«Che resta di tutto il dolore che
abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il
peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore,
stupore di essercela tanto presa per così poco, e anch'io ho creduto fatale
quanto si è poi rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci.»
Così scriveva Busi nel poderoso incipit di
Seminario sulla gioventù, suo primo romanzo pubblicato nel 1984. Leggendolo mi
sono tornate alla memoria le parole, altrettanto incisive, che concludono un'opera
poco nota, tra le più intense della letteratura italiana del Novecento: Viaggio
attraverso la gioventù di Lorenzo Montano. Entrambi gli autori analizzano retrospettivamente
le passioni che hanno incendiato la loro giovinezza, sebbene sia differente
l'atteggiamento di fondo: ironico e distaccato Busi, malinconico e partecipato
Montano, che chiude così il suo libro.
«Ma come: alcune notti laboriose, alcune
pazze, l'uno e l'altro compagno, qualche viso e corpo di donna, qualche paese
corso di sghembo, e quell'attesa, quell'impazienza incessanti: questo breve
tumulto d'ombre cose passioni, incoerenti, fuggite, sarebbe stata la gioventù?
Essa proprio.»
Viene da chiedersi se Busi abbia letto Montano
e ne sia rimasto affascinato; sarebbe auspicabile che prima o poi qualcuno
glielo domandasse. Abbandonando questa digressione, vale la pena ricordare che
il Seminario fu un esordio dirompente e divisivo, destinato a lasciare il segno
e a influenzare la successiva produzione dello scrittore di Montichiari.
Facendo un parallelismo tra le vicende del protagonista e quanto l'autore ha
narrato della propria infanzia e adolescenza, verrebbe da pensare che si tratti
di un'autobiografia. Busi lo ha sempre negato, precisando che è un'opera
letteraria e come tale di fantasia. Se ciò risponde certamente al vero, non può
tuttavia negarsi che il libro profumi di vissuto, di vita vera che emerge
prepotentemente da ogni pagina, inebriando il lettore. Opera di fantasia però
ricca di spunti autobiografici, di vicende reali impresse nella mente
dell'autore che le ha poi rielaborate, trasfigurate, riadattate attraverso una
riuscita operazione di chirurgia letteraria.
Il protagonista è Barbino, terzo di quattro
figli, omosessuale nato in una famiglia modesta, anaffettiva, tra gente
abituata a chinare la testa e tirare la cinghia in un quotidiano abbrutimento
fisico e morale. Il padre è un gaudente nullafacente, violento e con simpatie
fasciste. La madre è una donna incapace di amare, che sgobba dalla mattina alla
sera inseguendo il miraggio di una vecchiaia meno misera, di morire con un
tetto sulla testa che sia di proprietà e non nell'ennesima casa in affitto. I
fratelli sono due ottusi incapaci di vedere oltre il limitato orizzonte del
loro sguardo. Barbino però è diverso e non solo per il suo orientamento
sessuale che lo rende alieno in paese e in famiglia: lui vuole fuggire, uscire
dalla gabbia in cui è nato e tentare una disperata affermazione di sé nel mondo.
Come nella migliore tradizione della narrativa picaresca, Barbino viaggia:
Lille, Parigi, Milano, la Svizzera, di nuovo Parigi e infine Londra, dove lo
lasciamo al termine delle sue peregrinazioni. Ovunque vada, abbandona una parte
vecchia di sé, una porzione stantia e superata del passato. Il Seminario si
inserisce dunque nella grande tradizione del romanzo di formazione, pur con le
dovute cautele. Mentre nel bildungsroman classico il protagonista
accresce il proprio io in esperienze, Barbino matura nella misura in cui
abbandona la parte più istintiva di sé, raffinandosi per consunzione. Arriva a
Parigi già smaliziato, scaltro, pratico delle cose del mondo nonostante sia
nato nelle campagne della Bresciana. Va via dalla Francia depurato, spoglio di
quella corazza di cinismo e irriverenza che si era costruito addosso per
proteggersi da una società che l'aveva emarginato. Ha ragione chi ha parlato di
una "autoeducazione selvaggia": Barbino si forma da sé, sperimentando la fame,
le botte, la miseria, la malattia, la promiscuità sessuale e il rifiuto.
«Forse non ho fatto altro che cercare di
espiare per aver preferito la concreta razionalità del mio egoismo in carne
alle ragioni in polvere di chi al suo dolore ha dato gli argini del fantasma
che ha potuto.»
Di fronte a una figura così quadrata e
consapevole, gli altri personaggi assurgono al ruolo di maschere, sebbene
siano tutti ben delineati e vitali. Busi li disegna con un pennello
tagliente, spietato e al tempo stesso ironico, evidenziandone senza pietà vizi
e difetti. Si pensi alle figure del Colonnello, del padre di Barbino e della
parigina Arlette, come comprenderà al volo chi ha già letto il libro.
Le prime
cinquanta pagine mi hanno messo a dura prova, per via di una scrittura densa,
piena, colta e ritmata, che avvolge il lettore e quasi lo sovrasta. Una volta
prese le misure con lo stile di Busi, la lettura procede speditamente. Le
pagine sono ricche di monologhi e soliloqui del protagonista, che dimostra una
profonda capacità di autoanalisi. D'altronde, il titolo scelto da Busi fa
pensare a un saggio piuttosto che a un romanzo, come se la sua intenzione fosse
di andare oltre la mera narrativa d'intrattenimento.
A distanza
di quasi quarant'anni dalla pubblicazione, Seminario sulla gioventù si è
guadagnato il titolo di classico contemporaneo. Recentemente è stato ristampato
dalla BUR, in un'edizione riveduta dallo stesso Busi con oltre quattrocento
correzioni, tanto che si è parlato di una vera e propria riscrittura.