30 aprile 2025

"L'ombra del suicidio" di Carlo Bernari: un no-global ante litteram

Carlo Bernari (Napoli, 1909 – Roma, 1992) è noto soprattutto per Tre operai, romanzo sui temi del lavoro e delle condizioni della classe operaia che pubblicò giovanissimo, nel 1934. Due anni dopo ultimò un romanzo breve che riprendeva alcune tematiche già trattate, concentrandosi stavolta su quella misera classe impiegatizia che tutto sommato non se la passava tanto meglio. L'opera, sia pur compiuta, rimase inedita fino al 1993, quando fu pubblicata in prima edizione assoluta dalla Newton Compton nella celebre collana "Tascabili Economici 100 pagine, 1000 lire", con il titolo L'ombra del suicidio e il sottotitolo Lo strano Conserti.
Conserti è il protagonista del romanzo, anzi un deus ex machina, il vero e proprio motore dell'azione e nucleo intorno al quale ruotano tutte le vicende e gli altri personaggi, ridotti quasi a comparse. Uomo misterioso e controverso – "strano", come lo definisce il sottotitolo –, di lui sappiamo poco o nulla, salvo qualche scampolo del passato. Sappiamo solo che è un meridionale trasferitosi da poco a Milano per lavorare in una compagnia di assicurazioni. Egli è tuttavia riottoso all'efficientismo meneghino, cui contrappone la propria visione di vita, lontana dalle logiche e dalle lusinghe del profitto.
«Io non sono uno che possa sopportare facilmente l'idea di farmi schiacciare dal capitalismo lombardo.»
Egli è, nelle parole e nei fatti, un anarchico individualista, animato da un indomito spirito di ribellione che, tuttavia, non poggia propriamente su rivendicazioni sociali o di classe. È un oppositore del sistema industriale e capitalistico, nemico giurato della triade "produci-consuma-crepa", per dirla con le parole di una canzone dei CCCP. Conserti è un antagonista della logica del consumismo, prima ancora che la parola entrasse nel lessico comune. E così, da nuovo arrivato nell'ufficetto periferico della grande compagnia di assicurazioni, in breve diventa il più amato, invidiato e al contempo temuto dagli inetti colleghi, grazie alla sua capacità di imporsi persino sui capi, all'apparenza senza alcuna difficoltà. Meridionali come lui, i colleghi sono invece i perfetti ingranaggi del sistema, da cui si sono fatti abbindolare.
«All'inverso s'erano lasciati schiacciare, senza lamentarsi, ma solo consolandosi allorché scoprivano che un meridionale era giunto ad un posto di comando: l'intelligenza del sud, dicevano allora, la spunta sempre; e si confortavano pensando che essi non erano completamente naufragati e potevano sempre salvarsi.»
Lo strano Conserti è per i colleghi, al contempo, esempio e condanna: esempio per ciò che loro avrebbero voluto essere, condanna per quanto avevano ripudiato, ovvero la placida e indolente vita delle campagne meridionali, legata ai cicli sempre uguali delle stagioni, ai ritmi della natura e alle tradizioni degli avi. A Milano, invece, il quotidiano è arido e frenetico, comandato dalla logica del profitto e dal credo imperativo del capitalismo. La contrapposizione nord-sud, tema che sarà ripreso in altri lavori del napoletano Bernari, è in questo romanzo appena accennata, sebbene sia funzionale a definire i contorni della storia. Negli anni Trenta forse il divario era meno accentuato rispetto a quanto sarebbe accaduto con il boom economico, eppure Bernari ha anticipato una tematica che sarebbe stata trattata ampiamente da altri scrittori meridionali (e meridionalisti), praticamente fino ai giorni nostri; mi viene in mente, da ultimo, Dante Maffia.
La ribellione di Conserti parte dalle piccole cose, come il prolungare le pause caffè, per aspirare infine a un obiettivo più alto: sabotare e sovvertire il sistema. La decisione di colpire il simbolo di quel potere, impersonato dalla ieratica figura del Direttore Generale, matura nell'animo del protagonista parallelamente all'acquisizione dell'orrida consapevolezza di essere egli stesso funzionale alla preservazione di quel sistema che aborrisce. La soluzione per liberarsi è una soltanto: prendere una pistola e ammazzarlo.
«Noi siamo i suoi agenti, come per i credenti i preti sono gli agenti di Dio sulla terra. Vivendo noi non misuriamo interamente la sua potenza. Tuttavia la difendiamo, propagandiamo il suo verbo, inconsapevolmente. Siamo la sua polizia, i suoi carabinieri. Come i poliziotti difendono il governo automaticamente, anche se il governo non dice loro: difendimi, arresta quello lì che mi dà fastidio; così noi difendiamo lui, questo padrone, senza conoscerlo, e senza che egli ci dica: difendimi! Lui è tutto.»
L'ombra del suicidio è un romanzo anomalo nel contesto della letteratura italiana del primo Novecento, sebbene al contempo non del tutto eccentrico. Si inserisce infatti nel fecondo calderone della cosiddetta "letteratura industriale", eppure colpisce per la fermezza, oserei dire quasi la violenza, di alcuni suoi passaggi, incredibile soprattutto se si pensa che fu scritto (ma non pubblicato) nel 1936, quando un attacco così frontale ai gangli del potere politico e industriale poteva costare il confino, nella migliore delle ipotesi. Di certo non è anacronistico; tuttavia, anche a volerlo spogliare di alcuni contenuti non più di stretta attualità, resta un romanzo valido e interessante che racconta l'ascesa e il naufragio morale e materiale di un aspirante rivoluzionario, un no-global ante litteram.
Prima e finora unica edizione, anno 1993

