Quando si parla di politica estera fascista, la
mente corre alla guerra di Etiopia, alla costruzione dell’Impero coloniale,
alle invasioni di Grecia e Albania, fino alle drammatiche vicende del secondo
conflitto mondiale. Si tende a credere che nel corso degli anni Venti il regime
fosse disinteressato alla politica estera, chiuso nell’autarchia e intenzionato
esclusivamente a consolidare il potere e il consenso. Se questo è in parte
vero, il saggio di Carocci (I ed. 1969) svela una storia sconosciuta ai più,
delineando le direttrici della dinamica politica estera fascista negli anni
1925-1928.
Ad avviso di Carocci, la politica estera nei
primi anni del regime segnò una svolta rispetto al passato, innanzitutto perché
non si concretizzò in azioni militari, pur presentando un carattere aggressivo,
imperialista almeno nelle intenzioni. Secondo il grande storico fiorentino, l’imperialismo
fu uno degli strumenti con cui il fascismo cercò di risolvere il problema della
povertà. Decisiva fu l’influenza del ceto medio declassato, tartassato dalla
guerra, dall’inflazione, dalla crisi e dalla stagnazione economica. La classe
media puntava a nuove posizioni da conquistare, anche sui mercati stranieri;
proprio sulle sue richieste si innestò la politica estera fascista, volta ad
ottenere un ruolo mondiale di potenza e prestigio per dare un’immagine vincente
del regime e dirottare i problemi di politica interna. Mussolini utilizzò ampiamente
il mito nazionalista delle masse pauperizzate, sostenendo le cosiddette “colonie
di popolamento”, modello per la verità già abbandonato dalle altre potenze.
Gli anni 1925-1928, in cui l’Italia non fu
impegnata in guerre di conquista, definirono le coordinate delle future azioni
militari, grazie ad un imponente lavoro diplomatico.
Uno dei capitoli più interessanti del saggio
è dedicato alle due figure chiave della politica estera del periodo: il
ministro Contarini e il suo successore Grandi. Il primo lasciò l’incarico nel
maggio del 1925, dopo una serie di contrasti con Mussolini. Contarini viene perciò
definito il prosecutore ideale delle istanze dello Stato liberale, specialmente
per la sua politica slavofila, in modo da bilanciare la protezione che la
Francia esercitava sui Paesi balcanici della Piccola Intesa. Dopo le sue
dimissioni, salì al dicastero Grandi, a cui Mussolini assegnò il compito di fascistizzare
gli Esteri. Grandi era più ambizioso del cauto predecessore: voleva ottenere il
“senso del mondo”, favorendo la presenza dell’Italia in tutti i contesti
mondiali di crisi.
La strategia della politica estera italiana
dal 1925 al 1928 si indirizzò essenzialmente verso l’Europa danubiano-balcanica,
precorrendo ciò che avrebbe realizzato in scala più vasta e aggressiva la Germania nazista. L’azione mussoliniana fu
tesa a creare nell’Est Europa delle “riserve di caccia”, al fine di assumere
una posizione di primato a detrimento delle altre potenze, in un’area già
destabilizzata e orfana dell’Impero asburgico.
Il primo
obiettivo fu l’Albania, in aderenza alla politica di accerchiamento della
Iugoslavia propugnata dal regime. L’Albania era l’unico paese europeo rimasto in
una condizione di semifeudalità; la penetrazione italiana poté così assumere i
caratteri dell’imperialismo economico, grazie all’appoggio del Governo italiano
ai bey, i proprietari latifondisti delle terre di pianura, che mantenevano i contadini
nella condizione di servi della gleba. Il Governo italiano, interessato a
mandare i propri coloni nel Paese delle aquile quale preambolo di una
progettata invasione, riuscì ad impedire ogni possibile riforma, assicurandosi
l’appoggio delle classi ricche e reazionarie.
Un discorso
simile vale per l’Ungheria, pensata come una testa di ponte verso la Croazia,
un alleato utile per esercitare una pressione costante nei confronti della
Iugoslavia. L’Italia garantì all’Ungheria l’appoggio ai tentativi di
revisionismo degli accordi postbellici, provocando la reazione durissima del
ministro degli esteri inglese, Lord Chamberlain, che accusò Mussolini di voler
rompere l’ordine costituito col Trattato di Locarno. Ancora più stretti i
rapporti con la Romania. Mussolini intendeva legare a sé il generale e primo
ministro Averescu, considerato di simpatie fasciste, in modo da istituire un
regime analogo anche in Romania. Secondo Carocci si trattò del primo tentativo
di legarsi ad uno stato estero, intervenendovi attivamente nella politica
interna e favorendone le forze di destra.
Carocci
dedica molte pagine ai rapporti con un altro nemico storico, la Francia.
Mussolini evitò sempre di rompere con il Paese transalpino, nonostante le
numerose ragioni di attrito, quali la vittoria mutilata, l’ausilio fornito agli
esuli antifascisti, l’espansione nell’area danubiana e il controllo dell’Africa
settentrionale. Egualmente interessante il capitolo che tratta delle relazioni
con l’Unione Sovietica, altra potenza con cui era necessario fare i conti.
Il saggio di
Carocci non è di facile reperibilità, eppure è un’opera interessante e di agevole
lettura, destinata a coloro i quali desiderano conoscere gli antecedenti remoti
del secondo conflitto mondiale, nonché la politica estera fascista al di fuori
delle imprese coloniali.
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