C’è una poesia di Emilio Praga (1839-1875) che costituisce un passaggio atipico nella
sua produzione: Il professor di greco. Praga
è noto per essere stato il principale tra i lirici della Scapigliatura, nonché “il Baudelaire italiano” per la vita
dissoluta e il contenuto provocatorio delle sue opere. Il professor di greco è invece una lirica di impianto tradizionale,
che racconta un episodio vero e intimo.
Praga, che è stato anche un affermato pittore, nella poesia racconta
di quando si è presentato alla porta del suo studiolo il «lungo e magro professor di greco» delle
tediose giornate di scuola, quelle che il poeta avrebbe preferito passare tra «le dolci aure dei campi», anziché in
un’aula polverosa. La vista del professore rievoca il ricordo delle noiose
lezioni e della buia prigione che era stata la scuola. La reazione immediata è quindi
di odio, che Praga non esita a dimostrare, rivolgendo al docente uno sguardo «torvo e bieco».
Ma il tempo non è trascorso invano; dopo la prima diffidenza, il poeta scopre
l’uomo dietro il professore. Colui che aveva sempre considerato un nemico da
combattere, gli si rivela qual è, un «uom,
già in uggia tanto, incanutito e sofferente e stanco». Si compie allora un
vero e proprio miracolo: il professore si guarda intorno, ammira le tele che costellano
la stanza ed elogia l’ex studente ribelle, diventato un affermato pittore. La
confidenza che nasce tra i due è il colpo decisivo che annienta i passati
rancori. Il vecchio docente, «desto ai
primi ardenti affetti», paragona la sua misera vita, fatta di giorni sempre
uguali, all’esistenza errabonda e avventurosa dell’allievo, non nascondendo
una punta di invidia. Lo studente indisciplinato ha visitato il mondo, mentre
l’inflessibile professore, onusto solo del peso della scuola e della famiglia, non
ha mai vissuto pienamente.
Il finale è commovente, senza indulgere nel patetismo. Praga, che forse
non è riuscito a manifestare al professore ciò che ha realmente provato, esorta
i suoi versi ad uscire dallo studiolo, a seguire il vecchio per la strada,
rincuorandolo che «col greco è svanita ogni rancura». Rimasto solo, il poeta si lascia andare ad un pianto
liberatorio, pensando forse al tempo passato e al triste destino di un uomo
buono e comprensivo, che il crudele gioco di ruoli della scuola gli aveva fatto
considerare un nemico.
Si dice che la poesia sia tanto più vera quanto più trovi rispondenza
nella vita reale. Qualche tempo fa ne ho avuto la prova, quando alla fermata
dell’autobus ho incontrato il mio vecchio professore di Istituzioni di Diritto
Pubblico all’università. Negli anni dell’insegnamento era noto per la
rettitudine morale, ma soprattutto era assai severo e temuto, anche per via dell'aspetto austero. Il solo pensiero
di dover affrontare l’esame con lui terrorizzava noi studenti; dato l’alto
livello delle sue lezioni, infatti, il professore esigeva una
preparazione eccellente, oltre che una proprietà di linguaggio che molti
ragazzi del primo anno non possedevano. Ecco perché questo professore
rappresentava per noi la quintessenza dell’inflessibilità.
Alla fermata dell’autobus, invece, mi è sembrato subito un uomo diverso.
Oramai in pensione, minuto, incanutito e con il passo appesantito dagli anni,
mi ha provocato una strana sensazione di rispetto mista a tenerezza. Allora mi
sono avvicinato e presentato; lui ovviamente non poteva ricordarsi di me, ma è
stato comunque felice di rammentare i giorni dell’insegnamento. Come il
professore di greco, anche il professore di diritto mi ha enumerato i suoi
acciacchi, confidandomi che «la testa non
è più quella di una volta». Sono bastati pochi minuti per rovesciare
completamente il mio giudizio. Ho visto di fronte l’uomo, al di là del
professore, e tutto il passato risentimento si è trasformato in rispetto. Ecco,
in quei pochi minuti anche io mi sono sentito un po’ Emilio Praga.
