31 ottobre 2019

La Storia passa per Vienna: il nuovo albo di Martin Mystère

Nel numero di agosto/settembre, nello spazio dedicato alle anticipazioni, Alfredo Castelli aveva risposto con la consueta ironia agli uccelli del malaugurio che da anni puntualmente annunciano – o forse addirittura auspicano – la chiusura della serie. Il creatore di Martin Mystère ha rivelato che senza dubbio la serie chiuderà, ma solo perché, come tutte le creazioni umane, ha avuto un inizio e avrà una fine. Nessuna chiusura imminente, dunque, a beneficio degli appassionati. Soprattutto, si spera che le parole di Castelli mettano a tacere una volta per tutte le malelingue.
Il numero 365 (ottobre/novembre 2019) attualmente in edicola, intitolato La grande epidemia, è in qualche misura il segno della vitalità della testata, sebbene sia fisiologico un calo di ispirazione dopo trentasette anni di presenza costante nelle edicole italiane. Ho parlato di vitalità del personaggio perché Martin sembra vivere una seconda giovinezza: è atletico, poco propenso a dilungarsi in lunghi monologhi, pronto invece a fare a botte e persino a calarsi da un condotto di aerazione grazie ad una tecnica appresa ad Agarthi. Al tempo stesso, però, si ravvisa un calo d'ispirazione per l'utilizzo di alcuni espedienti narrativi ormai abusati, un ritornello sentito troppe volte. Parlo dell'irruzione dell'ennesima setta segreta non meglio identificata, oppure dell'esplosione finale che risolve tutti i problemi, soluzione forse catartica ma fin troppo sbrigativa. Al di là dei limiti, se si legge l'albo senza preoccuparsi della continuity pretesa dagli appassionati di lungo corso, si riscontrano almeno tre punti di forza. Il primo è nei disegni di Romanini, che si mantiene fedele al personaggio e al contempo ci regala una molteplicità di figure di sfondo e contorno, ivi compresa una manciata di belle ragazze. Mi è poi piaciuta la maggiore propensione all'azione rispetto ad alcuni albi del recente passato, in cui predominavano i toni eruditi e gli immancabili “spiegoni”. La grande epidemia è invece un'avventura incentrata sul presente, che possiede il serrato andamento di una storia di spionaggio e sorprende con diversi colpi di scena. Inoltre, viene affrontato un tema quanto mai attuale, ossia il cambiamento climatico e le strategie da attuare al più presto per salvare il pianeta.
La vicenda, sceneggiata da Belli con i disegni di Romanini, è interamente ambientata a Vienna, dove il Buon Vecchio Zio Marty è invitato a presentare l'edizione austriaca in versione economica dei suoi libri. Nella città asburgica, tanto per cambiare, si sta verificando un evento senza precedenti, una vera e propria epidemia di suicidi che colpisce inspiegabilmente persone che non hanno una ragione per togliersi la vita. Partendo da questa “grande epidemia”, la storia prende una piega imprevista, che porterà il Detective dell'impossibile a venire a contatto con un oggetto antichissimo dalle proprietà esoteriche, che i cattivi di turno vogliono utilizzare per indirizzare le sorti del mondo e conformare l'umanità sotto un pensiero unico monolitico.
È un'avventura vissuta quasi interamente in solitaria, mancando i soliti comprimari; Martin ha così modo di esaltare le proprie doti, su tutte l'intuito, l'altruismo e la totale libertà di pensiero. Il nostro eroe viene messo di fronte ad un quesito: è giusto barattare la libertà per la salvezza? O meglio, è giusto salvare l'umanità e la Terra pagando il prezzo di un pensiero unico, della sottomissione e dell'annullamento di ogni individualità? Martin non ha dubbi e risponde di no, perché per lui la libertà viene prima di ogni cosa e la salvezza dell'umanità non può essere imposta, ma deve essere il risultato di scelte ponderate e condivise. Il punto più interessante dell'albo è proprio questo: i cattivi sono paradossalmente quelli che vorrebbero salvare il pianeta, sia pure attraverso un progetto aberrante. Martin Mystère, invece, si oppone al loro piano, perché sa vedere le cose da un profilo morale più elevato.
Sperando di non aver svelato troppo della trama, consiglio la lettura di questo numero 365, che peraltro ci rinfresca la memoria su uno degli eventi decisivi della storia europea e della nostra cultura, ossia l'assedio di Vienna del 1638 da parte degli Ottomani. Unico neo, come già detto, il finale troppo frettoloso. Spero che in futuro vengano adottate soluzione diverse, per garantire ancora longevità e successo alla serie.
Martin Mystère n. 365 - La grande epidemia - Ott/Nov 2019

