25 febbraio 2025

"Mighty Joe Moon": il folk contemporaneo dei Grant Lee Buffalo

Il principale merito delle grandi band è la capacità di creare un suono riconoscibile già al primo ascolto. Mi vengono in mente gli Smiths, i Depeche Mode e gli Smashing Pumpkins, nonché gruppi meno noti ma altrettanto originali come i Wedding Present, il cui muro chitarristico è un vero e proprio marchio di fabbrica. Grant Lee Buffalo è un nome che dice poco al grande pubblico, eppure i losangelini possono e devono essere inseriti in questa cerchia ristretta.
La loro pazza idea fu quella di proporre una personale rivisitazione del folk-rock che ha in Neil Young uno dei più grandi interpreti. Idea pazza perché la loro storia si esaurì in una manciata di anni, tra il 1991 e il 1999, quando pubblico e mercato erano orientati su altre proposte. Erano gli anni del brit-pop, del grunge, dello shoegaze e di quel calderone ribollente che venne genericamente chiamato rock alternativo e poi indie. I tre di Los Angeles, invece, pur inserendosi egregiamente nel contesto, tanto da partecipare anche a programmi di MTV, puntavano lo sguardo al passato, alla grande tradizione americana del country e del folk. Il loro stile non era tuttavia semplicemente derivativo, in quanto il suono della tradizione era filtrato da una sensibilità contemporanea che lo rendeva facilmente fruibile e, soprattutto, attuale e non anacronistico. Limitarsi a citare un genere è dunque fuorviante, perché i Grant Lee Buffalo hanno avuto la capacità di prendere linfa dalle radici della tradizione senza diventare emuli dei grandi del passato.
Mighty Joe Moon (1994) è forse l'apice della loro carriera, oltre che l'emblema di tale proposta musicale. Per comprenderlo basta dare un'occhiata alla ricchissima strumentazione, che comprende chitarre elettriche, banjo, basso, armonica, organo elettrico, piano, marimba, mandolino e batteria. Un mix di strumenti della tradizione nord e sudamericana, oltre a quelli tipici delle rockband. Senza dimenticare la splendida voce di Grant Lee Phillips, una delle più intense di quegli anni, capace di spaziare dal falsetto (Mockingbirds) ai toni più profondi ed evocativi (Sing along, Honey don't think).
Quando Grant Lee Phillips, Joey Peters e Paul Kimble (nelle vesti anche di produttore) entrarono al Brilliant Studio di San Francisco, dovevano avere le idee ben chiare. Altrimenti non si spiegherebbe la compiutezza di questo album, il secondo della loro breve discografia. Non ci sono punti morti, né riempitivi; persino il breve intermezzo di Last days of Tecumseh, un minuto o poco più, ha il suo perché. Anzi, è l'unica traccia smaccatamente country; eppure il loro tocco originale la fa piacere persino a uno come me che non ha mai sopportato il genere.
Il disco inizia alla grande con Lone star song, epopea americana in poco meno di cinque minuti, un blues sanguigno ed elettrico che graffia le orecchie. Si rifiata con l'acustica Mockingbirds, a mio avviso il pezzo in cui emergono al meglio le doti vocali di Phillips. Significativa anche Sing along, che vive di due momenti ben distinti: l'esplosione elettrica iniziale e il finale sussurrato che si chiude in delicati arpeggi di chitarra. In generale nel disco si nota una grande capacità di dosare ritmi e suoni diversi, sicché l'impressione finale è quella di un deciso equilibrio. Si prenda un pezzone come A demon called deception, dove non c'è un elemento che non sia esattamente al suo posto: la batteria incalzante, la musicalità del testo, la voce di Phillips ora imperiosa ora struggente, le sferzate di chitarra elettrica e le linee decise del basso. In generale non c'è un solo brano che possa dirsi non riuscito, tanto che il finale di Rock of ages è sorprendente per chi, arrivato alla tredicesima traccia, pensi di aver già sentito il meglio. La vera perla è secondo me Honey don't think, anche questa strategicamente collocata in coda; è semplicemente una delle più ispirate e struggenti canzoni d'amore degli anni Novanta.
Mighty Joe Moon è un gran bel disco, si potrebbe persino azzardare definendolo un capolavoro, sia pure sottovoce. Tredici tracce che avvolgono l'ascoltatore in un turbine di suoni caldi e pastosi, in cui si alternano passaggi elettrici e acustici, con testi visionari recitati da una voce, quella di Grant Lee Phillips, capace in certi momenti di brillare di una grazia quasi sovrumana. Indipendentemente da quale sia il vostro genere preferito, se amate la musica comprate questo disco.
La copertina e, in basso, foto tratte dal libretto interno

