31 gennaio 2025

"Fuga senza fine" di Joseph Roth: tra reduci e rovine

Ci sono opere che possono lasciare il lettore indifferente, oppure sconvolgerlo, a seconda della fase di vita che sta attraversando. Fuga senza fine è una di queste. La storia di Franz Tunda potrebbe infatti apparire come una vicenda a noi aliena, da leggere per semplice diletto e nulla più, "una storia vera" come tiene a precisare l'autore, ma al tempo stesso appartenente a un'epoca lontana. Se invece si astrae la vicenda dal contesto storico e ci si concentra sulla figura del protagonista, allora le cose cambiano. Se poi il lettore si trova in una fase della vita in cui le domande non sembrano trovare risposta, se si sente irrisolto e senza speranza di redenzione, allora nel libro potrà trovare una parte di sé e rimanerne sconvolto. Ciò perché Fuga senza fine è la cronaca di un dramma, quello di chi un giorno si scopre smarrito, di chi non ha più passato e non avrà mai un futuro, di chi si sente schiacciato dal peso di un presente che non gli appartiene.
Franz Tunda è un ex ufficiale dell'esercito austroungarico, fatto prigioniero dai russi durante la Prima guerra mondiale e fuggito dal campo di prigionia. Per anni, fino al 1919, si nasconde in una remota isba siberiana, grazie all'aiuto di un uomo che lo tratta come un fratello. La patria è lontana, l'Impero asburgico non esiste più, nulla egli sa del fratello e soprattutto della fidanzata Irene, che pure secondo il buoncostume borghese ha atteso per anni che egli ritornasse dalla prigionia. Quando Franz apprende che la guerra è finita, il mondo che conosceva è dissolto. Egli è un esule, un relitto storico, un uomo ancora giovane eppure appartenente al passato, un reduce costretto a vagare senza meta per l'Europa nella speranza di incontrare qualcosa che possa restituirgli l'identità perduta, forse proprio grazie alla vecchia fidanzata che egli non ha mai dimenticato.
Il viaggio intrapreso porta Tunda ad attraversare un'Europa in profondo cambiamento: dalla Russia rivoluzionaria passando per la Vienna depressa del post-Impero, dalla fragile Repubblica di Weimar fino ad arrivare in una Parigi decadente che ancora vive dei fasti del suo passato. C'è dunque una segreta corrispondenza tra uomini e luoghi, o sarebbe meglio dire tra uomini ed epoca storica. La crisi non è infatti solo individuale: è una crisi di valori e identità che riguarda l'intero continente. Di uomini come Tunda ce ne sono centinaia di migliaia, tra ex soldati dei contrapposti eserciti, intellettuali frustrati e borghesi impoveriti dal conflitto.
Ovviamente nulla da dire sullo stile di Roth (1894-1939), raffinato, tagliente ed essenziale come è proprio dei grandi scrittori. Alcuni passaggi tuttavia sembrano quasi frettolosi; il romanzo infatti copre poco più di centocinquanta pagine, nel corso delle quali il protagonista gira mezza Europa. Giocoforza ci sono parti, su tutte il ritorno a Vienna o il soggiorno a Baku, in cui alcuni particolari sono dati per scontati e poco approfonditi, aspetto che rende a tratti poco comprensibile l'evolversi della vicenda. Se poi non è così, ma si tratta di una mia erronea impressione, chiedo venia.
C'è chi considera Fuga senza fine uno dei più importanti romanzi del Novecento, assieme a La cripta dei cappuccini del medesimo autore. A mio modesto avviso si tratta di un'affermazione un po' pretenziosa. Certo è invece che si tratta di un libro capace come pochi di captare lo spirito di un'epoca e di un'umanità persa e sofferta. Franz Tunda, in questo senso, è uno dei più emblematici personaggi del Novecento letterario, ben più solido della storia che Roth gli ha fatto vivere.

