L'aggettivo più usato quando si parla del cinema di Ken Loach è sicuramente "militante". Aggettivo in certi casi abusato, eppure mai così pregnante come nel suo caso. Il regista inglese sa sempre da che parte stare, senza tentennamenti: con i deboli, gli esclusi, i poveri, i disoccupati, i precari, gli immigrati, le minoranze, i perseguitati, i malati mentali, i detenuti, quelli che vivono nelle periferie delle città e del mondo. Allo stesso modo è facile individuare gli obiettivi dei suoi strali polemici: la burocrazia ottusa, i totalitarismi, le maggioranze indifferenti, gli affaristi senza scrupoli, i malvagi burattinai che tengono saldamente in mano i fili della nostra società. Si pensi a Family life, diventato negli anni un manifesto della cosiddetta antipsichiatria. Oppure a Paul, Mick e gli altri, dove un manipolo di fieri eroi della working class si oppone al disastroso processo di privatizzazione delle ferrovie britanniche. E ancora vengono in mente La canzone di Carla o il recente Sorry we missed you, in cui il nemico ha il volto violento, rispettivamente, della dittatura politica ed economica.
A mio avviso, Ladybird ladybird è un film che in parte sfugge a siffatta visione manichea, pur affrontando con la solita determinazione temi scottanti di impegno civile. In questo lungometraggio del 1994, Loach ha saputo mantenere uno sguardo più lucido e obiettivo, lasciando che sia lo spettatore a farsi un'idea su dove stia il torto e dove la ragione, sempre che sia possibile. C'è la solita, sincera partecipazione al dolore dei personaggi, eppure il giudizio resta sospeso, perché mai come in questo caso la vittima è anche carnefice e ha colpe palesi. Ladybird Ladybird è una pellicola schietta che non veicola un messaggio preconfezionato, per quanto astrattamente giusto, ma carica sullo spettatore l'onere di decidere da che parte stare.
Nella triste Inghilterra thatcheriana del 1987 si consuma la tragica vicenda di Maggie. Abusata da piccola e cresciuta in un sordido orfanotrofio, ha quattro bambini, figli di padri diversi. Tabagista, propensa al turpiloquio, facile all'ira e alle reazioni esplosive, non riconosce di avere disturbi psichici. Tuttavia ama visceralmente i figli, sebbene li costringa a un'esistenza precaria, condita dalle violenze del nuovo compagno. A seguito di un evento particolarmente grave, i servizi sociali si attivano, le tolgono i bambini e li affidano ad altre famiglie, in attesa del pronunciamento del Tribunale dei minori sulla capacità genitoriale della madre. Proprio quando la sua vita sta andando a rotoli, la donna conosce in un pub il paraguaiano Jorge, un uomo mite e intelligente, esule politico perseguitato in patria per le sue idee antigovernative. Queste due solitudini si incontrano e Maggie proverà ancora una volta le gioie della maternità, fino a quando i servizi sociali busseranno di nuovo alla sua porta.
Mi sono dilungato sulla trama per poter tornare con cognizione di causa al discorso iniziale. Se infatti è vero che gli assistenti sociali e la polizia si mostrano insensibili e sordi al dolore e alle rimostranze di Maggie, è indiscutibile che lei non sia propriamente una buona madre. In questo senso ho parlato di una equidistanza di Loach rispetto alle due parti in conflitto. È indubbio che il regista parteggi per Maggie, quintessenza di quell'Inghilterra proletaria e immiserita cui ha dedicato la sua carriera; tuttavia non ne nasconde i disturbi, anzi li esaspera. In questo film ci sono due eccessi: da un lato, una burocrazia cieca e fredda che non esita a separare i minori in nome di un presunto e non provato "bene"; dall'altro, c'è una madre che non prova nemmeno ad affrancarsi dallo stigma della donna squilibrata, anzi esacerba il conflitto invece di collaborare con le istituzioni. Coi titoli di coda i dubbi rimangono: dov'è la ragione? E soprattutto, cos'è davvero giusto per i bambini? Lasciarli uniti ma in balia di una madre malata, per quanto amorevole, oppure dividerli per farli crescere in un contesto più sano? La pervicacia delle istituzioni assume quasi i toni sinistri della ragion di Stato, e tuttavia non si può negare la necessità di un intervento di sostegno.
Ladybird Ladybird è una summa dei temi cari al cineasta di Nuneaton: il disagio psichico, i disoccupati che sopravvivono grazie all'assistenza sociale, l'emigrazione, l'incomunicabilità tra cittadini e istituzioni, la grama esistenza delle periferie industriali nell'epoca thatcheriana. Soprattutto è un messaggio di denuncia contro una società incapace di accogliere il diverso, che viene prima emarginato e poi punito. Lo dice bene Maggie in uno dei suoi momenti di lucidità, accusando gli assistenti sociali di averla lasciata sola quando da bambina avrebbe avuto bisogno del loro intervento, e di essere invece intervenuti contro di lei da adulta, togliendole i figli.
Ottime le interpretazioni dei due attori protagonisti. Crissy Rock è perfetta nei panni di Maggie, riesce a incarnare nevrosi e paure di una donna alla deriva; meritato l'Orso d'oro assegnatole come migliore attrice protagonista alla Berlinale del 1994. Applausi anche per Vladimir Vega nel ruolo dell'esule paraguayano Jorge. Un difetto del film è nell'eccessiva enfasi con cui vengono rappresentate alcune scene drammatiche, ma a Loach si può perdonare quasi tutto.
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