18 giugno 2019

"Architecture & Morality", tra divagazioni elettroniche e strizzate d'occhio al pop

All'alba del terzo LP, intitolato Architecture & Morality (1981), gli Orchestral Manoeuvres in the Dark (d'ora in avanti, OMD) avevano già raggiunto una fama che fino a pochi anni prima sembrava impensabile. Il disco venne registrato nello studio casalingo "The Manor", con una formazione allargata. Ai fondatori Paul Humphreys e Andrew Mc Cluskey, si aggiunsero in pianta stabile Malcolm Holmes alle percussioni, Martin Cooper al sassofono e Michael Douglas. Venne anche ampliata la strumentazione, con l'uso di sintetizzatori, mellotron, oscillatori, batterie elettroniche e finanche chitarre.
Tutto era cominciato qualche tempo prima, quando due ragazzi innamorati della musica cosmica tedesca e dei Kraftwerk avevano iniziato a girare per i mercatini dell'usato e le fiere, alla ricerca di strumenti che potessero anche solo avvicinarsi al suono dei giganti teutonici dell'elettronica. Dopo l'acerbo e omonimo primo disco, gli OMD raggiunsero il successo con Organisation (1980), trainato dal singolo Enola Gay, in classifica anche in Italia.
The new stone age apre Architecture & Morality, con distorsioni industriali e visioni apocalittiche, disegnate da chitarre disturbate ed echi lancinanti delle tastiere, mentre le voci si rincorrono come impazzite. La successiva She's leaving ricorda i primissimi Depeche Mode, quelli di Speak and spell per intenderci, uscito nello stesso anno. La voce si staglia sopra un delicatissimo tappeto sonoro, che riconcilia col mondo dopo il convulso inizio. Souvenir venne lanciata come singolo, e trova proprio nel suo essere “radiofonica” il più evidente limite. Il riscatto arriva subito, con la cupa Sealand, che chiude il lato A. Sono otto minuti di crepitii e riverberi, la drum machine che sussulta in sottofondo, accompagnando i magici intrecci di sintetizzatore e mellotron: in due parole, il prog che abbraccia l’elettronica. Sealand è l'apice del disco, con suoni che sembrano venire da mondi lontani e il breve intermezzo vocale, quasi salmodiante, fino alle percussioni di un martello che chiudono la facciata. Joan of Arc, divisa in due momenti, fa persino venire la voglia di ballare; pensato come un pezzo orecchiabile, convince sia gli ascoltatori più distratti che quelli più esigenti. La traccia che dà il titolo al disco, invece, è un lavoro minimale alla Kraftwerk, dove più si sentono le fonti di ispirazione del gruppo. Echi synth-pop chiudono la seconda facciata, impreziosita dalla malinconica Georgia.
Nove tracce in tutto, forse non memorabili, ma di alto livello compositivo. Quando si ascoltano lavori del genere, figli dell'epoca dell'indigestione elettronica, è legittimo domandarsi quanto siano attuali. Architecture & Morality è invecchiato bene, più di tanti dischi coevi. E se è vero che «ciò che sta nel mezzo in genere è virtù», come dicevano i Bluvertigo, si può azzardare che la virtù principale di questo 33 giri degli OMD sia proprio l'equilibrio tra parti strumentali e vocali, tra divagazioni elettroniche e strizzatine d'occhio al pop, tra sperimentazione e aperture al grande pubblico. Ha venduto molto, per cui è facile trovarlo usato.
La copertina minimale, opera di Peter Saville

Nessun commento:

Posta un commento

Commenta l'articolo!