«Nessuno può conoscere il cielo se non per mezzo del cielo», scriveva il poeta latino Manilio
nella sua opera più celebre, gli Astronomica.
E lo faceva con la sicurezza di chi enuncia una verità indiscutibile, che
non ammette eccezioni o mezze misure. Difficile contraddirlo. D'altronde, non è
forse vero che si può capire appieno solo ciò che ci appartiene nella sua totalità?
Marco Manilio andava oltre, toccando abilmente un concetto più ampio, e sostenendo
che solo chi è parte del divino può comprendere il vero e profondo significato
della divinità. Del saggio poeta latino non conosco altro, eppure questa citazione
mi è rimasta impressa nella mente, da quando la adocchiai sfogliando una
vecchia antologia del Paratore. Come spesso accade con le citazioni carpite al
volo, l'ho interpretata a modo mio, dandole più o meno questo significato: per
dire di conoscere davvero una realtà, occorre padroneggiarla nei dettagli,
saperla scandagliare nelle intime connessioni. Il cielo e la divinità, ci
avverte Manilio, sono entità talmente vaste per la nostra piccola mente, che
soltanto chi è fatto della medesima sostanza può appropriarsene.
Le sue parole mi sono
tornate alla mente qualche anno fa, quando ho avuto occasione di chiacchierare
a lungo con Emiliano, un brillante poeta carrarese conosciuto ad
un premio letterario. Anche lui fa parte della foltissima schiera di quanti
scrivono poesie, ma a differenza di molti è un poeta vero. Devoto alla metrica
e alle regole del verso, è riuscito in due ore di conversazione a cambiare
definitivamente il mio punto di vista. Fino ad allora anche io mi illudevo di
scrivere liriche, ma Emiliano mi spiegò chiaramente che può definirsi poeta
solo chi conosce le regole della metrica. Egli sosteneva di aver iniziato a
scrivere dopo anni ed anni di studio incessante, perché, parafrasando Manilio,
non si può scrivere poesia se non per mezzo della metrica, che ne è l'essenza
profonda. Da quando ho scoperto questa verità non ho più scritto in versi,
consapevole che i miei componimenti, che pure mi piacevano e giudicavo
discretamente musicali e simmetrici, non erano vera poesia, perché non
possedevo le regole della metrica e dunque non aveva senso illudersi di
infrangerle in nome del verso libero.
In troppi credono che sia
sufficiente “andare a capo” per dirsi poeti. Basta sfogliare una qualsiasi
delle centinaia di antologie – che furbe case editrici pubblicano elevandosi a portabandiera delle nuove
voci poetiche – per rendersi conto che la maggior parte di quanti si dicono
poeti, e hanno il coraggio di far pubblicare le proprie opere, si limitano a
proporre imbarazzanti “prose in versi”, ovvero pensieri, per giunta poco
originali, che della poesia hanno soltanto l'apparenza. Non c'è
metrica, non c'è musicalità, nessuno studio sulle parole. Queste persone
sembrano ignorare, volutamente o meno, che la lirica è opera di
scortecciamento, dunque tanto più complicata della prosa. Poetare non è
semplicemente tradurre in versi un pensiero che avrebbe potuto ben essere
espresso in prosa, quanto piuttosto capacità di elaborare un concetto
utilizzando un linguaggio diverso, scarnificato ed essenziale. Se non fosse
così, non ci sarebbe alcuna differenza tra il linguaggio poetico e il linguaggio
tecnico, tra un canto di Leopardi e la definizione di contratto di cui all'art.
1321 del codice civile.
Di fronte a queste
considerazioni, molti innalzano barricate difensive in nome dell'avanguardia, dell'innovazione,
della lotta al passatismo. Affermando di voler contrastare il trito pensiero
accademico, si fanno alfieri del “verso libero”. Essi però confondono il verso
libero con quello libertario, con lo sterile anarchismo della parola che non
conduce a niente. Ecco dunque il senso della celebre affermazione di Benedetto
Croce, secondo cui fino ai diciotto anni tutti scrivono poesie, mentre dopo lo
fanno soltanto i poeti veri e i cretini.
Così argomentando, si
arriva alla conclusione del discorso: si può rompere la regola solo se la si
conosce, si può andare oltre la metrica solo se la si padroneggia veramente.
Ritorna prepotente il discorso di Manilio, sia pure applicato ad un ambito ben
differente da quello a cui pensava l’autore. La poesia «è vivere verticalmente ciò che gli altri di solito subiscono
orizzontalmente», ha affermato Gian Piero Bona in una recente intervista. Il
poetare è dunque una sublimazione dei sentimenti, la capacità di trasformare
l'impulso emotivo animale verso fini più elevati, di imporre il proprio spirito
sul mondo anziché subirlo passivamente. Se le cose stanno così, se davvero
vogliamo attribuire un compito così alto alla parola, molti di quelli che si
dicono poeti dovrebbero riporre la penna e ridursi a più miti consigli.
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