La parola
d'ordine di questi mesi è “ripartenza”. La si legge sui giornali, la ripetono
in continuazione in televisione e alla radio. Soprattutto, se ne è impossessata
la pubblicità. Sembra quasi che l'unico modo per reclamizzare un prodotto sia
di presentarlo come uno strumento della ripartenza. Gli esempi si sprecano:
dall'ennesimo suv al telefonino, passando per l'abbigliamento. La strategia dei
pubblicitari è puntare sul desiderio diffuso di mettersi alle spalle un
sofferto periodo di stasi forzata dovuta alla pandemia. “È giunta l'ora di ripartire”: non si contano le volte in cui questo slogan è
utilizzato, in tutte le possibili varianti.
Indipendentemente da quella che è
stata la percezione individuale, mi chiedo se uno stop di appena due mesi
giustifichi questo martellamento. Due mesi perché, di fatto, tanto è durato il
blocco vero, duro, senza compromessi. D'altronde, già da maggio dell'anno
scorso si è affermata la parola d'ordine “ripartenza”, mai più abbandonata. Da
un anno a questa parte ci sono state ulteriori limitazioni, anche pesanti, ma
nessuna che possa giustificare l'assillante retorica della ripartenza, quasi
peggiore della retorica del lockdown. La pandemia è una tragedia immane per il
carico di sofferenza che ha portato su chi ne è stato direttamente colpito, mentre chi non ha subito lutti ha solo dovuto
rinunciare a una parte delle proprie abitudini. Per questo non tollero la
retorica della ripartenza, tutta incentrata sulla logica consumistica del
“produci, consuma crepa”, di un sistema economico malato, che cresce intorno a
se stesso e non tollera pause. Forse siamo abituati male se sentiamo la
necessità di amplificare il bisogno della ripartenza, forse abbiamo dimenticato
che fino a qualche lustro fa c'erano altri eventi globali, come le guerre, che
davvero imponevano una lunga interruzione delle libertà civili, delle
abitudini, dei contatti sociali.
E chi si trincera dietro la nozione di libertà, spesso non sa di cosa parla. Il concetto è travisato da molti, che non avendo
né la cultura né la pratica della libertà, finiscono col confonderla con
l'assolutizzazione dell'individualismo. Perché se è vero che l'art. 2 della
Costituzione riconosce i diritti inviolabili della persona, al tempo stesso
impone ai cittadini i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale, al cui adempimento siamo stati chiamati in questi mesi di sacrifici. La
verità è che siamo stati abituati all'idea che il mondo non si possa fermare,
che il benessere collettivo debba essere sacrificato all'aspirazione continua
al progresso, allo sfruttamento indiscriminato delle risorse, alla
realizzazione del profitto a ogni costo. Ecco perché quella che poteva essere
un'occasione di una sosta ragionata è stata irrimediabilmente perduta.
Ovviamente il mio discorso è parziale e superficiale, perché non tiene
volutamente conto delle immense problematiche che le restrizioni hanno
determinato in termini di perdita di posti di lavoro e chiusura di attività. Lungi da me minimizzarle, il mio discorso è un altro. Si diceva,
agli albori di questa tragedia globale, che il virus ci avrebbe cambiati, che
avrebbe mutato in modo irreversibile la nostra percezione del mondo e avrebbe
persino ammansito i bisogni non essenziali legati a doppio filo alla folle velocità
a cui gira la nostra economia, che avevano in qualche misura contribuito a
diffondere in tempi brevissimi il morbo. Si diceva che fosse giunto il momento di
ripensare i ritmi di vita, che non fosse più sostenibile una società iperconnessa,
in cui è possibile fare colazione a Parigi e l'aperitivo a Tokio. Invece
l'umanità ha rifiutato questa occasione, accecata dal mito della velocità. La
lentezza, la sosta, la siesta, lo stare a casa, da desiderata sono
diventati simboli negativi, additati come negazioni della libertà, violentati e
spogliati di ogni connotazione positiva. Ma siamo così sicuri che la ripartenza a ritmo accelerato sia un nostro reale bisogno? O forse
c'è qualcuno che subdolamente lo cavalca per perseguire i propri interessi?
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