26 maggio 2025

"Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Erich Maria Remarque: la generazione tradita

Voler parlare su queste pagine di un romanzo così celebre e celebrato ha poco senso. D'altronde, cosa mai si potrà dire di nuovo? Al tempo stesso, però, quando un libro è un classico ha sempre qualcosa da raccontare, anche a distanza di anni e di migliaia di recensioni e saggi critici.
Dell'opera principale di Remarque, vero e proprio classico moderno, è stato scritto tutto; tradotta in tante lingue e venduta in milioni di copie, non c'è bancarella dell'usato in cui non se ne trovi anche più di un esemplare. La trama è arcinota: alcuni giovani studenti tedeschi, infiammati dalla propaganda sciovinista, si arruolano volontari per combattere nella Prima guerra mondiale, inconsapevoli di ciò che li attende una volta giunti al fronte. Moriranno quasi tutti, schiantati dalle artiglierie, colpiti da proiettili vaganti, dilaniati dalle schegge, avvelenati dai gas, perfino pugnalati nei terribili assalti all'arma bianca nelle trincee nemiche. Il libro nulla nasconde degli orrori visti e delle sofferenze patite da tutti quei giovani, alcuni poco più che bambini. Un resoconto autentico, duro e tagliente come sa essere solo la verità.
Consapevole di non poter dire nulla di nuovo o di originale, voglio concentrarmi soltanto su un aspetto, quello che mi ha colpito di più. Perché se è vero che Niente di nuovo sul fronte occidentale è principalmente un grido d'accusa contro l'insensatezza della guerra e uno straordinario manifesto pacifista, c'è un altro tema che a Remarque stava particolarmente a cuore, ovvero il tradimento generazionale. Paul e gli altri sono convinti ad arruolarsi dal loro professore di liceo, il nazionalista Kantorek. Questi è un uomo tutto sommato insignificante, che tuttavia grazie a doti retoriche e al carisma esercitato sugli studenti per via del suo ruolo, li persuade ad arruolarsi volontari, di fatto spedendoli al macello. È lui il vero traditore, secondo Remarque, un uomo che ha barattato il suo ruolo di educatore con gli ideali stantii del nazionalismo e del bellicismo.
«Essi dovevano essere per noi diciottenni introduttori e guide dell'età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura e al progresso; insomma all'avvenire. […] Al concetto dell'autorità di cui erano rivestiti, si univa nelle nostre menti un'idea di maggiore prudenza, di più umano sapere. Ma il primo morto che vedemmo mandò in frantumi questa convinzione. Dovemmo riconoscere che la nostra età era più onesta della loro. […] Il primo fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore, e dietro ad esso crollò la concezione del mondo che ci avevano insegnata.»
Questo è, secondo me, il tema centrale del romanzo, un significato forse più nascosto rispetto al palese messaggio pacifista (o meglio, antimilitarista tout court), eppure altrettanto se non addirittura più potente. I valori propagandati dalla classe dirigente crollano al ritmo del disvelamento delle loro menzogne, cadono nelle trincee fangose, sebbene i "professori" continuino imperterriti a propagandarli. E così i civili rimasti a casa non conoscono nulla del fronte, se non le mezze verità e le clamorose bugie raccontate dagli organi di stampa e dalla propaganda. Si opera pertanto un brusco taglio generazionale, destinato a non ricucirsi più. Gli adulti, coloro che avrebbero dovuto istruire i giovani e prepararli al futuro, li hanno invece condotti al massacro sull'onda di discorsi patriottici che si sono rivelati fallaci e menzogneri. La loro colpa è gravissima, quella di aver "contaminato i più schietti sentimenti giovanili", come argutamente riportato nell'introduzione di una vecchia edizione Oscar Mondadori. È la rottura di un patto generazionale, il tradimento della missione educativa, il traviamento dei ragazzi, portati su una strada sanguinosa che da soli mai avrebbero intrapreso. Il grido di rabbia di Remarque è dunque diretto contro quei burattinai che, ben nascosti nelle retrovie, hanno fomentato nei giovani un artificioso spirito belluino che in natura non gli apparteneva.
I soldati di Remarque sono costretti a sparare contro il proprio futuro; il loro è un destino di desolazione, anche per quanti sono all'apparenza scampati alla morte. La migliore gioventù ridotta a un bivacco di profughi lacerati nell'anima, una generazione annientata nel corpo e nello spirito, al punto che anche chi rimane non è davvero un sopravvissuto. Ragazzi a cui la porta dell'avvenire è stata definitivamente chiusa in faccia, perché anche quando torneranno a casa non troveranno che macerie.

