Ho acquistato un altro libro di Pinketts dopo tanti anni
dalla lettura de Il senso della frase, che all'epoca mi aveva colpito molto. Da
allora avevo perso di vista lo scrittore milanese, né avevo seguito le sue
fortune, anche televisive. Da quando ho appreso la triste notizia della sua
morte, però, mi sono ripromesso di riprendere il discorso interrotto. L'occasione
si è presentata qualche giorno fa, quando ho adocchiato una copia de Il vizio
dell'agnello in uno dei chioschi di usato e remainders che ancora sopravvivono.
Devo riconoscere che, a distanza di tanti anni, l'esperienza si è rivelata entusiasmante.
Peraltro, sono legato a Pinketts da un aneddoto personale, per quanto minimo,
avendo avuto occasione di parlare con lui al telefono. Fu gentile e mi dispensò
preziosi consigli, dandomi la felice impressione di un artista autentico e
disincantato nonostante il successo, come confermano le persone che
gli sono state più vicine.
Il vizio dell'agnello (1994) è il secondo romanzo
della lunga saga con protagonista Lazzaro Santandrea (o Sant'Andrea), dopo
l'esordio di Lazzaro, vieni fuori (1991). Lazzaro, vero e proprio alter ego
dell'autore, è un ventottenne con un passato turbolento, che si guadagna da
vivere scrivendo qualche articolo da freelance o posando come modello per
fotoromanzi softcore destinati al mercato estero. Da qualche tempo, però, ha
aperto un'altra attività, ai confini della liceità. Sotto lo pseudonimo di
dottor Totem, offre consulenze a persone con “problemi psicologici”, senza
avere né il titolo né l'esperienza in una materia così delicata. Un giorno si
presenta al suo studio – in verità la casa della nonna – una strampalata coppia
di origini iugoslave, disperata perché la figlia Branka, un tempo bambina
buona e obbediente, ha cominciato ad avvelenare per sadismo i piccioni di
Piazza Duomo, fino a puntare alla preda più grande, l'uomo. È stata
davvero Branka, ex bambina buona ora affetta dal “vizio dell'agnello”, ad
avvelenare anche i due barboni morti in circostanze misteriose negli ultimi giorni?
Lazzaro si trova coinvolto suo malgrado in un'indagine all'apparenza
inestricabile. Al suo fianco gli strampalati amici di una vita: il neo tassista
Duilio Pogliaghi e l'aspirante attore depresso Antonello Cairoli. Lazzaro e la
sua cricca si muovono in una Milano ad alta gradazione alcolica, malinconica e
poetica, una “città di pazzi e di cani”, in cui persino la violenza è
riconducibile a gesto artistico.
Colpisce la qualità della scrittura di
Pinketts, dote rara in un autore “di genere”. Accade spesso che, chi si cimenta
nel giallo, il noir o l'hard-boiled, prediliga la trama rispetto allo stile,
concentrandosi sull'intreccio a discapito della forma. È
questo il motivo per cui il poliziesco e la fantascienza sono stati a lungo
snobbati dalla critica e dai lettori più intransigenti. Pinketts, invece, era
uno scrittore vero, prestato a un genere. L'aveva capito Fernanda Pivano, che
lo elogiò pubblicamente con parole di stima: «caro Pinketts, mio caro
giovane pazzo amico, quanto sei bravo!». Il vizio dell'agnello ne è la prova. Pinketts ci
restituisce con vivide pennellate gli umori di una Milano nevrotica
e nera, i dolori di un'epoca, la fine degli anni Ottanta, che oscilla tra gli ultimi
palpiti di un mondo che fu e l'avanzare della contemporaneità scialba e impoetica.
Lo fa con una scrittura moderna, senza retorica e agile, eppure priva degli
eccessi “giovanilistici” che caratterizzeranno parte della produzione
letteraria nostrana degli ultimi vent'anni. Questa cura nello stile e nella
ricerca delle parole, unitamente alla costruzione di dialoghi credibili e
articolati, sebbene a tratti surreali, accomuna lo scrittore milanese a un
altro autore di razza che ci ha lasciati troppo presto, Pier Vittorio Tondelli.
Pinketts descriveva un mondo che conosceva bene, la
Milano dei quartieri a ridosso del centro storico, divisi tra l'antica
vocazione popolare e il richiamo borghese del
lusso e del successo. I suoi personaggi si muovono in teatri, cinema di seconda
categoria, appartamenti signorili in palazzi decadenti e soprattutto bar,
caffè, pub, locali notturni, vinerie, mescite. Pinketts descrive l'atmosfera in
cui è cresciuto e diventato uomo. Non è un caso, poi, che questo sia un romanzo
dove hanno un ruolo centrale le madri, mentre sono del tutto assenti i padri.
Si tratta di un ulteriore richiamo autobiografico, come ben sa chi conosce il
simbiotico rapporto tra lo scrittore e la mamma, ribadito anche in una delle
sue ultime interviste.
Non solo consiglio vivamente la lettura del romanzo,
anche e soprattutto a chi non è un amante del noir, ma mi sento di suggerire
l'acquisto in blocco del trittico iniziale della saga di Lazzaro Santandrea.
Lazzaro, vieni fuori, Il vizio dell'agnello e Il senso della frase sono romanzi
freschi e divertenti, espressione del talento smisurato di uno degli ultimi
scrittori di razza.
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