25 settembre 2014

"Il banchiere anarchico" di Fernando Pessoa: uno splendido ossimoro

C’è stato un tempo, agli inizi del Novecento, in cui gli anarchici erano diventati un vero e proprio incubo per i governi europei e un’ossessione per gli uffici di polizia. Gaetano Bresci, Sante Caserio, Michele Angiolillo, Luigi Lucheni sono alcuni dei nomi di quelli che in diversi attentati avevano assassinato capi di governo e membri delle Case regnanti, in nome dell’ideale anarchico e per liberare una società stretta tra le maglie della tirannide. Proprio in quegli anni gli ideali anarchici raggiunsero la loro massima diffusione fra le masse popolari e intellettuali, sì che in alcuni Paesi gli aderenti alle organizzazioni libertarie superarono per numero i socialisti. Molti furono i pensatori che approfondirono ed elaborarono il discorso che Bakunin aveva posto in chiave moderna: Kropotkin, Malatesta e Cafiero, solo per ricordare i più importanti.
In questo contesto storico-culturale si colloca il libello di Pessoa (pubblicato nel 1922), tutto costruito intorno ad un curioso paradosso. Due uomini sono seduti allo stesso tavolo e stanno conversando amabilmente dopo un lauto pasto. Uno di loro è un banchiere, “grande commerciante e monopolista ragguardevole”, titolare di un’immensa fortuna in denaro, crediti e azioni. Eppure si professa anarchico, nonostante la sua condizione lo renda così distante dall’idea tradizionale di libertario. L’altro commensale vuole sapere, indagare come sia possibile che un uomo così ricco, così intrinsecamente legato al capitale, possa definirsi anarchico. La risposta alla domanda è il cuore dell’opera. Si tratta di un arguto monologo, elaborato nella sua struttura retorica, che giunge ad una inaspettata sintesi dopo una complessa trama di tesi e antitesi.
Ad avviso del banchiere la società è ingiusta perché non è paritaria, a causa delle convenzioni sociali – quali il denaro, il censo, l’educazione, la classe di appartenenza – che, impedendo di fatto l’uguaglianza sostanziale tra gli uomini, si impongono sulla Natura, invece generosamente egualitaria. L’anarchico, allora, è colui che “si oppone all’ingiustizia di nascere socialmente diseguali”. Il banchiere, nato povero e operaio, descrive la lunga parabola che lo ha portato a diventare un vero anarchico, nel pensiero e nell’azione, solo dopo aver accumulato immense ricchezze. L’idea anarchica di Pessoa, che parla con la bocca del suo personaggio, è votata all’individualismo estremo; si oppone tanto al gesto dinamitardo quanto alle logiche di gruppo, generatrici di tirannia dei più forti sui più deboli. L’unica forma di liberazione consentita è quella individuale, perché solo uomini già liberati dalla gabbia delle convenzioni sociali potranno attuare una vera rivoluzione, che affranchi l’intero consesso umano.
E alla fine l’ingenuo commensale, travolto dalle parole del banchiere, ha la forza per porre la domanda fatale, quella che anche il lettore si figura nella mente fin dalle prime pagine del racconto: come può un facoltoso capitalista reputarsi autenticamente anarchico? Segue una risposta spiazzante, che non intendo rivelare.

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