Carlo Bernari (Napoli, 1909 – Roma, 1992) è noto soprattutto per Tre operai, romanzo sui temi del lavoro e delle condizioni della classe operaia che pubblicò giovanissimo, nel 1934. Due anni dopo ultimò un romanzo breve che riprendeva alcune tematiche già trattate, concentrandosi stavolta su quella misera classe impiegatizia che tutto sommato non se la passava tanto meglio. L'opera, sia pur compiuta, rimase inedita fino al 1993, quando fu pubblicata in prima edizione assoluta dalla Newton Compton nella celebre collana "Tascabili Economici 100 pagine, 1000 lire", con il titolo L'ombra del suicidio e il sottotitolo Lo strano Conserti.
Conserti è il protagonista del romanzo, anzi un deus ex machina, il vero e proprio motore dell'azione e nucleo intorno al quale ruotano tutte le vicende e gli altri personaggi, ridotti quasi a comparse. Uomo misterioso e controverso – "strano", come lo definisce il sottotitolo –, di lui sappiamo poco o nulla, salvo qualche scampolo del passato. Sappiamo solo che è un meridionale trasferitosi da poco a Milano per lavorare in una compagnia di assicurazioni. Egli è tuttavia riottoso all'efficientismo meneghino, cui contrappone la propria visione di vita, lontana dalle logiche e dalle lusinghe del profitto.
«Io non sono uno che possa sopportare facilmente l'idea di farmi schiacciare dal capitalismo lombardo.»
Egli è, nelle parole e nei fatti, un anarchico individualista, animato da un indomito spirito di ribellione che, tuttavia, non poggia propriamente su rivendicazioni sociali o di classe. È un oppositore del sistema industriale e capitalistico, nemico giurato della triade "produci-consuma-crepa", per dirla con le parole di una canzone dei CCCP. Conserti è un antagonista della logica del consumismo, prima ancora che la parola entrasse nel lessico comune. E così, da nuovo arrivato nell'ufficetto periferico della grande compagnia di assicurazioni, in breve diventa il più amato, invidiato e al contempo temuto dagli inetti colleghi, grazie alla sua capacità di imporsi persino sui capi, all'apparenza senza alcuna difficoltà. Meridionali come lui, i colleghi sono invece i perfetti ingranaggi del sistema, da cui si sono fatti abbindolare.
«All'inverso s'erano lasciati schiacciare, senza lamentarsi, ma solo consolandosi allorché scoprivano che un meridionale era giunto ad un posto di comando: l'intelligenza del sud, dicevano allora, la spunta sempre; e si confortavano pensando che essi non erano completamente naufragati e potevano sempre salvarsi.»
Lo strano Conserti è per i colleghi, al contempo, esempio e condanna: esempio per ciò che loro avrebbero voluto essere, condanna per quanto avevano ripudiato, ovvero la placida e indolente vita delle campagne meridionali, legata ai cicli sempre uguali delle stagioni, ai ritmi della natura e alle tradizioni degli avi. A Milano, invece, il quotidiano è arido e frenetico, comandato dalla logica del profitto e dal credo imperativo del capitalismo. La contrapposizione nord-sud, tema che sarà ripreso in altri lavori del napoletano Bernari, è in questo romanzo appena accennata, sebbene sia funzionale a definire i contorni della storia. Negli anni Trenta forse il divario era meno accentuato rispetto a quanto sarebbe accaduto con il boom economico, eppure Bernari ha anticipato una tematica che sarebbe stata trattata ampiamente da altri scrittori meridionali (e meridionalisti), praticamente fino ai giorni nostri; mi viene in mente, da ultimo, Dante Maffia.
La ribellione di Conserti parte dalle piccole cose, come il prolungare le pause caffè, per aspirare infine a un obiettivo più alto: sabotare e sovvertire il sistema. La decisione di colpire il simbolo di quel potere, impersonato dalla ieratica figura del Direttore Generale, matura nell'animo del protagonista parallelamente all'acquisizione dell'orrida consapevolezza di essere egli stesso funzionale alla preservazione di quel sistema che aborrisce. La soluzione per liberarsi è una soltanto: prendere una pistola e ammazzarlo.
«Noi siamo i suoi agenti, come per i credenti i preti sono gli agenti di Dio sulla terra. Vivendo noi non misuriamo interamente la sua potenza. Tuttavia la difendiamo, propagandiamo il suo verbo, inconsapevolmente. Siamo la sua polizia, i suoi carabinieri. Come i poliziotti difendono il governo automaticamente, anche se il governo non dice loro: difendimi, arresta quello lì che mi dà fastidio; così noi difendiamo lui, questo padrone, senza conoscerlo, e senza che egli ci dica: difendimi! Lui è tutto.»
L'ombra del suicidio è un romanzo anomalo nel contesto della letteratura italiana del primo Novecento, sebbene al contempo non del tutto eccentrico. Si inserisce infatti nel fecondo calderone della cosiddetta "letteratura industriale", eppure colpisce per la fermezza, oserei dire quasi la violenza, di alcuni suoi passaggi, incredibile soprattutto se si pensa che fu scritto (ma non pubblicato) nel 1936, quando un attacco così frontale ai gangli del potere politico e industriale poteva costare il confino, nella migliore delle ipotesi. Di certo non è anacronistico; tuttavia, anche a volerlo spogliare di alcuni contenuti non più di stretta attualità, resta un romanzo valido e interessante che racconta l'ascesa e il naufragio morale e materiale di un aspirante rivoluzionario, un no-global ante litteram.