Come ben sa chi lo ha seguito negli anni d'oro di Ottava nota e Cocktail micidiale, Richard Benson era capace di esprimere concetti molto profondi, spesso improvvisando sul momento. Era sicuramente un tipo istrionico e negli ultimi anni prima del ritiro ha interpretato un personaggio grottesco, costruito a beneficio di presunti fan che non erano veramente tali. In verità, al di là della maschera, Richard era un grande conoscitore della musica rock, oltre che un abile oratore, uno che saresti rimasto ad ascoltare per ore. Soprattutto quando gettava la maschera, sapeva regalare pensieri e intuizioni niente affatto banali. C'è in particolare un breve video tratto da una delle sue trasmissioni, disponibile su YouTube, in cui Benson racconta il momento in cui gli si è rivelato il senso della propria esistenza, l'attimo in cui ha capito la ragione per cui era venuto al mondo. Era il 1965, aveva dieci anni e a casa di un'amica ascoltò il primo 33 giri dei Beatles. Racconta che la visione della copertina lo colpì al punto che in quel momento comprese il vero significato della vita, che fino a quel momento gli era sembrata un'insensata successione di ordini, doveri, obblighi e divieti. Una rivelazione per l'appunto, il primo manifestarsi di quel sogno a cui è rimasto aggrappato per tutta la vita.
Richard è stato particolarmente fortunato, perché è riuscito a individuare già da bambino la strada da seguire. La schiacciante maggioranza, invece, non ha fatto della musica la propria professione, molti non sanno neppure imbracciare uno strumento, eppure quasi tutti riconoscono il peso che alcuni dischi hanno avuto nella costruzione della propria identità, o quantomeno dell'immaginario che li accompagna da una vita intera. Tutti quelli che ancora ascoltano davvero la musica sono legati a un disco che ha plasmato la propria immaginazione di bambino o adolescente. Gli irriducibili che ancora comprano i dischi, i riottosi alla moda del digitale, sanno di cosa parlo.
A volte mi ritrovo a pensare con rammarico che, per quanti nuovi album ascolti, nessuno ha la capacità di colpirmi in profondità come quelli che ho acquistato tra i tredici e i vent'anni. La più bella scoperta musicale degli ultimi tempi sono stati per me i Sound di Adrian Borland, oltre ad alcuni gruppi che colpevolmente non avevo mai ascoltato, pur conoscendoli di nome, come Rush e Cult. Eppure niente ha il sapore delle prime scoperte musicali, quando internet era un lusso per pochi e la fotografia di un gruppo, ritagliata da un giornale o presente nel libretto interno del cd, veniva trattata come un tesoro inestimabile. Oggi forse fa sorridere, ma per mesi non ho avuto idea di che faccia avessero i Clash, perché sul loro primo omonimo album, acquistato nel 2000, erano ritratti di spalle. Fu grazie a un articolo sul Mucchio Selvaggio che finalmente conobbi i volti di Strummer e soci. E così è stato per tutte le band che hanno segnato la mia prima adolescenza, a partire da Litfiba, Marlene Kuntz e C.S.I. Guardavo e riguardavo quelle foto, cercando di imprimere nella mente ogni particolare dello stile o dell'abbigliamento, nell'ingenua speranza di poterlo o saperlo riprodurre nella vita reale.
Dice Benson nel video che, a distanza di oltre quarant'anni, ricorda ancora "la frangia di George Harrison", il particolare che aveva acceso la sua immaginazione di bambino in quel lontano 1965. A me è successo lo stesso con Surrealistic pillow dei Jefferson Airplane. Disco simbolo della stagione psichedelica e di un certo lisergico flower power, lo acquistai nel 2002 in un bellissimo negozio che ha chiuso una decina di anni fa, Supernova Records. La copertina non è particolarmente originale: ritrae la band in posa con alcuni strumenti tradizionali, come un banjo e un clarinetto; tutti sono estremamente seri, salvo Grace Slick che sfodera un meraviglioso sorriso. A colpirmi – più o meno com'era accaduto a Richard – fu invece la fotografia del libretto interno, inclusa dalla RCA nella ristampa datata 2001. Il gruppo è fotografato in strada, probabilmente si tratta di San Francisco. Sullo sfondo la vetrina di un negozio e la scritta "Psichedelic shop", capace di accendere la mia fantasia di adolescente. Grace Slick mangia una mela, seduta sul cofano di una macchina assieme a Jorma Kaukonen, quest'ultimo con i pollici in tasca e uno sguardo di sfida rivolto all'obiettivo. Jack Casady sfoggia un paio di occhiali da sole rotondi, mentre Skip Spence si appoggia mollemente a un parchimetro. Dietro, a debita distanza, gli ultimi due membri della band, Marty Balin e Paul Kantner. La foto originale era in bianco e nero, mentre quella del libretto del disco è colorata di giallo. L'effetto è volutamente psichedelico, anche grazie a un restringimento delle figure che le rende distorte e dalle proporzioni innaturali. A distanza di anni la fotografia dei Jefferson Airplane ha mantenuto per me la stessa seduzione di un tempo, quella fascinazione che mi spinse a cercare in innumerevoli negozi gli occhiali tondi di Jack, la maglia a righe orizzontali di Jorma, gli stivaletti di Marty, i pantaloni in tessuto principe di Galles di Grace. Non so dire cosa abbia di particolare quella foto; eppure, come accadde a Richard Benson con la frangia di George Harrison, ha contribuito a costruire quell'immaginario che ancora oggi mi accompagna.
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