17 gennaio 2025

"Una scrittura femminile azzurro pallido" di Franz Werfel: una catastrofe umana

Mentre nel romanzo Nella casa della gioia Franz Werfel aveva descritto una società in crisi e un mondo in sfacelo, in questo libro egli si è fatto cronista di un disordine tutto individuale. Leonida, alto funzionario del Ministero dell'istruzione austriaco negli anni immediatamente precedenti l'Anschluss, conduce una vita altisonante come il suo nome. Proviene da una famiglia modesta e grazie a un insperato colpo di fortuna ha sposato Amelie Paradini, una delle donne più ricche del Paese. Ciò gli consente di vivere decisamente al di sopra di quanto gli permetterebbe il suo stipendio da impiegato pubblico. Un'esistenza all'apparenza priva di macchie che è messa in discussione il giorno in cui gli viene recapitata una lettera vergata con scrittura femminile azzurro pallido, da cui il titolo del romanzo. Leonida riconosce subito la mittente, prima ancora di aprire la busta: la missiva è stata scritta da una sua vecchia amante. Sono i fantasmi del passato che si fanno inaspettatamente avanti, rischiando di compromettere l'esistenza agiata del funzionario statale.
Il protagonista è un eroe negativo, in quanto presenta tutti i vizi di certi esponenti della classe dirigente: è dozzinale, fedifrago, calcolatore, cinico, schiavo del dio denaro. Egli è l'incarnazione del parvenu, un uomo tutto sommato mediocre che ha raggiunto la ricchezza e una posizione sociale invidiabile grazie a un matrimonio fortunato. Eppure anche a lui viene offerta un'opportunità di redenzione; proprio quando la sua vita sembra inesorabilmente incardinata nei binari dell'agiatezza e del conformismo, l'arrivo della missiva lo pone di fronte a un bivio. Disinteressarsene distruggendola, come già aveva fatto nel passato, oppure aprirla e rispondere all'esortazione di aiuto ivi contenuta, rischiando tutto in un lancio di dadi. Nessuno può aiutarlo a trovare una soluzione, perché certi rovelli bisogna affrontarli da soli. Tuttavia Leonida non sa cogliere l'estrema opportunità celata tra le pieghe della lettera. E così l'ultima speranza di redenzione si dissolve, lasciandolo più solo e colpevole, a ennesima conferma della sua inettitudine morale.
Franz Werfel (1890-1945) ha dimostrato con questo romanzo di essere stato uno dei più fini narratori della sua generazione, in grado come pochi di trascrivere su carta paure, ossessioni e idiosincrasie dell'uomo europeo a cavallo tra i due conflitti mondiali. Cantore poco conosciuto della finis Austriae, in realtà non aveva nulla da invidiare a grandi contemporanei come Joseph Roth o Arthur Schnitzler.
Tutto il libro ruota intorno a tre soli personaggi principali, attorniati da una manciata di comparse. Leonida è una figura che ispira antipatia sin dalle prime pagine e con l'incedere della storia la prima impressione è confermata e anzi rafforzata. La moglie Amelie è una donna insulsa, piagnucolosa, succube dei capricci del marito e incapace di slanci vitali. Poi c'è la misteriosa autrice della lettera che, nonostante appaia soltanto nelle pagine finali, lascia il segno più profondo nel ricordo del lettore, in quanto è lei il vero deus ex machina dell'azione. E infine c'è Vienna, quasi un quarto personaggio, descritta da Werfel con pochi rapidi tocchi, perché se è vero che la vicenda si svolge quasi tutta in interni, gli scorci della città che si intravedono dalle finestre bastano per costruire uno scenario di grande fascino.
Una scrittura femminile azzurro pallido è la storia di un tormento, nonché un'impietosa critica al culto tutto borghese dell'apparenza e all'ipocrisia che spesso si cela dietro i rapporti umani, soprattutto tra i membri della classe dirigente. Werfel osserva con sguardo lucido e spietato la catastrofe umana del suo protagonista, senza tuttavia assumere toni moraleggianti o paternalistici. Il narratore non giudica, lascia che sia Leonida a firmare ed eseguire la sua stessa condanna, quella di un uomo che acquisisce consapevolezza quando è ormai troppo tardi e il fuoco è morto sotto la cenere. Il libro raggiunge dunque il suo punto più alto nello struggente finale, in cui Leonida, seduto su una poltrona del teatro, cade preda di un sonno convulso e animato da fantasmi. Sono i ricordi e le opportunità del passato, tutte quelle che non ha saputo cogliere e che non torneranno più. A lui, però, uomo mediocre e incapace di un sentire poetico, non resta neppure la gozzaniana consolazione del malinconico rimpianto, il «non amo che le rose che non colsi, non amo che le cose che potevano essere e non sono state».

