Il titolo di Giusto tra le nazioni
spetta ai non ebrei che, privi di interesse personale e a rischio della
propria incolumità, abbiano salvato anche un solo ebreo dallo sterminio
nazista; l’onorificenza trae origine dal versetto del Talmud secondo
cui «chi salva una vita, salva il mondo
intero». Lo scrittore e poeta Gian Piero Bona, superata la soglia dei
novant’anni, ha deciso di raccontare una vicenda autobiografica e familiare
rimasta fino ad oggi ignota. È così venuto alla luce il romanzo L’amico ebreo (Ponte alle grazie, 2016), con dedica al padre, uno fra
i Giusti. L’autore spiega nelle prime pagine le ragioni che l’hanno indotto a
raccontare questa toccante storia.
«Alcuni esemplari di quei nazisti intenti a eliminare nei loro lager sei milioni di ebrei e due milioni tra zingari, cristiani, intellettuali, malati, omosessuali, ho avuto modo di vederli per tre anni dentro e fuori della mia casa. Fu così che un piccolo episodio di questa tragedia umana, vissuto per caso nel luogo dove allora abitavo con la mia famiglia, è rimasto ancora oggi come un marchio a fuoco sfrigolante nella carne della mia anima.»
Tra il 1942 e il 1945, nell’antica magione dei Bona di Carignano, si è
infatti consumata una vicenda che ha dell’incredibile. Sotto lo stesso tetto,
per quasi quattro anni, hanno vissuto a stretto contatto il ragazzino ebreo
Sergej Yonov e l’odioso Richtel, capitano delle SS. Sia il carnefice che la
potenziale vittima erano ospiti della famiglia dello scrittore, in una forzata
e pericolosa convivenza che solo per miracolo non si è tramutata in tragedia.
Sergej, ebreo di origine russa, era compagno di scuola e di conservatorio di
Gian Piero Bona; fu il padre di quest’ultimo a salvarlo dall’olocausto, conducendolo
in casa propria e facendolo passare come un lontano parente grazie ad un’accurata
messinscena. Negli stessi anni in cui Sergej era ospite dei Bona, nella grande
casa si era stabilito anche l’ignaro capitano Richtel, secondo l’usanza per cui
gli ufficiali nazisti, anziché vivere nelle caserme, trovavano forzosa ospitalità
nelle case dei maggiorenti. Sergej e Gian Piero erano due ragazzi diversissimi:
il primo ebreo, razionalista e logico, il secondo cristiano, inquieto e affascinato dall’esoterismo.
«Il destino mi aveva mandato il grande amico e ciò fu la scoperta del vero male e del vero bene intorno a noi, della luce e delle tenebre. […] Avevamo opinioni radicalmente opposte, dovute alla nostra diversa educazione; eppure, lui ebreo e io cristiano, eravamo diventati fratelli di viaggio.»
Lo stretto contatto con Richtel rafforza l’amicizia tra i due ragazzi,
che di fatto diventano come un’unica persona; anzi, è proprio la minaccia della
deportazione a renderli più uniti, rinsaldando un legame che va al di là della
semplice amicizia. La quotidiana visione del nazista Richtel assume i caratteri
di una pericolosa vicinanza alla morte, perché il tedesco incarna gli aspetti
negativi dell’esistenza, è il simbolo del male e del cuore di tenebra. Ambiguo
e proprio per questo temibile, Richtel è in egual misura capace di slanci di
affettività e di orribili crimini.
Gian Piero Bona, da poeta di razza qual è, riesce a raccontare una
vicenda toccante senza forzosi patetismi, ma al tempo stesso con una strenua vis polemica nei confronti degli
occupanti nazisti. Il libro non è semplicemente la memoria di una irripetibile
stagione di vita, ma anche un commosso ricordo della propria famiglia, unita
dal vincolo del sangue e dalla necessità di difendere un segreto che
non poteva essere rivelato.
L’amico ebreo è un emozionante romanzo di formazione, una formidabile
lezione di resistenza e solidarietà, nonché una vivida testimonianza del valore
della diversità. Viviamo in tempi difficili e c’è chi vorrebbe rimettere in
discussione alcuni principi fondanti della nostra democrazia; leggere L’amico
ebreo diventa così un doveroso atto di coraggio, per non dimenticare e rischiare
di ricadere negli errori del passato.
Nessun commento:
Posta un commento
Commenta l'articolo!