22 giugno 2021

"La brughiera" di Thomas Hardy: la natura è arbitra dei destini umani

C'è chi biasima l'abitudine, tutta italiana, di tradurre liberamente i titoli di alcune opere letterarie e cinematografiche straniere, anziché attenersi al senso strettamente letterale. Il caso più celebre è quello de Il giovane Holden, titolo che nulla ha a che vedere con l'originale The catcher in the Rye. Eppure bisogna riconoscere che a volte il titolo italiano rende meglio dell'originale, addirittura è in grado di cogliere più in profondità il senso dell'opera. Si pensi a The return of the Native, il sesto romanzo di Thomas Hardy, pubblicato nel 1878. La traduzione letterale sarebbe Il ritorno del nativo, ma le edizioni italiane con questo titolo si contano sulle dita di una mano. Chi volesse acquistare nel Belpaese The return of the Native, dovrebbe chiedere al libraio di fiducia di procurargli una copia de La brughiera, o al massimo Il ritorno alla brughiera.
Quanto sia stata felice la scelta dei traduttori italiani, è evidente sin dalla lettura del primo, memorabile capitolo: è la brughiera la vera protagonista di questa vicenda intricata e drammatica. La brughiera di Egdon è un territorio vasto e aspro, sferzato dai venti e incupito dalle nubi, solingo e selvaggio come un deserto. Il paesaggio è lo stesso per miglia e miglia: poche case sparse, piccoli agglomerati che non raggiungono neppure lo status di villaggio, distese di erica e ginestra, rovi, sparuti alberi che alzano al cielo i rami come una maledizione. Qualche cavallino selvatico bruca l'erba, radi uccelli planano negli acquitrini alla ricerca di qualcosa da mettere nel becco. Gli uomini, pochi in verità, condividono la stessa sorte della natura circostante: sono laboriosi e onesti, invischiati però in una profonda ignoranza che assume i tratti della bieca superstizione. Uomini e brughiera sono avvinti da un'ancestrale catena, al punto che gli umori e le passioni dei primi sono determinati dall'ambiente circostante, così istintivo e primitivo.
«La brughiera s'intonava in modo perfetto alla natura dell'uomo; non era spettrale, né paurosa, né orrida; ma non banale né insignificante e neanche artefatta; come l'uomo, negletta e paziente, e al tempo stesso gigantesca e armoniosa nella sua tetra monotonia. Come accade a persone vissute a lungo isolate, un senso di solitudine pareva emanare dal suo volto: e quel volto faceva pensare a tragiche possibilità.»
La brughiera non è solo lo sfondo delle vicende, è il simbolo e la quintessenza di forze primordiali che orientano e regolano i destini umani. Nelle intenzioni di Hardy l'ambiente, da semplice contorno, diventa una creatura viva, metà sfinge e metà leviatano, che influenza pensieri, azioni e sentimenti di quanti vi abitano. La desolazione della brughiera libera i personaggi da ogni sovrastruttura, ne amplifica i vizi e le virtù, li leviga quasi o comunque li riduce alla forma originaria. In un ambiente così aperto e glabro è impossibile mistificare la propria essenza o nasconderla sotto un'apparenza diversa.
Il “nativo” del titolo originario è Clym Yeobright, un brillante giovane che torna nella natia Egdon dopo aver trascorso un lungo periodo nel bel mondo di Parigi nelle vesti di commerciante di preziosi. Inevitabilmente il suo ritorno è salutato come un vero e proprio avvenimento, scuote il torpore della sonnolenta brughiera e diventa l'argomento preferito di conversazione nelle osterie e davanti ai caminetti. Una persona in particolare ne è stravolta, la romantica e capricciosa Eustacia Vye, che vede nel giovane Clym l'unica speranza per evadere dalla gabbia di Egdon. Eustacia è una donna sensuale e volubile, che cerca nell'amore una strada per la realizzazione di sé. I sentimenti ordinari, però, la annoiano: per lei la passione è tormento e struggimento, tanto più intenso e meritevole quanto più è in grado di devastare anima e corpo. Le sorti di due personaggi così eccezionali sono naturalmente destinate a incrociarsi in un ambiente desolato e privo di stimoli qual è la brughiera, dando così vita a un tourbillon di intricate e tragiche vicende, come nella migliore tradizione del romanzo ottocentesco.
Hardy è un maestro dell'approfondimento psicologico e si avvale della tecnica del narratore onnisciente per scandagliare negli abissi emotivi e morali dei suoi personaggi; nulla nasconde al lettore, mettendo in luce, in egual misura, virtù e abiezioni dei caratteri. Al tempo stesso sa costruire intense scene corali, come quella iniziale del falò o quella della festa delle maschere in casa Yeobright. C'è dunque tutta una serie di personaggi minori, gli abitanti della brughiera di Egdon, verso i quali Hardy usa i toni carezzevoli e nostalgici dello scrittore che enfatizza la sua terra natale come luogo del mito. È il mitico e ancestrale Wessex, come lo scrittore ribattezzò il natio Dorset, che fa da sfondo a tutti i suoi più grandi romanzi e che ne La brughiera irradia in massima potenza la sua forza simbolica.
La brughiera non è il migliore né il più famoso libro di Hardy, ricordato per capolavori come Tess dei d'Uberville o Jude l'Oscuro. Brilla tuttavia nelle sue pagine la stella di un grande narratore, uno dei principali dell'ultima età vittoriana, capace di costruire in poco più di quattrocento pagine un avvincente dramma campestre. Quanto allo stile, non ho le competenze per addentrarmi nel discorso; tuttavia, basti dire che è un tipico romanzo dell'Ottocento, ricco di dettagliate descrizioni e complessi dialoghi in cui i personaggi mettono a nudo tormenti e sentimenti. Anche se alcune pagine sono retoriche e ampollose, tutto sommato il romanzo scorre a un ritmo sostenuto. Tra le tante edizioni, consiglio quella de "I grandi libri" della Garzanti, per il ricco apparato bio-bibliografico e le note di critica letteraria.
Edizione Garzanti 1981

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