25 ottobre 2025

Le ombre del sogno irlandese

Il vento che accarezza l'erba, Palma d'oro nel 2006 al 59.mo Festival di Cannes, è forse il film più crudo di Ken Loach. Il regista inglese, da sempre incline a un cinema militante e impegnato, con questo lungometraggio ha toccato picchi di drammaticità e finanche di violenza ineguagliati nella sua vasta produzione.
La vicenda è ambientata in Irlanda, durante la guerra d'indipendenza (1919-1921) e la successiva guerra civile. Narra le travagliate vicende che portarono alla nascita dello Stato libero d'Irlanda a seguito del Trattato anglo-irlandese. Questo Stato, progenitore dell'attuale Repubblica d'Irlanda, nacque come dominion dell'Impero britannico, dotato di una certa autonomia ma di fatto dipendente da Londra. Gli esiti del tanto agognato accordo non accontentarono l'ala oltranzista degli indipendentisti, che consideravano il trattato un inaccettabile compromesso rispetto all'auspicata piena indipendenza. Scoppiò così una guerra civile. Bastano queste poche nozioni di storia per comprendere un film che comunque presenta scene didascaliche che, lungi dall'essere pedanti, aiutano a comprendere la vicenda.
In un'amena contea irlandese vivono i fratelli O'Donovan, ossia il giovane medico Damien (interpretato da Cillian Murphy) e Teddy (Pàdraic Delaney), il maggiore. Teddy è un dirigente dell'I.R.A., mentre Damien ha deciso di lasciare la travagliata madrepatria per lavorare in un ospedale di Londra. Tuttavia anch'egli decide infine di rimanere, entrando a sua volta nell'I.R.A., dopo aver assistito all'uccisione di un amico d'infanzia da parte dei soldati inglesi, nonché al violento pestaggio di un ferroviere repubblicano che si era rifiutato per protesta di trasportare sul proprio convoglio le truppe di sua maestà.
Il conflitto è il tema al centro del film, a diversi livelli. Al primo c'è quello tra inglesi e irlandesi, poi quello interno alla stessa causa irlandese e infine il conflitto tra i due fratelli. Il dramma della vicenda pubblica si riverbera su una "questione privata", per dirla alla Fenoglio. Teddy accetta il trattato di compromesso e depone le armi, nella speranza che con il tempo e la diplomazia l'Irlanda possa conquistare la totale indipendenza; Damien, invece, ripudia le scelte del fratello e si dà alla macchia con l'ala più intransigente dell'I.R.A. La guerra civile diventa guerra fratricida nel senso letterale del termine; Loach porta il conflitto fino alle estreme conseguenze, come dimostra il devastante finale, forse il punto debole del film per eccesso di drammaticità.
Il regista di Nuneaton non mostra dubbi. La sua regia asciutta e senza fronzoli è al servizio della sceneggiatura del fido Paul Laverty, che tira dritto con una visione militante, a tratti manichea. Il rischio dietro l'angolo è quello di una eccessiva semplificazione, dove gli inglesi stanno inequivocabilmente dalla parte del torto: violenti, usurpatori, razzisti e insensibili agli altrui diritti. Dall'altra parte della barricata ci sono invece gli irlandesi: essi lottano per una giusta causa e ogni loro azione, persino le più violente e spregiudicate, è trattata con maggiore benevolenza. Il cineasta, pur non avendo dubbi su quale fazione sostenere, appare tuttavia consapevole dei rischi di un'eccessiva semplificazione. Viene dunque inserita nella sceneggiatura l'altra faccia della medaglia della giusta causa, le ombre del sogno irlandese. Anche gli indipendentisti durante quella guerra si sono resi responsabili di omicidi, esecuzioni sommarie e vendette. Non a caso tra le scene più crude del film c'è l'esecuzione senza processo di un possidente irlandese e di un giovanissimo membro dell'I.R.A. reo di tradimento.
Il sogno irlandese narrato nel film è anche quello di una società più giusta, dove la ricchezza possa essere distribuita equamente tra tutti. Loach riveste la lotta per l'indipendenza di un popolo con i colori dello scontro di classe, come dimostra l'eloquente scena del processo al capitalista usuraio. Al di là di alcuni eccessi ideologici, che tuttavia sono il marchio di fabbrica di Loach e come tale vanno accettati, Il vento che accarezza l'erba è destinato a restare a lungo nella memoria collettiva. È un film rabbioso e potente, impreziosito da un'ottima fotografia, dove le amene brughiere dell'Irlanda antica e rurale diventano lo splendido scenario di una storia sanguinosa di ingiustizie, da ambo le parti, che a distanza di cento anni gridano ancora vendetta.
La locandina italiana

