La componente autobiografica è centrale in questo romanzo del 1949 di
Yukio Mishima (1925-1970). Lo scrittore giapponese, nascondendosi dietro il
protagonista Kochan, rievoca alcuni momenti cruciali della propria vita, dalla
primissima infanzia all’età universitaria. Kochan proviene da una famiglia
della media borghesia di Tokyo, legata ai valori tradizionali della cultura
giapponese. Studiare, servire la patria e sposarsi sono gli imperativi
categorici di un’esistenza tracciata sui binari del cieco conformismo e
dell’obbedienza. In una siffatta società non è lecito opporsi manifestamente,
né è dato ostentare la propria diversità; chi è ribelle o semplicemente
“diverso” è costretto ad indossare una maschera, dietro cui nascondere la
verace identità. Anche Kochan, a seguito della graduale e sofferta scoperta
della propria omosessualità, è costretto a ricorrere allo stratagemma della
finzione.
«La vita è un palcoscenico, dicono tutti. Ma non sembra che la gran maggioranza sia ossessionata da quest’idea, o perlomeno non sembra che lo sia in una fase precoce come successe a me. Addirittura alla fine dell’infanzia ero fermamente convinto che quella massima corrispondesse alla verità, e che io avrei dovuto recitare la mia parte sul palcoscenico senza mai tradire, neppure una volta, il mio autentico io.»
Tema centrale del romanzo è l’irrisolto conflitto, nell’animo del
protagonista, tra il desiderio di esprimere il proprio io più profondo e la
necessità di nasconderlo per rispetto delle convenzioni sociali. La maschera è
al tempo stesso una protezione e una gabbia, che consente di essere accettati
dagli altri al prezzo di soffocare le manifestazioni più autentiche dell’io. Il
protagonista ne diviene presto consapevole, quando si rende conto che il
proprio disinteresse verso le donne viene scambiato per la noia del consumato
seduttore, mentre nessuno sembra accorgersi della sua forte attrazione verso gli
uomini.
«Circa in quell’epoca cominciavo a comprendere vagamente il meccanismo del fatto che quanto il prossimo considerava una posa da parte mia era invece una manifestazione della necessità di affermare la mia natura genuina, mentre era per l’appunto una mascherata quello che il prossimo considerava il mio io genuino.»
Kochan, tuttavia, non si limita ad indossare una maschera, ma recita
attivamente la parte che il destino gli ha assegnato. E così, mentre nella
prima parte del romanzo si dedica a un’attività tutto sommato contemplativa,
nella seconda coinvolge nella sua macchinazione un altro essere umano, la
virginea Sonoko. Egli inizialmente agisce in perfetta buona fede, convinto di
essere innamorato della ragazza, al pari di tutti i suoi coetanei. Man mano che
Sonoko gli mostra il medesimo, ma sincero, attaccamento, Kochan sente nascere
dentro di sé il bisogno di fuggire da lei, come in effetti fa. Il dolore provato
matura in una nuova consapevolezza di sé, fino a sbocciare nella piena
accettazione della propria omosessualità.
Il romanzo è scritto in prima persona, con lo stile di un diario intimo;
la stessa parola “confessioni” nel titolo rende bene l’idea. La confessione è
al contempo rivelazione di un segreto e volontà di espiazione di una colpa, perché
se è vero che il protagonista non biasima mai la propria natura, è altrettanto
indubitabile che il suo goffo tentativo di farsi piacere una donna sia indice
della tortuosità dell’accettazione dei propri bisogni intimi.
Confessioni di una maschera è dunque in primis un romanzo di formazione,
o meglio, il racconto di un’autoeducazione sentimentale. Oltre la vicenda
individuale c’è però quella collettiva di un Paese in rapida trasformazione,
pronto ad affacciarsi alla modernità; ecco allora che Mishima osserva con occhio
sornione ma cinico la società giapponese a cavallo tra le due guerre,
tradizionalista ma costretta ad arrendersi al vento del cambiamento.
Copertina dell'edizione in abbinamento al quotidiano La Repubblica
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