25 dicembre 2021

"So alone": dove il mare è più profondo

La strada del rock è disseminata di eroi belli e dannati, crollati ai margini dopo una vita di genialità e dissolutezza. John Anthony Genzale, in arte Johnny Thunders (1952-1991), è uno di loro e la sua vicenda di eccessi è emblematica. Johnny era il ragazzo introverso e sensibile, il fragile dallo sguardo stralunato, il tossico, il cattivo esempio, il malinconico divorato da un demone autodistruttivo, l'italo-americano con un adesivo della Madonna sulla chitarra. Johnny era l'abisso dove il mare è più profondo. E forse, anche per questo, è uno a cui non si può non volere bene. Come ha scritto Ira Robbins di Trouser Press, Thunders era un «punk di strada […], un uomo che viveva la musica come se fosse l'unica cosa davvero importante, uno che per la musica si è sacrificato in un fatale rituale di sangue». L'esordio fu con i New York Dolls, gruppo all'avanguardia e dissacratore che ha sotterrato definitivamente l'epoca d'oro del glam, forte di un'attitudine che anticipava il punk. Oltre a Genzale, in quella band di squinternati militavano David Johansen, Sylvain Sylvain, Jerry Nolan e Arthur Kane. Lasciate le bambole di New York dopo due LP, il nostro fondò gli Heartbreakers con Walter Lure, suo amico di eccessi. Tra i principali esponenti della scena punk americana, gli Heartbreakers pubblicarono L.A.M.F., lavoro fulminante ed epocale nonostante la bassa qualità della registrazione.
Chiusa anche questa esperienza, Thunders iniziò nel 1978 la sua altalenante carriera solista, dando alle stampe So alone. Il disco fu registrato in sole tre settimane e pubblicato in Inghilterra il 6 ottobre del 1978: è un album vario, composto in egual misura da intense ballate, covers dei Dolls, rivisitazioni rockabilly e infuocate cavalcate punk. Lo stesso artista ne raccontò la genesi in un'intervista rilasciata alla fanzine Trouser Press: «avevo sempre avuto un repertorio di canzoni lente, che gli altri Heartbreakers non volevano suonare; ho sempre voluto farle, ma a Jerry non piaceva suonare pezzi lenti». La produzione fu affidata a Steve Lillywhite, coadiuvato dallo stesso Thunders. Autorevole la platea di musicisti e ospiti: oltre ai vecchi amici Rath e Lure, nel disco hanno suonato Paul Cook e Steve Jones dei Sex Pistols, Phil Lynott dei Thin Lizzy, Steve Marriott e Patti Palladin. Eloquente lo scatto di copertina, con Johnny in una stanza anonima, stravaccato sopra una sedia, lo sguardo liquido di sfida, o forse semplicemente perso nei suoi mondi alternativi.
Apre le danze la strumentale Pipeline degli Chantays, annegata in un'orgia di riverberi grazie alle chitarre di Thunders e Steve Jones. La successiva You can't put your arms round a memory è il pezzo più celebre scritto da Johnny. Vale la pena acquistare il disco solo per questa canzone, che non esito a definire tra le cento più belle di tutti i tempi. È un canto di desolazione accompagnato da una chitarra che lacera l'anima, una lancinante invettiva contro il dolore della solitudine.
«Feel so restless, I am, beat my head against a pole, try to knock some sense, down in my bones. And even though they don't show, the scars aren't so old.»
Si rifiata con Great big kiss, duetto rockabilly con Pat Palladin, che riprende l'intro di un celebre brano dei New York Dolls. London boys è invece un pezzo punk tiratissimo, che sembra uscito da Never mind the bollocks; la prima impressione è confermata dalla lettura delle note di copertina, dove apprendiamo che alla chitarra e batteria c'erano rispettivamente Jones e Cook. Sulla stessa direttrice Leave me alone, dall'incedere tipicamente punk. Sempre tra i pezzi scritti da Thunders, spicca l'energica (She's so) untouchable, impreziosita dal suono del sax, a dimostrazione ancora una volta delle capacità camaleontiche del nostro. Tra le cover, merita un cenno Subway train, già apparsa nel primo disco delle Dolls; Thunders non era soddisfatto della prima versione e decise di inciderla nuovamente. Come rivelò alla rivista ZigZag, «avevo scritto testo e musica e Johansen solo un paio di cosette; avrei sempre voluto cantarla da solo». Spicca anche Daddy rollin' stone, un pezzo R&B di Otis Blackwell già interpretato dagli Who nel 1965.
So alone non è un disco perfetto, né unitario. Un lavoro coi suoi alti e bassi, in cui convivono con sapiente equilibrio le diverse anime di John Genzale, il suo amore per il rock anni Sessanta, i suoi demoni, la sua ribellione e la sua dolcissima malinconia. Riduttivo parlare di punk; questo è il tentativo di un ragazzo che sognava di scrivere e interpretare il disco rock perfetto, l'utopia di chi, in mezzo a tanti difetti, ha avuto l'indiscutibile pregio di seguire sempre il proprio istinto. Come rivelò a Kris Needs di ZigZag, «sto programmando di andare a New Orleans, trovare qualche musicista nero tra i quaranta e i cinquant'anni, un buon tastierista e un buon sassofonista e suonare con loro». Purtroppo il suo sogno non si è mai realizzato; restano i lavori con Dolls e Heartbreakers, nonché una manciata di buoni dischi solisti, come appunto So alone. Ascoltatelo, come tributo alla coerenza di questo sfortunato italo-americano. Lo merita tutto.
Lo scatto di copertina e, in basso, foto tratte dal libretto interno

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