17 aprile 2025

Uno sguardo "fantastico" sulla guerra

Soldato ignoto, ultima prova dietro la macchina da presa per Marcello Aliprandi (1934-1997), può essere definito un gioiello nascosto del nostro cinema. Nel 1995 fu persino premiato al Festival Internazionale del Cinema di Salerno, eppure oggi è una pellicola quasi dimenticata. Buona la prova di un cast che annoverava ottimi interpreti, tra cui Martin Balsam, Giovanni Guidelli e un bravissimo Angelo Orlando.
La trama ci riporta agli ultimi anni della Seconda guerra mondiale. Sono i giorni confusi che seguono l'armistizio dell'otto settembre del 1943: il Regio Esercito è sbandato e l'Italia diventa improvvisamente teatro di una feroce guerra che vede contrapposti gli Alleati alle truppe nazifasciste. La vicenda si svolge in un luogo imprecisato del Meridione, sebbene sia possibile collocarlo nella provincia di Salerno, in virtù di due riferimenti geografici menzionati dai protagonisti, Pontecagnano e Capaccio. Nel bel mezzo di una battaglia si forma una nebbia così fitta che alcuni soldati degli opposti schieramenti si smarriscono e sono infine costretti a rifugiarsi in un'antica magione in stile neoclassico. Il palazzo è vuoto, eppure vi sono tracce di vita recente, come il fuoco che arde nei caminetti. Qui e lì sono inoltre ammonticchiati elmetti, divise e armi risalenti a diverse epoche storiche.
Alla spicciolata arrivano tutti: due ufficiali e un soldato inglesi, un soldato italiano, uno tedesco, un disertore americano, una crocerossina e un ambiguo corrispondente di guerra italiano. Il palazzo è come una prigione dorata, perché non è possibile uscirne a causa della fittissima nebbia, ma al tempo stesso è riscaldato e dotato di ogni comfort. Che ci sia qualcosa di anomalo è evidente a tutti, ma nessuno è davvero preparato a scoprire la verità, ovvero di essere rimasti uccisi nel corso della battaglia. Essi sono tutti morti e il palazzo è una sorta di luogo di transito dove vanno le anime dei defunti di guerra, forse prima di raggiungere l'aldilà.
Soldato ignoto non è dunque un film di guerra, almeno non nel senso classico. Si tratta infatti di un lungometraggio che potremmo tranquillamente catalogare nel genere fantastico, sia pure entro una cornice realistica. Anzi, a pensarci bene, cosa c'è di più reale e concreto di una guerra? La guerra è proprio la tragedia collettiva in cui sono più forti le esigenze del reale; per questo l'opera di Aliprandi è particolarmente originale, per aver commisto elementi fantastici a una vicenda fortemente realistica. É un'opera di denuncia che porta avanti un chiaro messaggio antimilitarista, avvalendosi tuttavia di un espediente fantastico.
Sebbene sia stato girato tutto in interni, il film scorre senza annoiare mai e senza tempi morti. I dialoghi tra i personaggi prevalgono rispetto all'azione; la stessa guerra è più evocata dai rumori che provengono dall'esterno, quali spari e boati, che realmente vissuta dai protagonisti, se non attraverso i ricordi. Nella condizione di convivenza forzata in cui si vengono a trovare, essi raccontano scampoli della propria esistenza, consci del fatto che presto dimenticheranno tutto, una volta chiamati a lasciare quel limbo che è il palazzo. E proprio nel racconto si scoprono diversi eppure uguali, perché al di là della bandiera e della divisa esistono valori universali che accomunano tutti gli uomini. Lo stesso concetto del "nemico" svanisce, al punto che persino il riottoso tedesco diventa parte del gruppo e alle regole del gruppo si adegua.
In questi tempi bui si è tornato a parlare di guerra in maniera spregiudicata, come purtroppo dimostrano non solo le tragedie dell'Ucraina e della Palestina, ma anche le voci imperiose dei potenti della Terra che incitano all'odio tra i popoli e al riarmo. Guardare un film come Soldato ignoto, a maggior ragione in quanto sconosciuto ai più, diventa allora quasi un atto politico, una forma di ribellione ideologica a chi, colpevolmente immemore degli orrori del passato, vorrebbe ancora farci credere che la guerra sia una soluzione ai problemi del mondo e non un'immane tragedia collettiva.
Una suggestiva foto di scena (tratta da www.angeloorlando.com)

