Il manuale di letteratura che adottava la mia professoressa alle
superiori, il famoso Guglielmino – Grosser, era assai ostico per noi studenti,
ma aveva il pregio di dedicare qualche pagina anche agli autori meno noti, che attiravano la mia attenzione più degli indigesti classici. Su
Giovanni Papini (1881 – 1956) pochi cenni biobibliografici e un’informazione
che a distanza di anni echeggia ancora nella memoria. Secondo il manuale, Un uomo finito (1912) in origine avrebbe
dovuto intitolarsi Storia di un cervello, o qualcosa di simile. E in effetti il
libro più celebre di Papini è proprio il racconto delle elucubrazioni di una
mente non ordinaria, guidata da inesausti sogni di grandezza e destinata a
lasciare una traccia profonda nella letteratura italiana. Un’autobiografia,
dunque, ma non nel senso tradizionale del termine. Papini rievoca i primi
trent’anni della sua esistenza senza soffermarsi tanto sulle vicende umane,
quanto piuttosto sui moti inquieti di uno spirito grande che avrebbe voluto
essere grandissimo.
In questa autobiografia precoce, Papini ripercorre l’infanzia passata
tra i pochi libri di casa, l’adolescenza spesa nelle sale polverose delle biblioteche,
la giovinezza ossessionata da una «smania
di sapere» che finisce per guastargli gli occhi e prostrargli lo spirito. Grazie
alla vivace intelligenza, da imberbe discepolo diventa un maestro riconosciuto
e ricercato, egualmente stimato e odiato dalle accademie e dall'élite culturale
del Paese. Sono gli anni delle polemiche incessanti attraverso i giornali, delle
lettere e dei pamphlet velenosi, che
culmineranno nella fondazione della rivista Leonardo,
vero e proprio baluardo dei giovani intellettuali incendiari e polemici.
Un uomo finito non è solo
un episodio isolato ma decisivo della letteratura italiana del Novecento, ma un
vero e proprio “libro di culto”, secondo una definizione oggi molto in voga.
All'epoca della sua pubblicazione ebbe grande successo soprattutto presso la
gioventù ribelle, delusa dall'immobilismo dell'Italia liberale e umbertina.
Erano giovani dai quindici ai trentacinque anni, desiderosi di cambiare il
Paese, convinti che ci fosse una nuova razza da costruire. Nei fatti, gli stessi
ragazzi che sarebbero stati travolti prima dal mito della guerra “sola igiene
del mondo” e poi dal miraggio della rivoluzione fascista. Nelle pagine più fulgide, Papini ci presenta ribelli
scapigliati, «poeti delicatissimi,
pittori misteriosi e funerei, violinisti mezzi matti», filosofi imbevuti di
misticismo e altri personaggi che traboccano di vitalità intellettuale. Papini non
è però soddisfatto di essere un primus
inter pares; egli vuole elevarsi al pari di un messia, e sarà proprio la
smodata ambizione a condurlo alla rovina, a renderlo un uomo finito anzitempo.
La straordinaria modernità del romanzo è principalmente nello stile: la
scrittura è roboante, convulsa, quasi violenta. Si pensi al fulminante esordio: «io non son mai stato bambino, non ho avuto
fanciullezza». Da solo è già una lettera d’intenti, uno strale capace di
rivoltare l’immagine di un’Italia sonnolenta da Libro Cuore. È altresì vero che
in più punti la lettura è ostica, specialmente quando Papini si dilunga in
complicate dissertazioni filosofiche, morali o religiose. Resta però il fatto che l’autore
toscano non pecca certo di sincerità;
anzi, si mette a nudo pagina dopo pagina, senza timore di essere giudicato dai
suoi simili. D’altronde, se pure ha fallito, ciò non è accaduto perché non
avesse i mezzi per arrivare in alto, ma perché troppo alte erano le ambizioni.
«E se dopo avermi ascoltato crederete lo stesso, a dispetto dei miei propositi, ch’io sia davvero un uomo finito, dovrete almen confessare ch’io son finito perché volli incominciar troppe cose e che non son più nulla perché volli esser tutto.»
Copertina di un'edizione Vallecchi del 1952
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