È cosa nota che i personaggi di Svevo siano diventati veri e propri
archetipi letterari dell'uomo moderno, o meglio novecentesco. Alfonso Nitti,
Emilio Brentani e soprattutto Zeno Cosini non sono semplici nomi, ma simboli di
un'umanità neghittosa, miope e nevrotica, così lontana dalle figure di eroi che
popolavano i romanzi dell'Ottocento. Una retorica della sconfitta, dunque, in
antitesi ad una società destinata ad affermarsi come patria dei belli e
vincenti.
All'epoca di Una vita (1892), Svevo era una
figura marginale, per non dire sconosciuta, del panorama letterario nazionale.
Già la collocazione geografica ne accentuava l'isolamento, nella Trieste
crocevia di razze e culture, né del tutto italiana né propriamente asburgica,
che pure diventerà un centro nevralgico della nostra letteratura. Soprattutto,
contribuiva al suo isolamento il non appartenere ad alcuna delle correnti più
in voga: il verismo da un lato e il decadentismo dall'altro. Logico fu allora
percorrere una strada non ancora battuta in Italia, con la costruzione di
caratteri dotati di una spiccata capacità introspettiva, votati alla sterile
analisi più che all'azione, bloccati in un'amara contemplazione del vivere.
Alfonso Nitti è il primo e più tragico della
trilogia, ma già contiene in nuce tutti i sintomi della “malattia” del più
celebre Zeno della Coscienza. È un inetto, ed è storia risaputa che Un inetto
era proprio il titolo che Svevo aveva in mente in origine, poi bocciato
dall'editore. La grama esistenza di Alfonso ruota intorno a quattro centri: il
paese natale, la Banca Maller & Co., casa Lanucci e il salotto di Annetta. Il paese,
o meglio “il villaggio”, è un'oasi di pace in un mare di disperazione; è il
luogo degli affetti, le braccia accoglienti in cui rifugiarsi quando la vita
cittadina mostra i suoi affilati artigli. La Banca del signor Maller è dove il
protagonista lavora, prima nell'ufficio della corrispondenza e poi nella
contabilità. La Banca è un covo di vipere, avvelenata com'è da dissapori,
pettegolezzi e piccolezze, dove ciascun impiegato cerca di adottare la migliore
strategia per lavorare poco e ingraziarsi egualmente i capi. Alfonso non è
coinvolto in tali beghe, perché per lui la carriera rappresenta un pericolo
alla sua libertà, un veleno che rischia di intossicargli l'anima e la purezza
del pensiero; il suo atteggiamento arrendevole lo porterà dunque ad essere un
outsider. Casa Lanucci, in cui Alfonso è pensionante, è invece l'emblema di una
piccola borghesia gretta e immiserita, intorpidita da irrealizzabili miraggi
di ricchezza e scalata sociale. Ma il luogo che cambierà in tragedia le sorti
del povero Alfonso è il salotto di Annetta Maller, figlia del fondatore della
Banca, che verrà da lui sedotta e abbandonata, esponendolo così a una
tremenda vendetta.
Di fronte ad una realtà così ostile, il
protagonista trova conforto solo nel suo mondo interiore, popolato da pensatori
e filosofi che gli si materializzano nelle lunghe ore trascorse nella
biblioteca pubblica, in cui coltiva sogni di grandezza intellettuale. Ettore
Bonora l'ha definito un “personaggio antiromanzesco”, perché Alfonso sogna ardentemente
di vivere un'avventura eccezionale, ma, quando questa si palesa, egli fugge terrorizzato
anziché affrontarla. La cesura tra Alfonso e gli altri, o meglio, tra la sua
immaginazione e il mondo reale, è probabilmente il fulcro dell'opera, segnando
al contempo lo scarto decisivo rispetto a tutta la letteratura precedente. Eppure
il Nitti non è un “vinto”, perché pure gli manca quella strenua ma inutile
resistenza contro gli eventi, a cui viceversa si abbandona senza gloria. Neppure
è uno Jakob von Gunten, il personaggio di Walser, che addirittura frequentava
una scuola per servitori per poter diventare uno «zero, rotondo come una
palla». Alfonso ha infatti un'alta considerazione di sé e delle proprie doti
intellettuali, eppure si sente un «incapace
alla vita».
«Egli invece si sentiva incapace alla vita. Qualche cosa, che di spesso aveva inutilmente cercato di comprendere, gliela rendeva dolorosa, insopportabile. Non sapeva amare e non godere; nelle migliori circostanze aveva sofferto più che gli altri nelle più dolorose».
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