12 febbraio 2025

"Il paese delle meraviglie" di Giuseppe Culicchia: la generazione segnata dall'odio

A rileggere un libro che ha segnato una fase della nostra vita si corre un rischio, ossia quello di smarrire la magia della prima lettura. Sarà capitato a tutti di non riuscire più a ritrovare tra le pagine di un libro amato i segni di quel vecchio innamoramento. Forse per questo non ho mai riletto Il giovane Holden, per la paura (sia pure infondata) di rimanerne deluso. Ho fatto un'eccezione per Il paese delle meraviglie di Culicchia, che un'amica mi prestò nel lontano 2004, fresco di stampa. All'epoca mi fulminò, fissato com'ero per il punk e certe controculture ribelli. Un romanzo che mi segnò più profondamente di quanto abbia mai creduto, al punto che, rileggendolo, sono rimasto assai sorpreso di ricordarlo meglio di quanto mi aspettassi. Pur con le dovute differenze, le buone impressioni sono rimaste. Se vent'anni fa lo elessi a libro cult, un vero e proprio manifesto, oggi lo considero un nostalgico ricordo di un'epoca spensierata che non c'è più.
Sorprendentemente, inoltre, la seconda lettura mi ha condotto a riflessioni che vent'anni fa non erano possibili. Se infatti era intuibile che ci fossero degli spunti autobiografici, mai avrei potuto immaginare che la figura di Alice, uno dei personaggi del romanzo, fosse modellata su quella di Walter, cugino dell'autore e protagonista di una tragica vicenda che Culicchia ha trovato la forza di raccontare solo di recente. Senza svelare troppo della trama, chi volesse approfondire questo spunto autobiografico, rinvenendo eventualmente le mie stesse impressioni, può leggere il recente Il tempo di vivere con te.
In parole semplici, Il paese delle meraviglie è la storia di un'amicizia, profonda e sincera come può nascere solo in adolescenza, quella tra l'io narrante Attilio (detto Attila) e Francesco Zazzi (detto Franz). Quest'ultimo è un personaggio che difficilmente può essere dimenticato: quindici anni, sguardo azzurro pazzo, jeans fulminati dalla candeggina, chiodo e t-shirt con slogan scritti a biro risalenti al ventennio fascista. Franz infatti si dichiara neofascista, eppure il suo atteggiamento da immarcescibile poser ce lo fa amare sin dalle prime pagine. Coi suoi eccessi e la sua coerenza, Franz è l'amico che tutti in adolescenza avremmo voluto avere: folle, energico, fedele ai suoi ideali (per quanto discutibili), menefreghista, sciolto dai vincoli della buona società, malinconicamente anarchico nel profondo.
Le avventure di Attila e Franz nel corso di un intero anno scolastico, assieme a un incredibile numero di comprimari, sono il cuore pulsante della vicenda. Eppure Il paese delle meraviglie è anche qualcosa di più, perché attraverso la storia dei due amici Culicchia dipinge un impietoso ritratto dell'Italia alla fine degli Anni settanta, schiacciata tra il sogno del benessere e l'incubo del terrorismo e degli opposti estremismi. Il romanzo è infatti ambientato nel 1977 e sebbene i due amici vivano in un piccolo comune della provincia piemontese, gli echi del mondo si fanno sentire forte e chiaro, con la lotta politica, il punk, i Ramones e i Sex Pistols, la droga, la lotta senza tempo tra progressisti e conservatori. Il paese del titolo è l'Italia profondamente provinciale e bigotta in cui i due protagonisti hanno la ventura di vivere; una nazione incapace di spiccare veramente il volo, dilaniata com'è dalle opposte ideologie, siano esse politiche, sociali o religiose. In questo clima si consuma l'adolescenza sofferta di Franz e Attila, il primo troppo eccentrico per poter sopravvivere nella buona società, il secondo costretto a crescere troppo presto e a mettere i sogni nel cassetto. Non a caso il libro si conclude con la frase «io odio tutti», che non ha tuttavia l'ironico significato di un certo anarchismo punk, ma va intesa proprio in senso letterale. Arduo persino parlare di un romanzo di formazione, se così stanno le cose, in quanto il punto di approdo non è la crescita, ma un doloroso e invincibile disincanto.
Il libro di Culicchia ha segnato molti della mia generazione e di quella immediatamente precedente, come ho avuto modo di appurare confrontandomi con alcuni amici. E chiunque l'abbia letto, nessuno escluso, a distanza di anni ancora ricorda il pugno nello stomaco delle pagine finali.