4 gennaio 2025

"C.S.I. È stato un tempo il mondo" di Donato Zoppo: voci dai confini della Terra

Il Consorzio Suonatori Indipendenti, più semplicemente C.S.I., è stato il portabandiera di un mondo in cambiamento. Il "secolo breve" stava finendo e con esso le grandi ideologie che avevano infiammato gli animi, il mondo a blocchi contrapposti era giunto al capolinea e anche gli artisti percepivano nuove urgenze espressive e la necessità di lasciarsi alle spalle un passato divenuto ingombrante. In Italia i CCCP, al netto delle provocazioni e dei colpi di teatro, avevano in qualche misura rappresentato perfettamente quel mondo che appariva in sfacelo all'alba dei Novanta; non a caso il loro ultimo album, Epica etica etnica pathos, era già un canto d'addio e al contempo l'apertura verso qualcosa di nuovo. I C.S.I. nacquero dalle ceneri dei CCCP, con i provvidenziali innesti di alcuni ex Litfiba; una storia destinata a lasciare una traccia profonda nella scena rock nostrana, praticamente fino ai nostri giorni. Questa anomala alleanza artistica dell'Appennino tosco-emiliano non fu pensata come un gruppo nel senso classico del termine; un consorzio per l'appunto, a voler significare un patto contadino e operaio, stretto però tra musicisti che si consideravano indipendenti, in quanto ciascuno avrebbe portato il proprio bagaglio individuale per arricchire il tutto.
C.S.I. È stato un tempo il mondo, è l'appassionante racconto di quell'esperienza irripetibile. Il libro, scritto dal giornalista musicale Danilo Zoppo ed edito nel 2024 per i tipi di Aliberti, racconta la prima parte della breve storia della band, coprendo il periodo che va dallo scioglimento dei CCCP nel 1990 fino al tour di In quiete che seguì la pubblicazione del primo lavoro in studio, Ko de mondo, passando per l'esperienza del Maciste e dei Dischi del Mulo. Pertanto, pur essendo concepito come «un resoconto collettivo a più voci del Consorzio Suonatori Indipendenti», il saggio in realtà affronta solo la prima parte della loro carriera, concentrandosi specialmente sulle vicende che precedettero e seguirono l'uscita del primo LP. Resoconto a più voci nel senso che le pagine sono arricchite dalle parole e dai ricordi dei protagonisti di quegli anni, in primis i membri della spedizione che si recò in Bretagna a concepire, suonare e registrare il disco: Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Francesco Magnelli, Gianni Maroccolo, Giorgio Canali, Ginevra Di Marco, Pino Gulli e Alessandro Gerbi. Oltre naturalmente agli interventi di altri protagonisti di quell'avventura, come tecnici, fotografi, registi e discografici.
È stato un tempo il mondo, titolo tratto da una canzone dell'album e quanto mai azzeccato, offre un interessante spaccato del mondo musicale nostrano a cavallo di due decadi decisive, un attimo prima che l'avvento del digitale distruggesse per sempre quel modo genuino di fare musica, suonarla e ascoltarla. Il nucleo del libro è il racconto della spedizione in Bretagna; si scopre così che alla partenza per Finistère non c'era praticamente materiale e che Ko de mondo venne costruito da zero in un mese e mezzo nell'ameno scenario di Le Prajou, la grande magione ai confini del mondo affittata per l'occasione dalla casa discografica. A tratti sembra di leggere un romanzo, anche perché i membri dei C.S.I., con le loro personalità forti e definite, avevano tutti i caratteri di personaggi di fantasia. Si pensi ai due chitarristi, Zamboni e Canali, così diversi anche solo nell'aspetto, oppure al deus ex machina Maroccolo o al perfezionismo da scuola classica di Magnelli, per non parlare dell'aura mistica che da sempre circonda Ferretti. Leggendo il volume sembra di trovarsi con loro nell'avita dimora in Bretagna mentre il disco viene suonato e registrato. Ovviamente solo chi conosce Ko de mondo può capire alcuni passaggi, in quanto la lettura non può prescindere da un previo ascolto dell'album. 
Negli ultimi tempi si è rinnovato l'interesse intorno al Consorzio, merito soprattutto della reunion dei CCCP; c'è stato dunque un proliferare di interviste, ristampe, libri fotografici e celebrativi, come non si vedeva da tempo. Ciononostante, il libro di Zoppo è riuscito a ritagliarsi uno spazio, forse proprio per la sua specificità del concentrarsi solo su una breve frazione di questa storia di rock nostrano. Per tali ragioni, è un saggio destinato prevalentemente ai fan, che potranno scovarvi molte curiosità, interviste inedite e punti di vista differenti. Ritengo tuttavia possa essere letto anche da tutti gli amanti del rock italiano che, pur non essendo appassionati del Consorzio, abbiano voglia di conoscere una bella storia degli anni Novanta che meritava di essere raccontata così dettagliatamente.