3 aprile 2025

"L'assenza dell'assenzio" di Andrea G. Pinketts: il vuoto come crisi

Ogni tanto mi capita di riprendere la saga di Lazzaro Santandrea lì dove l'avevo interrotta. A dire la verità, almeno all'inizio non ho seguito il corretto ordine cronologico, dato che il romanzo d'esordio l'ho letto per terzo. Con Il conto dell'ultima cena (1998) e con L'assenza dell'assenzio (1999), rispettivamente il quarto e il quinto della saga, ho ripreso il giusto ritmo.
Ne L'assenza dell'assenzio ritroviamo un Lazzaro trentacinquenne alle prese con una profonda crisi esistenziale, coincidente con la fine della (prima) giovinezza. Se infatti il nostro eroe è una sorta di eterno Peter Pan, non può ignorare che il mondo intorno a lui è preda di frenetici e irreversibili cambiamenti. Il primo è la morte dell'inossidabile nonna, vecchia quercia trentina tutta d'un pezzo che era presente sin dal romanzo d'esordio. Il secondo cambiamento, una vera e propria rivoluzione, è dato dall'assenza degli amici di sempre: l'ineffabile Duilio Pogliaghi, detto Pogo il Dritto, l'attore fallito Antonello Caroli, il corpulento Carne e altri facenti parte della sua corte dei miracoli. Pogo ha avuto un figlio dall'ex compagna e adesso ne ha trovata un'altra con lo stesso nome, Cristina. Carne è sparito definitivamente dai radar. Antonello Caroli ha raccontato di essersi trasferito a Cinecittà, sebbene viva quasi da recluso nell'appartamento della periferia milanese condiviso con la mamma. Lazzaro si ritrova così da solo ad affrontare una profonda crisi, la crisi dell'assenza. Assenza di senso, assenza di obiettivi, assenza di prospettive concrete, assenza di voglia di essere come gli altri vorrebbero che noi fossimo; perché lui, in fondo, è un Peter Pan anarchico.
«La mia vita era un mistero. Lazzaro Santandrea, ex modello, ex giornalista, ex istruttore di kendo, ex possidente, ex conferenziere. Una sfilza di ex fidanzate a fare compagnia a tutte le ex persone che ero stato.»
Nel mezzo del cammin di sua vita il nostro eroe si reinventa cacciatore di dote e va alla ricerca di una donna ricca da sposare e da cui farsi mantenere. La trova in Orsetta Orsoni, figlia del facoltoso Ursus Orsoni. L'ingresso in casa Orsoni, come spesso accade nella vita di Lazzaro, è l'evento che dà il via a una scia di morti e sparizioni (torna il tema dell'assenza) in cui egli dovrà ancora una volta assumere le indesiderate vesti del detective. E quando il gioco si farà duro, ritorneranno anche i cari amici di un tempo, Pogo e Antonello, pronti a dare una mano.
Leggendo Pinketts a volte ci si dimentica che egli è stato un autore di gialli/noir, perché nei suoi libri il delitto non è il motore dell'azione, ma il pretesto per dare vita a storie strampalate in cui lo scrittore milanese riversava tutto il suo mondo. È noto che Lazzaro sia un alter ego dell'autore, così come è noto che l'ambiente delle periferie e dei bar milanesi in cui egli si muove non sia altro che l'habitat naturale in cui Pinketts è nato, cresciuto e ha vissuto.
L'assenza dell'assenzio, come tutti i romanzi della saga, è un inno commovente a un'adolescenza mai finita e artificiosamente prolungata, la giovinezza intesa come condizione esistenziale dell'animo, prima ancora che fisica o anagrafica. Lazzaro ha trentacinque anni, Antonello più di quaranta e Pogo una via di mezzo, eppure nessuno dei tre è davvero un adulto. Ho parlato di un inno "commovente" alla giovinezza perché, leggendo Pinketts, ho sempre avuto l'impressione che egli abbia cercato di fermare quell'attimo fuggevole che è l'età verde, imprimendola sulla pagina attraverso la scrittura. Si ride molto leggendo le sue opere, eppure al tempo stesso si riflette sugli aspetti più amari della nostra esistenza. Il tutto attraverso uno stile personalissimo, fatto di continui cambi di registro e giochi di parole – non tutti riusciti, a dire la verità –, in cui dialoghi spesso esilaranti si alternano a pensieri di sicuro valore letterario.
Ho scritto questa recensione di getto, probabilmente senza neppure accennare a quanto avrei voluto dire, facendomi guidare da un coacervo di impressioni scaturite dalla lettura. In conclusione, posso solo aggiungere che L'assenza dell'assenzio è un viaggio nelle paludi più torbide dell'animo umano, cui Pinketts però contrappone valori positivi: l'amicizia, la famiglia, la coerenza, l'essere se stessi anche a costo di tradire le aspettative che gli altri illegittimamente ripongono su di noi.
La recente ristampa Harper Collins