Se si riuscisse a trovarne di adatte, basterebbero poche parole per
definire questo “scandaloso” romanzo di Bigiaretti, pubblicato nel 1968 e
vincitore nello stesso anno del prestigioso Premio Viareggio. Si potrebbe
allora parlare di un giovane uomo e delle sue nevrosi, oppure di un atto
d’accusa contro il perbenismo e le convenzioni. Entrambe sono ottime chiavi di
lettura, ma parziali. Il significato profondo del libro è infatti l’analisi di
un male che va al di là dell’individuo, senza tuttavia diventare globale. È il male di una precisa classe sociale, della porzione di società
civile che va sotto il nome di borghesia, concetto oggi
forse inattuale, ma vivo nel dibattito letterario degli anni Sessanta. A
mio avviso, si tratta di un romanzo profondamente “moraviano”, in primis
perché i personaggi sono figli della media borghesia romana annoiata ed
elitaria, apparentemente oppressa dai lacci della convenzione e desiderosa di
liberarsene, ma in fondo conservatrice e ottusa. Una classe che condanna per
gioco intellettuale i privilegi del proprio status, ma che intimamente li
desidera, non potendone fare a meno.
Il protagonista, il cui nome non ci viene rivelato, è un trentenne di buona
famiglia, per l’appunto avvelenato da un sottile male di vivere, un disagio
esistenziale che potrebbe chiamarsi “noia”, per utilizzare un altro concetto
moraviano. Affida il resoconto del proprio disagio ad un registratore a nastro,
imprimendolo su bobine custodite gelosamente e ignote agli altri. È sposato
con Lucia, poco più che una bambina, una Lolita diciannovenne dall'energia
incontenibile, i cui slanci emotivi egli riesce a contenere a fatica. La coppia
si trova in una località balneare del Montenegro, selvaggia e poco affollata,
scelta per fuggire dal caos dell’estate romana. Il protagonista è attraversato
da una strisciante inquietudine, all'apparenza perché geloso della giovane
moglie, infatuatasi di una specie di beat americano. In verità, è
ossessionato dalla passione irrefrenabile e inconfessabile per una donna
quarantenne. Nora, questo il nome della
misteriosa femme fatale, è l’antitesi di Lucia; per la precisione, ne è
la controfigura.
«A volte la sua immagine nasce da quella di Lucia; è la sua controfigura, nel senso che interpreta parti che Lucia non sa fare. È più grande di Lucia, più donna, più tutto. […] Lucia non sospetta: forse suppone che io coccoli una nevrosi che mi rende astratto e indifferente.»La metafora della controfigura rende benissimo l’idea. Nora è la controfigura di Lucia, perché si sovrappone a questa nella mente del marito, sostituendola nelle “scene” che la ragazza non sa interpretare. La sua è dunque una presenza invisibile ma necessaria, proprio come la controfigura nei film d’azione, tanto più ingombrante perché Nora è la madre di Lucia. Il triangolo incestuoso e onirico è dunque il tema centrale del romanzo, l’aspetto scandaloso della storia.
Il romanzo è costruito in maniera pulita e lineare, ravvivato da uno stile
piacevolmente colloquiale, che non indulge in intellettualismi. Bigiaretti
utilizza la narrazione in prima persona, che gli consente di scandagliare nel
profondo l’animo del protagonista, che si confessa senza remore al lettore. Non
c’è pentimento o vergogna nei pensieri e nelle azioni, che anzi ritiene
perfettamente leciti. Sia pure ingenuamente, egli cerca di giustificare la
propria condotta, rifacendosi ad una visione primitiva dei rapporti umani, non
artefatta dalle convenzioni sociali. La passione è passione, l’istinto non può
fermarsi di fronte ad un dato morale e giuridico, ma non naturalistico, qual è
il rapporto di parentela. In ciò si sostanzia la ribellione del protagonista ai
valori della società borghese, una rivolta che infine sfocia in un inconsulto
gesto violento.
A distanza di cinquant'anni dalla pubblicazione, La controfigura mantiene
un'insospettabile freschezza, pur restando un figlio del tempo in cui fu
scritto. Meriterebbe di essere riscoperto e ristampato.
Copertina di un'edizione Mondadori del 1973
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