13 maggio 2025

Sad Lovers and Giants: persi in un mare di sospiri

Quando si parla di un genere musicale con chi ne è appassionato, è matematico che tirerà fuori la vecchia storia della band sconosciuta ai più, quella che "se solo avesse avuto un pizzico di fortuna all'epoca", verrebbe oggi ricordata tra le più influenti del periodo. Criminally underrated, come dicono gli inglesi. Ogni genere ha le sue perle nascoste e la new wave non è da meno. Perché se è vero che tutti conoscono i Joy Division, pochi ricordano The Chameleons e ancora meno hanno sentito parlare di Sad Lovers and Giants (d'ora in avanti, SLaG). E non perché, si badi bene, fossero un gruppo di nicchia, in quanto ai tempi ottennero la loro fetta di successo e tuttora girano in tour. La verità è che nel palcoscenico così fitto di comparse che sono stati gli anni Ottanta inglesi, è fisiologico che alcuni vengano dimenticati, non necessariamente i più scarsi.
Gli amanti tristi e giganti, nome che tradotto in italiano ha un che di naif ma che in inglese suona benissimo, si formarono in Inghilterra nel 1980. La formazione originaria, quella che suonò nei primi due album, era composta da Garce Allard alla voce, Cliff Silver al basso, Tristan Garel-Funk alle chitarre, il batterista Nigel Pollard e David Wood alle tastiere e sassofono. Pollard e Garel-Funk lasciarono la band poco dopo la registrazione del secondo LP e fondarono The Snake Corps.
Se il vinile d'esordio, Epic garden music (1982), conteneva già un pezzo epocale come Clint, cui si aggiunge il capolavoro Things we never did della ristampa in cd con tracce bonus, è con Feeding the flame (1983) che il quintetto fece un deciso balzo in avanti. Copertina algida e inquieta, uno scorcio di paesaggio invernale che ricorda l'immagine del coevo Porcupine di Echo & The Bunnymen. Immagine di copertina che fa da preludio a quanto stiamo per sentire: musica malinconica per anime in disarmo. Viene naturale il paragone con gruppi più blasonati, forse perché parrebbe un azzardo affermare che siano questi ultimi a essersi ispirati ai SLaG; si sentono echi di Cure, Sound, Chameleons, Sisters of Mercy, Bauhaus. La loro è una new wave cupa e dolorosa che abbraccia il dark e il goth, limandone però gli eccessi. Musica per chi è «perso in un mare pieno di sospiri», come recita uno dei loro versi più celebri. Un ritmo compassato che tuttavia sa esplodere in sorprendenti barbagli di luce, come nel ritornello di On another day, per me la più preziosa del mazzo.
«On another day
you would swear my judgment was wrong.
Tracing neat escapes,
now the soft attraction has gone.»
I primi solchi sono quelli di Big tracks little tracks, che detta da subito le regole del gioco: basso possente e chitarre lancinanti, sostenute da una batteria incalzante e uno straniante interludio di sassofono. Evidenti le influenze post-punk, ma è altresì chiaro che i nostri cercavano una via autonoma. Segue la citata On another day, un volo a due palmi da terra con gli effetti delle chitarre e il tappeto di tastiere che disegnano un'atmosfera eterea e soffusa: un viaggio lisergico, una sorta di psichedelia wave. La successiva Sleep (is for everyone) rievoca trame gotiche, mentre Vendetta ricorda i Japan di Ghosts (di un paio d'anni prima), con la voce di Garce che ripercorre le tracce di Sylvian per sfumare infine nell'ammaliante base di chitarre e tastiere. La prima facciata si chiude con l'esplosività di Man of straw, paragonabile per furia a The fire dei più celebri The Sound: un pezzo potente con le chitarre sempre avanti e una sezione ritmica precisa, in puro stile post-punk. Il lato B è meno ispirato e contiene quattro brani, di cui uno strumentale. Senza dubbio la migliore è Your skin and mine, ballata d'amore che si esalta nei delicati contrappunti di chitarre e tastiere, vero e proprio marchio di fabbrica dei SLaG. E quando sembra che il pezzo sia concluso, arriva una lunga coda strumentale in puro incedere dark-wave. Meravigliosa, può contendere a On another day la palma di migliore.
Feeding the flame è un disco che non può mancare nella collezione di un appassionato di new wave. Certo non è un album fondamentale in assoluto, per cui non lo consiglierei a chi si approccia per la prima volta al genere; tuttavia è un tassello importante che testimonia un'epoca di grande creatività, in cui persino nomi meno noti come i Sad Lovers and Giants erano in grado di lasciare il segno. Se siamo qui a parlarne dopo più di quarant'anni, ci sarà un motivo.
L'algida immagine di copertina