25 febbraio 2020

Precari sul lavoro, precari negli affetti: l'ultima lezione di Ken Loach

Ken Loach è uno che non guarda in faccia a nessuno, che se ne frega delle mode del momento e porta avanti da oltre cinquant'anni un personale discorso di militanza e impegno civile. Capisci che gli anni non lo scalfiscono quando persino nel suo ultimo lavoro, Sorry we missed you (2019), riesce con maestria ad infilare immagini e ricordi del celebre sciopero dei minatori del 1984. Il regista di Nuneaton non fa sconti, coadiuvato dal fido sceneggiatore Paul Laverty e grazie all'intensa interpretazione di attori non professionisti. La sua telecamera non è indulgente o pietosa, ma si limita a raccontare una realtà grigia e sovente iniqua, senza edulcorarla. Da sempre parla degli ultimi, dei poveri, dei disagiati, di coloro che sono costretti ai margini da una società ingiusta; i protagonisti dei suoi film sono spesso ex detenuti, disoccupati, tossicodipendenti, lupi di periferia, immigrati, lavoratori precari, operai sottopagati, cassintegrati, disabili. E anche quando ci racconta una vicenda familiare, la sua telecamera sa penetrare senza pietà all'interno dei meccanismi distorti della morale borghese, rivelandoli nella loro crudezza; si pensi, su tutti, al magistrale Family life del 1971.
Anche Sorry we missed you è la storia di una famiglia dei nostri giorni, alle prese con le mille contraddizioni dell'economia liquida. Loach affronta ancora una volta con grande lucidità e spirito critico il tema del lavoro; stavolta però il suo obiettivo non si concentra sui minatori in sciopero dell'epoca thatcheriana, né sui ferrovieri che subiscono la privatizzazione selvaggia (come in Paul, Mick e gli altri), e neppure sugli immigrati sottopagati a cui vengono assegnate le mansioni più umili (come in Bread and roses). Il regista britannico entra nelle case di quella che era la classe media, immiserita dalla stagnazione economica e illusa dal mito di una flessibilità che si è rivelata precariato. Lancia i suoi strali contro la cosiddetta gig economy, il sistema di prestazioni lavorative a richiesta, senza tutele né diritti, sviluppatosi di pari passo con il boom del commercio on-line.
Ricky, il protagonista, vive a Newcastle assieme alla moglie Abby e ai due figli, Liza Jane di undici anni e Sebastian di sedici. Sia lui che la moglie sono originari di Manchester e nella città di adozione non hanno nessun familiare che possa aiutarli. Dopo essere passato da un impiego all'altro, Ricky resta disoccupato; la famiglia può così contare solo sulle entrate di Abby, che fa da assistente domiciliare a persone non autosufficienti. La svolta sembra arrivare quando il capofamiglia si convince a diventare un “padroncino”, ossia un corriere con un mezzo di proprietà per una società che si occupa di consegnare i pacchi degli acquisti on-line. La speranza è di regalare un futuro migliore alla propria famiglia, ma in breve Ricky si rende conto di quale sia la terribile verità. La posizione dei corrieri è ambigua: non hanno le garanzie dei lavoratori dipendenti e neppure la libertà degli autonomi. La giornata lavorativa dura quattordici ore, sotto l'implacabile dittatura di un palmare che organizza itinerari e consegne al centesimo di secondo. I rischi sono grandissimi: ogni ritardo o mancata consegna comporta una salata sanzione, multe e danni da sinistri sono a carico del corriere, che non può neppure prendersi un'ora di permesso se non trova prima un sostituto da pagare di tasca propria. Giorno dopo giorno, Ricky diventa schiavo del nuovo lavoro, fino a perdere di vista moglie e figli, che annegano miseramente nei problemi.
Ken Loach si dimostra a più di ottant'anni uno dei più precisi interpreti e cronisti dei nostri tempi; soprattutto ha la capacità di innovare continuamente il suo discorso, adeguandolo al linguaggio contemporaneo. Il messaggio che lancia è spietato, tanto più spietato perché attuale: l'instabilità lavorativa provoca la precarietà degli affetti, il precariato sul lavoro si traduce nell'instabilità dei nuclei familiari. Il povero Ricky soccombe all'ossessione del tempo e del (poco) guadagno, sacrificando il bene più prezioso, la famiglia, che vede sgretolarsi giorno dopo giorno senza poterlo impedire.
Sorry we missed you vuole avvisarci che il tempo delle vecchie lotte novecentesche è finito, ora che il padrone contro cui lottare non ha più il volto severo, ma pur sempre umano, del capitalista, ma è un dominatore senza cuore né compassione, un algoritmo che dà ordini attraverso un telefono portatile. È il livello ultimo dello sfruttamento, o forse il livello zero dell'umanità, in cui persino l'efficientissima ed egualitaria Inghilterra diventa patria di terribili squilibri sociali, sconosciuti fino a pochi lustri fa. In una recente intervista rilasciata alla Rai, Loach si è detto in fin dei conti ottimista, speranzoso che le cose possano mutare in meglio. Servirebbe però toccare il fondo, come ha argutamente osservato; guardando Sorry we missed you possiamo dire che purtroppo non siamo poi così lontani.

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