6 ottobre 2019

"Un'anima persa" di Giovanni Arpino: ogni uomo ha il suo Doppio

Il romanzo, tra i più celebri di Arpino, è un meccanismo narrativo perfetto, che avvince il lettore dal misterioso inizio al sorprendente finale. Come correttamente rilevato da molti critici, Un'anima persa è debitore della grande tradizione del romanzo nero ottocentesco, da cui Arpino ha attinto a piene mani per le atmosfere e la tensione inespressa e indecifrabile che ne attraversa le pagine. Anche la tematica principale, quella del "doppio", è di matrice prettamente ottocentesca, con Stevenson e Dostoevskij a fare da apripista.
Tino, il giovane protagonista, è un orfano appena uscito dal collegio, in procinto di affrontare gli esami di maturità a Torino, dove viene ospitato dagli zii. La casa, circondata da un pallido giardino, si trova in una zona lontana dal centro cittadino e tuttavia non propriamente isolata, un po' avamposto della campagna e un po' propaggine estrema della metropoli. È un edificio a due piani, labirintico e vasto, pieno di anditi, sgabuzzini oscuri e lunghi corridoi costellati di porte chiuse. Di notte la casa si risveglia, attraversata com'è da spifferi vocianti e sinistri scricchiolii. Gli abitanti sono quattro, ma solo tre si palesano apertamente: la zia Galla, la serva Annetta e lo zio, l'altero Serafino Calandra, detto l'Ingegnere. Il quarto inquilino è il Professore, fratello gemello dell'Ingegnere, che vive recluso in una stanzetta al secondo piano. È affetto da una non meglio precisata malattia mentale, che gli impedisce di avere contatti con gli altri; solo l'Ingegnere è ammesso al cospetto del Professore pazzo, che viene servito e riverito con encomiabile devozione. Ed è proprio la follia ad aleggiare su tutti i personaggi, fino al convulso finale che non intendo rivelare.
Dietro gli scenari da romanzo nero, si cela il tema più profondo toccato da Arpino: l'ambivalenza dell'essere umano, diviso tra l'immagine apparente di sé, ovvero quella socialmente imposta e accettata, e la sua essenza più profonda, occultata perché pericolosa o comunque non approvata dagli altri. È la figura del “doppio”, quale manifestazione irriflessiva dell'io più profondo, da nascondere sotto rassicuranti sembianze. Tutti i personaggi celano qualcosa, non solo il folle Professore; soprattutto, tutti sembrano provenire da un circo degli orrori, più simili a caricature che ad esseri umani. Anche Torino subisce lo stesso processo di trasfigurazione: livida e deserta, si illumina soltanto nelle notti viziose, mentre di giorno persino la sua proverbiale operosità è in letargo.
Conclusa la lettura, il pensiero va immediatamente alla vasta categoria del romanzo di formazione, cui certamente Un'anima persa appartiene, anche se in un'accezione particolare. La vicenda di cui Tino è testimone, sebbene duri appena cinque giorni, trasforma il ragazzo, cambiandone per sempre la percezione del mondo. Abituato alla vita anestetizzata del collegio, viene catapultato in una dimensione estranea e incomprensibile, che rimarrà tale nonostante gli strenui tentativi di comprenderla o di trarne un insegnamento. L'ultima pagina è esemplare in tal senso: Tino è steso nel suo letto, incapace di prendere sonno, avvinto da una strisciante paura che è ormai diventata il suo ambiente naturale. Vorrebbe parlare con qualcuno di quanto ha visto e sentito, ma è consapevole che dovrà tenere tutto dentro di sé. L'ambigua vicenda dell'ingegner Calandra è «l'unica storia che il mondo degli adulti ha saputo dargli come ammaestramento», per quanto sia oscura, torbida e inestricabile. Per questa ragione ho parlato di un romanzo di formazione sui generis, in quanto l'unico possibile sviluppo è l'approdo ad uno stadio ulteriore di confusione.
A distanza di oltre cinquant'anni dalla sua pubblicazione (1966), Un'anima persa resta un romanzo potente e attuale, una storia senza tempo che lancia un drammatico interrogativo.
«Possiamo noi oggi attribuire soltanto a pazzia una così lucida e antica decisione di esistere in altro modo, di sopravvivere al di là di se stesso e dell'unica immagine che gli altri concedono ad un uomo?»

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