circostanze
del quotidiano emergono eventi insoliti, che a loro volta vengono ricondotti
nel più sicuro recinto della “normalità”, in cui, però, sono contenuti a forza.
Entro una cornice di stretta contemporaneità si muovono personaggi che
portano addosso tutte le ferite della nostra società, col suo portato di
precarietà, disaffezione, incapacità di comunicare. La Roma che racconta
l’autore – ma potrebbe essere una qualsiasi spersonalizzante città
contemporanea – è un microcosmo dai tratti surreali, in cui convivono
punkabbestia che ascoltano i Pink Floyd, «strambi
tipi occhialuti che dichiarano uno scacco matto al loro contendente immaginario»,
disillusi poliziotti già eroi civici e persino donne che ringiovaniscono al
passaggio del tempo. In questo piccolo mondo, l’unica presenza vitale non può
che essere India, facente parte della schiera degli «esseri inanimati che trascorrono la vita ad essere ammirati»,
ovvero i manichini. India sembra strappata a forza da un dipinto di Savinio,
catapultata nella realtà dagli strati più reconditi dell’inconscio, a cui
dovrebbe essere relegata.
Il primo ad essere avvinto dalla sua indefinita malia è Tempo, trentenne
invischiato in una vita monotona e senza slanci. Bistrattato dal capo di giorno
e tormentato dalla madre la sera, non enumera eventi degni di nota nella sua
giornata tipo. Tempo è di fatto un inetto, categoria della letteratura
novecentesca che si attaglia perfettamente al personaggio; la sua inettitudine
si traduce nella totale passività di fronte agli eventi e alle persone, un
penoso lasciarsi vivere in cui persino il portiere dello stabile diventa una
figura autoritaria, pericolosa, giudicatrice. Il riscatto porta il curioso nome
di India, lo «stupendo manichino di
donna, con i capelli viola fino alle spalle […], un corpo di plastica tra il
marrone chiaro e l’arancio, con la testa lievemente girata sul lato sinistro,
le labbra rosse e gli occhi viola scuro, grandi come quelli di un’eroina di un
manga giapponese». La fugace visione commuove Tempo, che scopre l’intimo
legame che lo avvince alla figura (solo apparentemente) inanimata: entrambi
sono schiavi, sottoposti a severi e implacabili padroni. «Erano simili loro due, entrambi ai margini del palcoscenico delle luci
e delle insegne, entrambi spogli, entrambi distanti». Matura così in lui la
scelta che cambierà definitivamente la sua esistenza: rapire India e portarla
con sé. Il gesto balzano solo apparentemente possiede il valore di una
liberazione dai lacci del conformismo, perché India diventa una padrona
esigente, a cui Tempo sacrificherà interamente se stesso. Il romanzo è il canto
dell’illusorietà della libertà umana; Tempo si libera dai vincoli della società
per cadere in una schiavitù ancora peggiore, quella dell’ossessione e delle
proiezioni della sua mente. Senza svelare troppo della trama, si può affermare
che il rapimento del manichino segna il primo punto di svolta, la primigenia
bomba che deflagra il genere. Da questo momento inizia una lunga scia di sangue,
quella “macchina di carne” su cui si profilano gli altri incredibili
protagonisti della storia: il depresso Danilo, il curioso Anchise, l’inquieta
Irene e l’ammaliante Ines. La scelta del nome “India” per indicare l’ossessione
amplifica ancora di più il senso di straniamento, dato che nell’immaginario
collettivo l’India è associata ad un processo di liberazione fisica e
spirituale. Non a caso qualche anno fa il compianto Claudio Rocchi cantava
“Vado in India”, fuggendo dalle costrizioni della società occidentale dei
consumi. Ma forse la scelta è solo apparentemente provocatoria, dato che anche
l’India del romanzo contribuisce alla piena realizzazione dell’essere Tempo,
sia pure in un senso perverso e imprevedibile.
Il romanzo poi affronta un vero e proprio topos della letteratura, dal Romanticismo fino alla fantascienza
del secondo Dopoguerra: la fascinazione del manichino, dell’automa, della figura
antropomorfa. Magistrale in tal senso il racconto L’uomo della sabbia di
Hoffmann, vero e proprio punto di riferimento del genere. Esiste tuttavia una
profonda differenza tra il racconto dell’autore tedesco e il romanzo di
Lorizio: mentre nel primo la follia del protagonista è provocata dal
disvelamento e dalla mancata accettazione della verità, ne La macchina di
carne la verità non si rivela, al punto che il piano della coscienza e quello
dell’incoscienza non possono separarsi. India è forse animata da una forza
maledetta? È dotata di vita propria, oppure è lo specchio della malvagità di
chi la possiede? Riesce ad esternare un vizio dell’animo che altrimenti
resterebbe confinato nei recessi della psiche di Tempo? Sono domande che non
possono avere una risposta. Il punto nevralgico del romanzo sta nel
rappresentare una figura antropomorfa che non è dotata di sentimenti umani, non
ha un’esistenza ulteriore a parte quella puramente meccanica; eppure possiede
la capacità, ancora più inquietante, di liberare pulsioni che dovrebbero
rimanere sopite. India è dunque uno stupendo ossimoro, «un’anima di carne», la malattia che «ha un volto perfetto e un corpo da sogno», come cantava Miro
Sassolini nei primi Diaframma. Ancora una volta Lorizio duplica la prospettiva:
Tempo libera India dall’involucro che la teneva prigioniera, India libera le
forze creative (artistiche) e distruttive (omicide) che dimorano in Tempo;
Tempo libera India dalla schiavitù dell’essere esposta al pubblico giudizio,
India consente a Tempo di essere esposto al pubblico compiacimento.
Ci sarebbe ancora da parlare di tante cose, degli altri personaggi che
costellano il romanzo, di una ricerca privata che si intreccia con un’indagine
pubblica, ma non vorrei rivelare troppo. Tra citazioni dei CCCP ed echi alla
Pinketts, la scrittura procede a ritmo serrato, nervosa, dai tratti
postmoderni. Lorizio sa scrivere; preme sottolineare questo aspetto, in un
mercato editoriale sempre più abulico, attento solamente all’intreccio, a tutto
detrimento della buona scrittura. Ma forse il punto di forza del romanzo va
ricercato nel meccanismo narrativo. L’autore si diverte a lanciare sulle pagine
una serie di vicende e personaggi apparentemente distanti, che solo nel finale
si incastreranno a perfezione, quale pezzi di un puzzle di complessa risoluzione.
Eppure, quando tutto sembra comporsi, l’autore, da buon terrorista dei
generi, lancia la bomba finale: la suadente voce del manichino (o sarebbe
meglio dire, demone?) India, destinata ad echeggiare a lungo nella mente del lettore.
Nessun commento:
Posta un commento
Commenta l'articolo!