Filofobia è un
termine che a molti non dice nulla. Persino il suo significato, ossia la “paura
di amare”, rimane oscuro alla maggioranza delle persone, sconcertate al solo
pensiero che il sentimento per eccellenza possa generare ansia e timore,
attivando meccanismi di fuga ed evitamento. In parole povere, la filofobia è
l'atteggiamento di chi matura un terrore per le relazioni, la paura di “cadere”
nell'amore (“to fall in love”) e perdere il controllo e la libertà. Non è un
modo di dire, un atteggiamento filosofico o narcisistico, ma una vera e propria
fobia. La tematica è stata talvolta affrontata al cinema, sempre con
superficialità. Di solito c'è un confortante lieto fine in cui il protagonista “guarisce”
e si butta a capofitto in una relazione a cui inizialmente era ostile. Niente
di più falso, o almeno niente di più inverosimile.
Un cuore in inverno (1992),
per la regia di Claude Sautet, è invece una pellicola di disarmante realismo,
che non offre soluzioni consolanti; la filofobia ne è il tema portante, sebbene
non venga mai espressamente menzionata. Protagonista è Stéphane – interpretato
da un eccellente Daniel Auteuil –, un liutaio quarantenne che fa del lavoro
l'unica ragione di vita. Gestisce un laboratorio di liuteria assieme al socio
Maxime, da cui diverge per lo stile di vita e l'atteggiamento verso le donne.
Stéphane è solitario, equilibrato, riservato, morigerato nei costumi e nelle
parole; vive nel retro del laboratorio e da anni ha rinunciato alle relazioni. Maxime è
l'esatto opposto: è un gaudente e traditore seriale, abituato al bel mondo e
alle belle donne. I due non sono amici, semplicemente soci. Nella dimensione
del lavoro hanno trovato un perfetto equilibrio: Maxime è la mente e Stéphane
il braccio, il primo procaccia clienti e il secondo li soddisfa. Questo
meccanismo apparentemente immutabile entra in crisi quando l'ultima fiamma di
Maxime, la bella violinista Camille (Emmanuélle Beart), si innamora inaspettatamente
di Stéphane, scontrandosi amaramente con l'incapacità di amare del liutaio. Le
parole di quest'ultimo sono una pietra tombale sulle speranze della ragazza.
«Vuoi a tutti i costi che io sia come tu immagini, un'altra persona, ma io sono come sono.»
Stéphane è circondato dall'amore
degli altri, che si manifesta in tutte le forme: coppie che litigano, che si
sposano, si lasciano, si sostengono fino alla morte. Eppure lui resta
imperturbabile di fronte a queste vicende, che non possono riguardarlo. Lo
sguardo di Sautet non è mai invasivo, si concentra su sottotrame che evidenziano
per contrasto il deserto emotivo del protagonista: memorabile in proposito la
scena al caffè, con la coppia che prima litiga e poi si riappacifica sotto gli
occhi critici e disincantati di Stéphane. Ho detto che la pellicola non regala
il classico lieto fine, ragione in più per alzare il voto complessivo. Il muro
che Stéphane ha frapposto tra sé e gli altri è invalicabile, troppo rigido il
gelo del suo cuore.
Un cuore
in inverno è un film quasi dimenticato, anche se all'epoca incontrò il favore
di pubblico e critica: alla Mostra del cinema di Venezia del 1992 si aggiudicò
il Leone d'argento e il Premio speciale alla Regia. È una pellicola lenta, nel senso
positivo del termine: poche parole, tanti sguardi, un'unica scena sopra le
righe (lo schiaffo di Camille a Stéphane). Non a caso il film è stato girato
quasi interamente negli interni, per dare maggiore profondità agli intensi
primi piani dei protagonisti. Un appartamento, i bar, lo studio di
registrazione e il laboratorio di liuteria fanno da sfondo a una vicenda amara
e malinconica, che tuttavia non cade nel facile piagnisteo o nel rimpianto.
Sautet posa uno sguardo carezzevole e delicato sui suoi personaggi, ma
delicatezza non significa superficialità; anzi, il regista francese rovista
così profondamente nell'animo tormentato dei protagonisti, che tutti ne escono svuotati,
nudi, ammantati solo dalle loro umane debolezze.
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