Iniziamo l’anno col
botto, ospitando Massimo Priviero con un’appassionante intervista. Priviero non
necessita di presentazioni; tuttavia, per chi non lo conoscesse, basti dire che si tratta
di uno dei più importanti artisti rock italiani, uno dei pochi veri rocker
nostrani. Ha esordito nel 1988 con San
Valentino, cui ha fatto seguito l’importante LP Nessuna resa mai (1990), che si è avvalso della produzione di
Little Steven. Dopo tanti anni su e giù dai palchi e altri album, a novembre ha
festeggiato i primi trent’anni di carriera con un concerto/evento a Milano. Senza aggiungere altro, vi lascio
alle sue parole, con un’anticipazione in anteprima per i lettori del blog. Colgo
l’occasione per ringraziarlo di cuore per la gentilezza e la disponibilità.
Domanda. Partiamo dal
presente. A novembre hai festeggiato a Milano, con un concerto-evento, i tuoi
primi trent’anni di carriera. Quali emozioni ti rimarranno impresse di questo concerto?
Risposta. La bellezza
degli occhi di quella che chiamo la mia gente che ha riempito anche stavolta un
teatro. I sorrisi dei ragazzi della band. L’amore di mio figlio che è salito
sul palco per suonare la chitarra in una canzone di suo padre. La forza che
forse ancora una volta sono riuscito a far arrivare e che come sempre è tornata
verso di me.
D. Coerenza e libertà sono i titoli onorifici della tua carriera, “Nessuna resa mai” ne è invece il
manifesto. Si dice che essere liberi e fuori dalle regole del mercato
discografico abbia un prezzo da pagare. D’altronde,
nelle note biografiche sul tuo sito è scritto che sei «scappato dalla Warner con la necessità di essere prima di tutto un
uomo libero anche a scapito di certo successo commerciale». A
posteriori e con il senno di poi, ritieni sia stata una scelta giusta? Oppure
pensi che si possa barattare un po’ della propria libertà per un maggiore
successo commerciale?
R. Ogni uomo e ogni
artista a domanda si definirebbe libero. Nessuno ti direbbe che è prigioniero
di un sistema. Ma sono le balle che la gente ama raccontare e raccontarsi.
Essere uomini liberi e uomini veri, provarci fino in fondo intendo, è un
mestiere difficile e in verità ben poco praticato. A posteriori? A posteriori,
posto che ognuno di noi fa i conti nella vita con dei compromessi che ipotizza
di scegliersi, probabile che avrei dovuto alzare la mia voce e dire certe cose
quando avessi avuto più forza contrattuale per farlo. Si può fare più paura
quando sei più ascoltato. Ma in generale fai errori sempre, cadi e ti rialzi.
Solo un coglione, e son tanti ahimè, ti dice rifarei tutto quel che ho fatto
nella vita. Diffida di chi parla così. Comunque non baratterei mai un po’ di
successo in più con la mia anima. Anche se chi ha fatto questo, certamente lo
negherebbe. Perché se ne avesse del tutto coscienza potrebbe buttarsi sotto un
treno.
D. Una domanda sugli
esordi. Nessuna resa mai è uno dei
pochi dischi italiani ad essersi avvalso della produzione di un grande della
musica internazionale, Little Steven della E Street Band. La circostanza è
rimarchevole, soprattutto perché eri un artista giovane al secondo LP. Ne è
uscito fuori un disco importante, uno dei pochi pilastri di un certo rock
cantato in italiano. Potresti raccontarci qualcosa di Little Steven? Che tipo è
e quale contributo ha dato alla definizione del suono del disco?
R. Fu un bellissimo
tempo e Steve era ed è persona adorabile, oltre che gran musicista. Tutto
nacque in modo fortuito per un’amicizia comune, Guido Harari; io non ero
convinto della produzione di quell’album e lui si dichiarò orgoglioso di
affiancarmi dopo che ebbe ascoltato le canzoni. Virammo insieme verso un suono
molto minimale, senza alcun artefatto, costruendo tutto sulle chitarre e su
qualche strumento folk. Se vuoi come suono è un disco folk-rock ma anche grunge. Era anche qualcosa che accadeva negli
Usa ad inizio novanta mentre da noi si inseguiva ancora il suono fesso e finto
degli ottanta. Non fu scelta facile e certo i capi della Warner non si
strapparono i capelli per questo. Fessi e finti pure loro, del resto. Io e
Steven siamo ancora legati da grande stima e affetto e in tutti questi anni non
sono mancate occasioni di incontri felici e profondi.