18 ottobre 2019

"Secondhand Daylight", l'anello di congiunzione tra punk e new wave

A differenza di altri gruppi guidati da un leader carismatico, quando si parla dei Magazine ne viene esaltato il lavoro di squadra. In effetti il cantato insinuante e velenoso di Howard Devoto non sortirebbe il medesimo effetto straniante sull'ascoltatore senza le bordate della chitarra elettrica di John McGeoch e gli ipnotici tappeti su cui viaggiano le tastiere di Dave Formula. La formazione, completata da Barry Adamson al basso e da John Doyle alla batteria, nacque nel 1977, quando Devoto, lasciati i Buzzcocks e il loro primordiale pop-punk, decise di virare verso un suono più complesso, fondando un gruppo pronto a sperimentare idee innovative.
Secondhand Daylight (1979) è il secondo LP dei Magazine; ad ascoltarlo sembra proprio che il punk sia morto e sepolto da un pezzo, sebbene fossero passati quattro anni o poco più dalla sua esplosione. Il suono dei Magazine è ruvido ma elaborato, con canzoni dilatate oltre i quattro minuti, fino a giungere ai sette di Back to nature. C'è chi parla di post-punk, chi li celebra come i veri pionieri della new wave, chi li colloca nell'art-punk per l'attitudine sperimentale, quasi d'avanguardia. Tutti hanno ragione, in un modo o nell'altro; volendo, si può riassumere il discorso affermando che la band di Manchester ha socchiuso, neppure tanto timidamente, una porta che altri e più energicamente avrebbero spalancato. L'album vive principalmente degli intrecci di chitarre e tastiere dei due virtuosi Formula e McGeoch, quest'ultimo definito da molte riviste specializzate come il chitarrista tecnicamente più dotato della stagione punk.
Il trittico iniziale è maestoso. Si apre con la sontuosa Feed the enemy, che cala l'ascoltatore nelle visioni conturbanti della mente di Howard Devoto, con gli esemplari versi «it's always raining over the border / there's been a plane crash out there in the wheatfields; / they're picking up the pieces, / we could go and look and stare». La successiva Rhytm of cruelty è l'esempio della naturale evoluzione del rock dei tardi Settanta, l'emblema del post-punk; non a caso le musiche sono scritte da McGeoch e Adamson. Con Cut-out shapes si ritorna ad atmosfere cupe e visionarie, scandite da un ritmo più compassato. Chiudono la facciata la trascurabile Talk to the body e l'energica I wanted your heart  
Il lato B si apre con The thin air, uno strumentale per sole tastiere, impreziosito nel finale dal sassofono suonato da McGeoch. Il brano funge essenzialmente da apripista a Back to nature, la traccia più matura e complessa del disco. Sono sette minuti di fuga sperimentale e continui cambi di ritmo, in cui Devoto – pur non essendo particolarmente dotato dal punto di vista vocale – dà il meglio di sé, alternando sussurri e improvvisi slanci acuti. Ancora una volta, però, sono McGeoch e Formula il vero motore della band. Il disco si conclude con la dimenticabile Believe that I understand e il funebre incedere di Permafrost, una delle composizioni più celebri di Devoto, che ci regala una perla sadica come «as the day stops dead / at the place where we're lost / I will drug and fuck you / on the permafrost».
Cristallino il talento, eppure i Magazine non sono tra i gruppi del periodo che vengono ricordati spesso, sebbene godano di un certo credito tra gli appassionati; basti pensare che Secondhand Daylight raggiunse al massimo la posizione n. 38 tra i dischi più venduti nel Regno Unito nel 1979. La ragione risiede probabilmente in quello che è anche il suo punto di forza: essere l'anello di congiunzione tra un recente passato già ammuffito (il punk) e un futuro incerto, ancora tutto da scrivere (la new wave).

