Il romanzo, tra i più celebri di Arpino, è un
meccanismo narrativo perfetto, che avvince il lettore dal misterioso inizio al
sorprendente finale. Come correttamente rilevato da molti critici, Un'anima
persa è debitore della grande tradizione del romanzo nero ottocentesco, da cui
Arpino ha attinto a piene mani per le atmosfere e la tensione inespressa e indecifrabile che ne attraversa le pagine. Anche la tematica principale, quella
del "doppio", è di matrice prettamente ottocentesca, con Stevenson e Dostoevskij
a fare da apripista.
Tino, il giovane protagonista, è un orfano
appena uscito dal collegio, in procinto di affrontare gli esami di maturità a Torino,
dove viene ospitato dagli zii. La casa, circondata da un pallido giardino, si
trova in una zona lontana dal centro cittadino e tuttavia non propriamente
isolata, un po' avamposto della campagna e un po' propaggine estrema della
metropoli. È un edificio a due piani, labirintico e vasto, pieno di anditi,
sgabuzzini oscuri e lunghi corridoi costellati di porte chiuse. Di notte la
casa si risveglia, attraversata com'è da spifferi vocianti e sinistri
scricchiolii. Gli abitanti sono quattro, ma solo tre si palesano apertamente:
la zia Galla, la serva Annetta e lo zio, l'altero Serafino Calandra, detto
l'Ingegnere. Il quarto inquilino è il Professore, fratello gemello
dell'Ingegnere, che vive recluso in una stanzetta al secondo piano. È affetto
da una non meglio precisata malattia mentale, che gli impedisce di avere
contatti con gli altri; solo l'Ingegnere è ammesso al cospetto del Professore
pazzo, che viene servito e riverito con encomiabile devozione. Ed è proprio la
follia ad aleggiare su tutti i personaggi, fino al convulso finale che non
intendo rivelare.
Dietro gli scenari da romanzo nero, si cela
il tema più profondo toccato da Arpino: l'ambivalenza dell'essere umano, diviso
tra l'immagine apparente di sé, ovvero quella socialmente imposta e accettata,
e la sua essenza più profonda, occultata perché pericolosa o comunque non
approvata dagli altri. È la figura del “doppio”, quale manifestazione
irriflessiva dell'io più profondo, da nascondere sotto rassicuranti sembianze. Tutti
i personaggi celano qualcosa, non solo il folle Professore; soprattutto, tutti
sembrano provenire da un circo degli orrori, più simili a caricature che ad
esseri umani. Anche Torino subisce lo stesso processo di trasfigurazione:
livida e deserta, si illumina soltanto nelle notti viziose, mentre di giorno
persino la sua proverbiale operosità è in letargo.
Conclusa la lettura, il pensiero va
immediatamente alla vasta categoria del romanzo di formazione, cui certamente
Un'anima persa appartiene, anche se in un'accezione particolare. La vicenda di
cui Tino è testimone, sebbene duri appena cinque giorni, trasforma il ragazzo,
cambiandone per sempre la percezione del mondo. Abituato alla vita
anestetizzata del collegio, viene catapultato in una dimensione estranea e incomprensibile, che rimarrà tale nonostante gli strenui tentativi di
comprenderla o di trarne un insegnamento. L'ultima pagina è esemplare in tal
senso: Tino è steso nel suo letto, incapace di prendere sonno, avvinto da una
strisciante paura che è ormai diventata il suo ambiente naturale. Vorrebbe
parlare con qualcuno di quanto ha visto e sentito, ma è consapevole che dovrà
tenere tutto dentro di sé. L'ambigua vicenda dell'ingegner Calandra è «l'unica
storia che il mondo degli adulti ha saputo dargli come ammaestramento», per
quanto sia oscura, torbida e inestricabile. Per questa ragione ho parlato di
un romanzo di formazione sui generis, in quanto l'unico possibile sviluppo è
l'approdo ad uno stadio ulteriore di confusione.
A distanza di oltre cinquant'anni dalla sua
pubblicazione (1966), Un'anima persa resta un romanzo potente e attuale, una
storia senza tempo che lancia un drammatico interrogativo.
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