Il lungo e magro professor di greco,
che quasi odiar mi fece il divo Omero,
fu stamane a vedermi al mio studietto.
La tavolozza mia si tinse a nero,
e io lasciando i pennelli con dispetto
il guatai torvo e bieco.
che quasi odiar mi fece il divo Omero,
fu stamane a vedermi al mio studietto.
La tavolozza mia si tinse a nero,
e io lasciando i pennelli con dispetto
il guatai torvo e bieco.
Ché all’entrar suo mi rientrò nel core
tutta la noia dei passati inciampi,
quando fanciullo pallido e sparuto
alle dolci anelavo aure dei campi,
e avrei pei gioghi del Sempion venduto
e Troia e il suo cantore.
tutta la noia dei passati inciampi,
quando fanciullo pallido e sparuto
alle dolci anelavo aure dei campi,
e avrei pei gioghi del Sempion venduto
e Troia e il suo cantore.
Ma poi ch’io vidi l’uom, già in uggia tanto,
incanutito e sofferente e stanco,
l’antica bile mi fuggì dal petto,
e fissai mestamente il suo crin bianco;
egli abbracciommi coll’usato affetto
e mi sedette accanto.
incanutito e sofferente e stanco,
l’antica bile mi fuggì dal petto,
e fissai mestamente il suo crin bianco;
egli abbracciommi coll’usato affetto
e mi sedette accanto.
Poi mi narrò de’ suoi lunghi malanni
e delle pene della famigliuola;
sentirsi affranto e avvelenato ormai
dall’afa sempre uguale della scuola,
che fin gli toglie il ricrearsi ai rai
del sole agli ultimi anni.
e delle pene della famigliuola;
sentirsi affranto e avvelenato ormai
dall’afa sempre uguale della scuola,
che fin gli toglie il ricrearsi ai rai
del sole agli ultimi anni.
Indi guardando con occhio d’amore
la stanza piena di festa e di luce,
e le sparse mie tele e gli abbozzetti,
da cui la lieta fantasia traluce,
parea, che desto ai primi ardenti affetti,
chiusi non morti in core,
la stanza piena di festa e di luce,
e le sparse mie tele e gli abbozzetti,
da cui la lieta fantasia traluce,
parea, che desto ai primi ardenti affetti,
chiusi non morti in core,
volesse dirmi: "Oh quanti nuovi lidi,
quanta stesa di cieli e di marine,
tu vedesti, e pur giovane sei tanto!
Ed io? Dei grami dì già presso al fine
che mai conosco di sì vago incanto?
Nulla, mai nulla io vidi!
quanta stesa di cieli e di marine,
tu vedesti, e pur giovane sei tanto!
Ed io? Dei grami dì già presso al fine
che mai conosco di sì vago incanto?
Nulla, mai nulla io vidi!
Talor fra l’aure aperte e la verzura
la mia stanca vecchiezza si riposa,
quand’esco coi figliuoli alla campagna;
ma quell’ora di pace, ahi come vola!
Qual tristezza maggior non m’accompagna
poi fra le chiuse mura!"
la mia stanca vecchiezza si riposa,
quand’esco coi figliuoli alla campagna;
ma quell’ora di pace, ahi come vola!
Qual tristezza maggior non m’accompagna
poi fra le chiuse mura!"
Povero vecchio! Ed io fui crudo tanto
da attristargli la già misera vita?
Sù, versi miei, seguitelo per via,
ditegli voi, che col greco è svanita
ogni rancura, e che quand’egli uscia
dalla mia stanza, ho pianto!
da attristargli la già misera vita?
Sù, versi miei, seguitelo per via,
ditegli voi, che col greco è svanita
ogni rancura, e che quand’egli uscia
dalla mia stanza, ho pianto!
Emilio Praga (primo a sinistra) con altri scapigliati (fonte Wikipedia)
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