10 febbraio 2022

"Third degree", l'avanguardia del mod revival

I Nine Below Zero sono uno di quei gruppi che potremmo definire "identitari", da decenni fedeli a se stessi, con un seguito non nutritissimo ma affezionato. Si formarono nel 1977 a Londra, su iniziativa del chitarrista e cantante Dennis Greaves. Si distinsero da subito per le performance dal vivo, in cui fondevano mirabilmente l'energia rhythm and blues con un'attitudine veemente mutuata dal punk. Notati dal produttore Mickey Modern, firmarono un contratto con la prestigiosa A&M, la stessa casa discografica dei Police, esordendo con un album live. Il periodo d'oro fu il biennio 1981-1982, costellato da apparizioni radiofoniche e televisive, numerosi concerti e due dischi in studio, Don't point your finger e Third degree. Sebbene non siano stati grandi successi commerciali – Third degree raggiunse al massimo la posizione n. 38 in classifica –, con questi due LP il gruppo guadagnò una certa popolarità, con una nicchia di pubblico che tuttora li segue con passione. Il 1983 fu l'anno dello scioglimento, seguito dalla reunion del 1990 e ulteriori uscite discografiche.
Third degree è probabilmente il loro migliore disco. Undici le tracce, tutte originali, cosa inusuale per le band R&B, che solitamente si cimentavano in reinterpretazioni dei grandi classici del genere. Sotto la sapiente guida di Mickey Modern e la produzione del prolifico Simon Boswell, i quattro che incisero presso i Wessex Studios erano Dennis Greaves (voce e chitarre), Brian Bethell (basso), Mickey Burkey (batteria e percussioni) e l'armonicista Mark Feltham. Il disco è uno dei capisaldi del mod revival e mescola sapientemente elementi ska, R&B e pub rock. Il suono è energico e muscolare: i Nine Below Zero, pur non carenti di tecnica, preferivano le soluzioni corali agli assoli, la ruvida sostanza alla leziosità. Ho parlato di mod revival, perché in effetti i quattro vestivano "smart but cheap" come i Jam, avevano il ritmo nel sangue al pari degli Specials e potevano permettersi di suonare in giacca e cravatta senza per questo essere meno credibili di fronte a un pubblico di estrazione prevalentemente operaia.
Il lato A si apre con Eleven plus eleven, un pezzo tiratissimo retto dal corposo basso di Brian Bethell. Si prosegue sulla scia del R&B con Wipe away your kiss, impreziosita da un assolo di chitarra, nonché la successiva Why can't we be what we want to be, in cui compare l'armonica di Feltham. Tearful eye è invece un blues viscerale, in cui si evidenziano tutti i fondamenti del genere. Il pezzo migliore è quello che chiude la prima parte, Egg on my face, un gioiello dalle tinte ska tutto da ballare. Qui, più che altrove, si nota il grandissimo lavoro al basso di Bethell, vero e proprio pilastro ritmico del gruppo. La seconda facciata è meno ispirata, come dimostra l'iniziale Sugarbeat, in cui si pasticcia un po' con l'elettronica. Per fortuna si torna ad alti livelli con Mystery man, un pezzo quadrato con la chitarra in evidenza e innesti di tastiera mai invasivi. Il resto dell'album scivola via piacevolmente, senza picchi ma tutto sommato coerente con l'impostazione primigenia della band.  
È indubbio che i Nine Below Zero avessero un bel tiro, espresso meglio dal vivo che su disco. Third degree, pur non essendo un LP memorabile, riesce tuttavia a trasferire su vinile un'idea di quello che riuscivano a fare durante gli infuocati concerti dell'epoca. D'altronde, non senza un pizzico di ironica immodestia, nei crediti è scritto che i quattro ringraziano "tutta la squadra che ci ha aiutato a diventare la migliore band live in circolazione". Restano dunque undici canzoni non eccelse, ma energiche e orecchiabili, che fanno venire la voglia di appoggiare la puntina sul primo solco ancora una volta.
Copertina e retro dell'edizione italiana (1982)

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