D. Il disco che amo di
più è Testimone, del 2003. A mio
avviso è un lavoro emblematico, anche per il suo collocarsi esattamente a metà
strada dei primi trent’anni di carriera. È dunque uno spartiacque, che contiene
canzoni straordinarie per profondità di scrittura, come Fratellino, Nikolajevka, Cielo chiaro e Alice. Hai ricordi particolari legati alla realizzazione del disco,
oppure alla stesura delle canzoni?
R. Mi fa piacere che
parli di Testimone. Si, hai ragione.
E’ un album che vedo molto come spartiacque e se vuoi inizio di una seconda
carriera, se così la vuoi chiamare. Diciamo che da Testimone mi riesce di diventare “tanto per pochi”, anche se per
esempio riempire a Milano Alcatraz e teatri da indipendente e senza particolari
supporti ti assicuro che non è impresa facile. Credo che Testimone sia l’album in cui mi approprio in prima persona
parecchio del mio linguaggio e del mio suono, al di là della forza maggiore o
minore delle canzoni. Ecco, tornando a bomba, ti direi che è l’album in cui
sono quasi del tutto un artista libero. Ho molti ricordi. In particolare sulla
scrittura di Nikolajevka legata alla
frequentazione di Mario Rigoni Stern. Si può essere molto più “rock” parlando
di alpini in Russia che di bar in Emilia. Almeno questa è la mia opinione.
D. Il tuo ultimo album di inediti, All’Italia, è una profonda riflessione sul nostro Paese. Tu che lo
giri in lungo e in largo per mestiere, probabilmente hai una visione
privilegiata dei cambiamenti che sono intervenuti negli ultimi trent’anni.
Restando sul discorso musicale, pensi che ci sia ancora tra le persone quella
vera e propria sete di musica che c’era un tempo? In parole povere, ha ancora
un senso essere cantautori (o come dir si voglia) nell’epoca che stiamo
vivendo, così poco poetica?
R. Sono felice di aver
fatto All’Italia. Felice di essere
andato dentro alle sue storie e di essermi spostato ad osservarle. Immagina uno
che si appoggia ad un muro e vede delle storie che gli passano davanti così
forti che lo portano a mettere da parte se stesso. Comunque la mia opinione,
venendo alla tua domanda, è che viviamo un mondo da dividere 90 e 10. Nel senso
che il 90% della massa, che così pure ha prodotto chi ci governa, è fatto da
idioti. La stessa cosa la puoi trasportare nella musica, in quello che senti e
che vedi. Nel sistema di valori, nella prassi quotidiana, nei rapporti umani.
Decidi tu. La domanda da farti è se ha senso essere quello che sei e fare
quello che fai per quel 10 per cento dentro il quale pensi, e a volti ti
illudi, di essere. Se la riposta, come è nel mio caso, è positiva, allora vai
avanti. Il 10 per cento può anche essere tanto e può essere pure bellissimo
bussare alla loro porta.
D. La tua discografia è intesa come una linea retta, cioè ha una
direzione precisa, oppure segue i moti momentanei del cuore e dello spirito?
R. La mia musica è
prima di tutto la parte emotiva. Poi, è per principio matematica ed emozione.
In questo mix possono nascere, talvolta, cose irripetibili e meravigliose che
danno un senso alla vita. Così è accaduto per me. Diciamo, per quel che mi
riguarda, che ancora tendo a far vincere la parte emozionale senza mettere
davanti il mestiere che ormai faccio da 30 anni. Anzi, a dirla tutta, il giorno
che in me vincerà il mestiere sarà forse il momento in cui dovrò trovarmene un
altro.
D. Se dovessi dare una definizione di te come artista, quale useresti?
R. Meglio che lo
facciano gli altri! Tornando ai concetti di prima forse ti direi che amo e
cerco di essere prima di ogni cosa un uomo vero, da lì poi discende tutto il
resto. Poi ognuno può dire ovviamente la sua su come scrivo, suono, canto o
come sto su un palco. Ecco, diciamo che sono nella vita molto quello che
scrivo, suono e canto. Nelle mie canzoni trovi quel che sono, se decidi di
cercarmi Nel mio bene e nel mio male.
D. Chiudiamo guardando al futuro. Quali progetti hai in cantiere, sul
palco e su disco?
R. Ah, tra qualche
mese uscirà un libro che ho scritto. Fai conto una cosa tra autobiografia,
autocoscienza, romanzo. Pensa a un uomo che prova dopo tanti anni di strada a
vedere i propri occhi riflessi sull’acqua. Anzi, sull’acqua del mare dove è
cresciuto tanto tempo fa. Sul versante musicale sto ragionando in questi giorni
e in futuro prossimo saprò essere più preciso. Grazie e a presto.
Massimo Priviero sul palco per i trent'anni di carriera (foto tratta dal sito ufficiale)
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