12 ottobre 2025

"Aria", il Mediterraneo che abbraccia l'Inghilterra

Ripensando a certi dischi letteralmente consumati da adolescente, mi meraviglio della costanza che all'epoca avevo nell'ascoltare ripetutamente e assimilare album "difficili". La verità è che avevo più tempo e meno opportunità. Più tempo libero perché almeno due ore della giornata erano dedicate all'ascolto. Meno opportunità perché non c'era la varietà offerta gratuitamente da internet, i soldi erano di meno e quindi prima di archiviare un disco lo ascoltavo a ripetizione, soprattutto se la prima impressione non era stata positiva. Eppure ricordo che Aria di Alan Sorrenti (1972) mi conquistò subito.
Ne avevo sentito parlare in un articolo sul settimanale Musica!, all'epoca il mio principale punto di riferimento assieme a un altro pilastro dell'editoria musicale nostrana, il compianto Mucchio selvaggio. Ovviamente di Alan Sorrenti conoscevo le hit, i tormentoni pop che gli hanno garantito il successo. Quando appresi dell'esistenza di un album anomalo come Aria, la curiosità prese il sopravvento sul pregiudizio. Le recensioni erano così entusiastiche che non esitai ad acquistarne una ristampa in cd della Sony, credo fosse il 2005.
Quattro tracce in tutto, quaranta minuti, sufficienti per innalzare il musicista italo-gallese tra le stelle del progressive nostrano. Una suite di diciannove minuti che occupa l'intera prima facciata, una ballata acustica che si colloca tra le migliori canzoni d'amore della musica italiana, due pezzi tra il mistico e lo stralunato, tanto bastò a Sorrenti per firmare uno degli esordi più folgoranti che si ricordino. Aria fu una rivoluzione nel panorama musicale dell'epoca, un crogiolo di suoni e poesia, un disco d'avanguardia eppure per niente ostico. La suite che dà il titolo all'album, come detto, dura oltre diciannove minuti ma non conosce neppure un calo d'ispirazione. Aria è il Mediterraneo che incontra l'Inghilterra, la melodia di Napoli e la sperimentazione di Londra, la tradizione che abbraccia il futuro, una voce eccelsa e mai di maniera. Fosse stato pubblicato nel Regno Unito, oggi sarebbe ricordato come uno dei più grandi dischi prog di sempre.
Aria è un LP che profuma di India, d'incenso e misticismo. Le atmosfere sono rarefatte e il sentimento che domina è la malinconia, o forse sarebbe più corretto parlare di saudade, quel termine portoghese difficilmente traducibile nella nostra lingua che indica (anche ma non esaustivamente) uno struggimento verso qualcosa o qualcuno che è stato e ora non è più, il tendere verso un passato reso mitico dai ricordi. Questo senso di indeterminatezza è già nella copertina, di sicuro impatto visivo: una specie di selva stilizzata color blu, da cui emerge una figura inquietante di profeta, quasi un Cristo che avanza verso una specie di acquitrino. L'impressione è confermata dalle fotografie del libretto interno che ritraggono Alan nelle vesti di un mistico orientale. Qualcuno potrebbe opinare che si tratti di un immaginario "da fricchettone", ma io ritengo che questa scelta grafica abbia retto alla prova del tempo.
Per registrare questo primo lavoro, Sorrenti scelse un fidato manipolo di musicisti: Tony Esposito alla batteria, Vittorio Nazzaro al basso e alla chitarra solista, Albert Prince alle tastiere, con la partecipazione del violino di Jean Luc Ponty nel pezzo che dà il titolo all'album. Aria, la traccia che apre il disco, si dipana in un crescendo di suggestioni sonore e liriche. Alan usa la propria voce in falsetto come uno strumento, al pari di artisti del calibro di Peter Hammill o Tim Buckley; ne viene fuori una commistione perfetta di musica e parole. La lunga suite non si può descrivere, va ascoltata più volte e assimilata. Seguono altre tre canzoni dal minutaggio più basso. Vorrei incontrarti è una delicata ballata dell'amore perduto, un viaggio di quattro minuti fatto di voce e chitarra acustica, fino alla comparsa nel finale di una struggente fisarmonica.
«Vorrei incontrarti fuori i cancelli di una fabbrica,
vorrei incontrarti lungo le strade che portano in India.»
Un fiume tranquillo e La mia mente chiudono il disco. Sono due tracce sperimentali nella struttura e nel testo; non sono canzoni nel senso stretto del termine, perché non seguono il classico schema strofa-ritornello-strofa. Un fiume tranquillo è il punto d'arrivo del viaggio del mistico, dopo le dolorose peregrinazioni dell'eterno vagare. Ascoltarla dà un senso di pace e di definitivo.
«La mia scarpa la troverete vicino a un marciapiede
e il mio corpo lontano, nelle sale di un dormitorio,
la mia mano in un fosso e il mio occhio nel cielo.
Quel fiume sa dov'è la mia casa, quel fiume per me esiste.»
L'anno successivo Sorrenti ci provò di nuovo con un disco dal nome criptico: Come un vecchio incensiere all'alba di un villaggio deserto. Nonostante qualche ottimo spunto, il guizzo dell'esordio sembra già svanito e anche la lunga title-track, pur validissima, non ha il medesimo fascino della precedente. Dopo un terzo album di transizione, di cui va segnalata la splendida versione di Dicintecello vuje, il nostro approderà ai fortunati lidi del pop da classifica. E proprio questa inversione di rotta consacrerà Aria nell'olimpo delle cose più belle mai prodotte nel nostro Paese.

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