6 ottobre 2019

"Un'anima persa" di Giovanni Arpino: ogni uomo ha il suo Doppio

Il romanzo, tra i più celebri di Arpino, è un meccanismo narrativo perfetto, che avvince il lettore dal misterioso inizio al sorprendente finale. Come correttamente rilevato da molti critici, Un'anima persa è debitore della grande tradizione del romanzo nero ottocentesco, da cui Arpino ha attinto a piene mani per le atmosfere e la tensione inespressa e indecifrabile che ne attraversa le pagine. Anche la tematica principale, quella del "doppio", è di matrice prettamente ottocentesca, con Stevenson e Dostoevskij a fare da apripista.
Tino, il giovane protagonista, è un orfano appena uscito dal collegio, in procinto di affrontare gli esami di maturità a Torino, dove viene ospitato dagli zii. La casa, circondata da un pallido giardino, si trova in una zona lontana dal centro cittadino e tuttavia non propriamente isolata, un po' avamposto della campagna e un po' propaggine estrema della metropoli. È un edificio a due piani, labirintico e vasto, pieno di anditi, sgabuzzini oscuri e lunghi corridoi costellati di porte chiuse. Di notte la casa si risveglia, attraversata com'è da spifferi vocianti e sinistri scricchiolii. Gli abitanti sono quattro, ma solo tre si palesano apertamente: la zia Galla, la serva Annetta e lo zio, l'altero Serafino Calandra, detto l'Ingegnere. Il quarto inquilino è il Professore, fratello gemello dell'Ingegnere, che vive recluso in una stanzetta al secondo piano. È affetto da una non meglio precisata malattia mentale, che gli impedisce di avere contatti con gli altri; solo l'Ingegnere è ammesso al cospetto del Professore pazzo, che viene servito e riverito con encomiabile devozione. Ed è proprio la follia ad aleggiare su tutti i personaggi, fino al convulso finale che non intendo rivelare.
Dietro gli scenari da romanzo nero, si cela il tema più profondo toccato da Arpino: l'ambivalenza dell'essere umano, diviso tra l'immagine apparente di sé, ovvero quella socialmente imposta e accettata, e la sua essenza più profonda, occultata perché pericolosa o comunque non approvata dagli altri. È la figura del “doppio”, quale manifestazione irriflessiva dell'io più profondo, da nascondere sotto rassicuranti sembianze. Tutti i personaggi celano qualcosa, non solo il folle Professore; soprattutto, tutti sembrano provenire da un circo degli orrori, più simili a caricature che ad esseri umani. Anche Torino subisce lo stesso processo di trasfigurazione: livida e deserta, si illumina soltanto nelle notti viziose, mentre di giorno persino la sua proverbiale operosità è in letargo.
Conclusa la lettura, il pensiero va immediatamente alla vasta categoria del romanzo di formazione, cui certamente Un'anima persa appartiene, anche se in un'accezione particolare. La vicenda di cui Tino è testimone, sebbene duri appena cinque giorni, trasforma il ragazzo, cambiandone per sempre la percezione del mondo. Abituato alla vita anestetizzata del collegio, viene catapultato in una dimensione estranea e incomprensibile, che rimarrà tale nonostante gli strenui tentativi di comprenderla o di trarne un insegnamento. L'ultima pagina è esemplare in tal senso: Tino è steso nel suo letto, incapace di prendere sonno, avvinto da una strisciante paura che è ormai diventata il suo ambiente naturale. Vorrebbe parlare con qualcuno di quanto ha visto e sentito, ma è consapevole che dovrà tenere tutto dentro di sé. L'ambigua vicenda dell'ingegner Calandra è «l'unica storia che il mondo degli adulti ha saputo dargli come ammaestramento», per quanto sia oscura, torbida e inestricabile. Per questa ragione ho parlato di un romanzo di formazione sui generis, in quanto l'unico possibile sviluppo è l'approdo ad uno stadio ulteriore di confusione.
A distanza di oltre cinquant'anni dalla sua pubblicazione (1966), Un'anima persa resta un romanzo potente e attuale, una storia senza tempo che lancia un drammatico interrogativo.
«Possiamo noi oggi attribuire soltanto a pazzia una così lucida e antica decisione di esistere in altro modo, di sopravvivere al di là di se stesso e dell'unica immagine che gli altri concedono ad un uomo?»