Nel sottobosco della new wave in
terra d’Albione troppi erano gli orfani del punk: formazioni più o meno note, talentuose o da dimenticare, con un’attitudine
dark o votate all’elettronica. In
parole povere, un mare in cui è difficile orientarsi. In quel di Sheffield si
muovevano i Comsat Angels di Stephen Fellows (voce e chitarra), Mik Glaisher
(batteria), Kevin Bacon (basso) e Andy Peake (tastiere). Esordirono nel 1980
con il sorprendente Waiting for a miracle,
seguito a ruota dal claustrofobico Sleep
no more (1981) e da Fiction (1982),
dall’attitudine meno oscura. Album tutti pubblicati dalla Polydor, segno del
credito di cui godeva la band.
I Comsat Angels, che avevano preso il nome da un racconto di
fantascienza (edito in Italia nella collana Urania), volevano affermare un
suono diverso dagli altri gruppi della medesima corrente. Meno cupi dei Joy
Division, meno elettrici dei The Sound, proponevano atmosfere dilatate, di
stampo quasi psichedelico. Il terzo LP, intitolato Fiction, chiude il loro periodo migliore. Registrato nei mesi di
maggio e giugno del 1982, è stato, per ammissione dello stesso Fellows, un
lavoro meno meditato dei precedenti, a causa della stanchezza accumulata dopo
lunghi ed estenuanti concerti. Cupezza,
malinconia e attitudine new romantic sono
i tratti principali del disco, che si dipana in canzoni non sempre di facile
presa. Bandita la rabbia, predomina l’inquietudine.
Si ascolti la prima traccia, After
the rain. Strumentazione ridotta all’osso, poche note di tastiera ripetute
all’infinito, a dare l’idea della pioggia che cade. Una canzone-gioiello, che
immerge l'ascoltatore in un’atmosfera soffusa di campi nebbiosi bagnati dall’inverno. Quasi un
intermezzo la successiva Zinger, che
lascia spazio alla meravigliosa Now I
know. Qui i nostri
si cimentano nella più classica delle ballate darkwave: il basso a reggere le fila del discorso, echi lancinanti
di tastiere provenienti da altri mondi e chitarre a tentare di forzare uno
scenario altrimenti desolante. Un pezzo suggestivo, forse l’apice dell’album. Segue
Not a word, il brano più elettrico
della facciata, dall’incedere post-punk;
è un’atipica canzone d’amore, dedicata alla «strangest
girl I have ever known». Ju ju money chiude la facciata con un’invettiva contro
il dio denaro riuscita solo a metà.
Il lato B è
aperto da More, che riprende l’essenzialità
di After the rain, con una batteria
incalzante e la voce di Fellows a raccontarci quanto siano effimeri i sogni: «more things than you’ve time for / more
dreams than you can use / they fill up all the sky / and fall into your eyes». Si
torna a viaggiare alti con Pictures,
soffusa canzone che si esalta in un ritornello di strisciante malinconia.
Purtroppo la chiusura del disco non è all'altezza del resto: Birdman è un mero riempitivo senza un’idea portante, mentre Don’t look now e What else!? non lasciano traccia nella memoria. È proprio nella
chiusura che si sentono la stanchezza e la carenza di idee di cui parlava
Fellows.
Dimenticato dai più, è
un album tutto sommato buono, con almeno quattro gemme da ricordare. Qualche
caduta di tono, ma i Comsat Angels si confermano un gruppo con una
propria identità, al di là dell’inquadramento in un genere. Il vinile è
reperibile a prezzi contenuti, ma il disco è stato ristampato anche in cd. Due
parole sulla grafica: copertina semplice ma d’impatto con schegge vaganti di
colori e, nella busta interna, una simpatica foto del gruppo che non si prende
troppo sul serio.
La band nella busta interna del vinile
La copertina di Fiction
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