La strada del rock è disseminata di
eroi belli e dannati, crollati ai margini dopo una vita di genialità e
dissolutezza. John Anthony Genzale, in arte Johnny Thunders (1952-1991), è uno
di loro e la sua vicenda di eccessi è emblematica. Johnny era il ragazzo introverso
e sensibile, il fragile dallo sguardo stralunato, il tossico, il cattivo
esempio, il malinconico divorato da un demone autodistruttivo, l'italo-americano con un adesivo della Madonna sulla chitarra. Johnny era l'abisso dove il mare è più profondo. E forse, anche per questo, è uno a cui non si
può non volere bene. Come ha scritto Ira Robbins di Trouser Press, Thunders era
un «punk di strada […], un uomo che viveva la musica come se
fosse l'unica cosa davvero importante, uno che per la musica si è sacrificato
in un fatale rituale di sangue». L'esordio fu con i New York Dolls,
gruppo all'avanguardia e dissacratore che ha sotterrato definitivamente
l'epoca d'oro del glam, forte di un'attitudine che anticipava il punk.
Oltre a Genzale, in quella band di squinternati militavano David Johansen,
Sylvain Sylvain, Jerry Nolan e Arthur Kane. Lasciate le bambole di New York
dopo due LP, il nostro fondò gli Heartbreakers con Walter Lure, suo amico di
eccessi. Tra i principali esponenti della scena punk americana, gli
Heartbreakers pubblicarono L.A.M.F., lavoro fulminante ed epocale nonostante la
bassa qualità della registrazione.
Chiusa anche questa esperienza, Thunders
iniziò nel 1978 la sua altalenante carriera solista, dando alle stampe So
alone. Il disco fu registrato in sole tre settimane e pubblicato in Inghilterra
il 6 ottobre del 1978: è un album vario, composto in egual misura da intense ballate, covers dei Dolls, rivisitazioni rockabilly e infuocate cavalcate punk. Lo
stesso artista ne raccontò la genesi in un'intervista rilasciata alla fanzine Trouser
Press: «avevo sempre avuto un repertorio di
canzoni lente, che gli altri Heartbreakers non volevano suonare; ho sempre
voluto farle, ma a Jerry non piaceva suonare pezzi lenti». La produzione fu affidata a Steve
Lillywhite, coadiuvato dallo stesso Thunders. Autorevole la platea di musicisti
e ospiti: oltre ai vecchi amici Rath e Lure, nel disco hanno suonato Paul Cook
e Steve Jones dei Sex Pistols, Phil Lynott dei Thin Lizzy, Steve Marriott e
Patti Palladin. Eloquente lo scatto di copertina, con Johnny in una stanza
anonima, stravaccato sopra una sedia, lo sguardo liquido di sfida, o forse
semplicemente perso nei suoi mondi alternativi.
Apre le danze la strumentale Pipeline
degli Chantays, annegata in un'orgia di riverberi grazie alle chitarre di
Thunders e Steve Jones. La successiva You can't put your arms round a memory è
il pezzo più celebre scritto da Johnny. Vale la pena acquistare il disco solo
per questa canzone, che non esito a definire tra le cento più belle di tutti i
tempi. È un canto di desolazione accompagnato da una chitarra che
lacera l'anima, una lancinante invettiva
contro il dolore della solitudine.
«Feel so restless, I am, beat my head against a pole, try to knock some sense, down in my bones. And even though they don't show, the scars aren't so old.»
Si rifiata con Great big kiss, duetto
rockabilly con Pat Palladin, che riprende l'intro di un celebre brano dei New
York Dolls. London boys è invece un pezzo punk tiratissimo, che sembra uscito
da Never mind the bollocks; la prima impressione è confermata dalla lettura
delle note di copertina, dove apprendiamo che alla chitarra e batteria c'erano rispettivamente
Jones e Cook. Sulla stessa direttrice Leave me alone, dall'incedere tipicamente
punk. Sempre tra i pezzi scritti da Thunders, spicca l'energica (She's so)
untouchable, impreziosita dal suono del sax, a dimostrazione ancora una volta
delle capacità camaleontiche del nostro. Tra le cover, merita un cenno Subway
train, già apparsa nel primo disco delle Dolls; Thunders non era soddisfatto
della prima versione e decise di inciderla nuovamente. Come rivelò alla rivista
ZigZag, «avevo scritto testo e musica e Johansen solo un paio di
cosette; avrei sempre voluto cantarla da solo». Spicca anche Daddy rollin' stone,
un pezzo R&B di Otis Blackwell già interpretato dagli Who nel 1965.
So alone non è un disco perfetto, né
unitario. Un lavoro coi suoi alti e bassi, in cui convivono con sapiente
equilibrio le diverse anime di John Genzale, il suo amore per il rock anni
Sessanta, i suoi demoni, la sua ribellione e la sua dolcissima malinconia. Riduttivo
parlare di punk; questo è il tentativo di un ragazzo che sognava di scrivere e
interpretare il disco rock perfetto, l'utopia di chi, in mezzo a tanti difetti,
ha avuto l'indiscutibile pregio di seguire sempre il proprio istinto. Come
rivelò a Kris Needs di ZigZag, «sto programmando di andare a New
Orleans, trovare qualche musicista nero tra i quaranta e i cinquant'anni, un
buon tastierista e un buon sassofonista e suonare con loro». Purtroppo il suo sogno non si è mai realizzato; restano i
lavori con Dolls e Heartbreakers, nonché una manciata di buoni dischi solisti,
come appunto So alone. Ascoltatelo, come tributo alla coerenza di questo sfortunato
italo-americano. Lo merita tutto.
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