12 ottobre 2025

"Aria", il Mediterraneo che abbraccia l'Inghilterra

Ripensando a certi dischi letteralmente consumati da adolescente, mi meraviglio della costanza che all'epoca avevo nell'ascoltare ripetutamente e assimilare album "difficili". La verità è che avevo più tempo e meno opportunità. Più tempo libero perché almeno due ore della giornata erano dedicate all'ascolto. Meno opportunità perché non c'era la varietà offerta gratuitamente da internet, i soldi erano di meno e quindi prima di archiviare un disco lo ascoltavo a ripetizione, soprattutto se la prima impressione non era stata positiva. Eppure ricordo che Aria di Alan Sorrenti (1972) mi conquistò subito.
Ne avevo sentito parlare in un articolo sul settimanale Musica!, all'epoca il mio principale punto di riferimento assieme a un altro pilastro dell'editoria musicale nostrana, il compianto Mucchio selvaggio. Ovviamente di Alan Sorrenti conoscevo le hit, i tormentoni pop che gli hanno garantito il successo. Quando appresi dell'esistenza di un album anomalo come Aria, la curiosità prese il sopravvento sul pregiudizio. Le recensioni erano così entusiastiche che non esitai ad acquistarne una ristampa in cd della Sony, credo fosse il 2005.
Quattro tracce in tutto, quaranta minuti, sufficienti per innalzare il musicista italo-gallese tra le stelle del progressive nostrano. Una suite di diciannove minuti che occupa l'intera prima facciata, una ballata acustica che si colloca tra le migliori canzoni d'amore della musica italiana, due pezzi tra il mistico e lo stralunato, tanto bastò a Sorrenti per firmare uno degli esordi più folgoranti che si ricordino. Aria fu una rivoluzione nel panorama musicale dell'epoca, un crogiolo di suoni e poesia, un disco d'avanguardia eppure per niente ostico. La suite che dà il titolo all'album, come detto, dura oltre diciannove minuti ma non conosce neppure un calo d'ispirazione. Aria è il Mediterraneo che incontra l'Inghilterra, la melodia di Napoli e la sperimentazione di Londra, la tradizione che abbraccia il futuro, una voce eccelsa e mai di maniera. Fosse stato pubblicato nel Regno Unito, oggi sarebbe ricordato come uno dei più grandi dischi prog di sempre.
Aria è un LP che profuma di India, d'incenso e misticismo. Le atmosfere sono rarefatte e il sentimento che domina è la malinconia, o forse sarebbe più corretto parlare di saudade, quel termine portoghese difficilmente traducibile nella nostra lingua che indica (anche ma non esaustivamente) uno struggimento verso qualcosa o qualcuno che è stato e ora non è più, il tendere verso un passato reso mitico dai ricordi. Questo senso di indeterminatezza è già nella copertina, di sicuro impatto visivo: una specie di selva stilizzata color blu, da cui emerge una figura inquietante di profeta, quasi un Cristo che avanza verso una specie di acquitrino. L'impressione è confermata dalle fotografie del libretto interno che ritraggono Alan nelle vesti di un mistico orientale. Qualcuno potrebbe opinare che si tratti di un immaginario "da fricchettone", ma io ritengo che questa scelta grafica abbia retto alla prova del tempo.
Per registrare questo primo lavoro, Sorrenti scelse un fidato manipolo di musicisti: Tony Esposito alla batteria, Vittorio Nazzaro al basso e alla chitarra solista, Albert Prince alle tastiere, con la partecipazione del violino di Jean Luc Ponty nel pezzo che dà il titolo all'album. Aria, la traccia che apre il disco, si dipana in un crescendo di suggestioni sonore e liriche. Alan usa la propria voce in falsetto come uno strumento, al pari di artisti del calibro di Peter Hammill o Tim Buckley; ne viene fuori una commistione perfetta di musica e parole. La lunga suite non si può descrivere, va ascoltata più volte e assimilata. Seguono altre tre canzoni dal minutaggio più basso. Vorrei incontrarti è una delicata ballata dell'amore perduto, un viaggio di quattro minuti fatto di voce e chitarra acustica, fino alla comparsa nel finale di una struggente fisarmonica.
«Vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica,
vorrei incontrarti lungo le strade che portano in India.»
Un fiume tranquillo e La mia mente chiudono il disco. Sono due tracce sperimentali nella struttura e nel testo; non sono canzoni nel senso stretto del termine, perché non seguono il classico schema strofa-ritornello-strofa. Un fiume tranquillo è il punto d'arrivo del viaggio del mistico, dopo le dolorose peregrinazioni dell'eterno vagare. Ascoltarla dà un senso di pace e di definitivo.
«La mia scarpa la troverete vicino a un marciapiede
e il mio corpo lontano, nelle sale di un dormitorio,
la mia mano in un fosso e il mio occhio nel cielo.
Quel fiume sa dov'è la mia casa, quel fiume per me esiste.»
L'anno successivo Sorrenti ci provò di nuovo con un disco dal nome criptico: Come un vecchio incensiere all'alba di un villaggio deserto. Nonostante qualche ottimo spunto, il guizzo dell'esordio sembra già svanito e anche la lunga title-track, pur validissima, non ha il medesimo fascino della precedente. Dopo un terzo album di transizione, di cui va segnalata la splendida versione di Dicintecello vuje, il nostro approderà ai fortunati lidi del pop da classifica. E proprio questa inversione di rotta consacrerà Aria nell'olimpo delle cose più belle mai prodotte nel nostro Paese.