21 marzo 2025

E cadrà una nevicata di stelle: gli ultimi versi di Sergio Corazzini

Niente è più stucchevole di certi epitaffi: lunghi, verbosi, patetici, fanno quasi venire in odio il morto. Meglio, molto meglio, la sintesi. C'è quella estrema dei King Crimson: «"confusion" will be my epitaph», cantava semplicemente Greg Lake, racchiudendo in una sola parola il sunto di una vita. Oppure c'è quella meno estrema ma altrettanto potente di John Keats, che sulla sua tomba al Cimitero Acattolico di Roma fece scrivere «here lies one whose name was writ in water». E infine c'è questo, un epitaffio che coglie con poche secche parole l'essenza di una vita breve ma intensa.
«Per chi ricorda. Sergio Corazzini, poeta. A vent'anni, il 17 giugno 1907»
Chi ha ordinato l'epitaffio avrebbe potuto sdilinquirsi in lunghi incensamenti, sperticarsi in lodi esagerate su quello che è stato indubbiamente uno dei più formidabili e precoci talenti poetici del nostro primo Novecento. E invece, non facendolo, ha dimostrato di volere davvero bene al povero Sergio. Già l'incipit è un colpo al cuore, in perfetto stile crepuscolare: "per chi ricorda". I poeti crepuscolari non anelavano alla gloria o alla riconoscenza universale; la loro era la poesia dell'effimero, delle cose che rimangono a impolverarsi nelle case chiuse, finché non se ne perde perfino il ricordo. Al tempo stesso l'incipit è un complice ammiccamento ai pochi che effettivamente lo ricordano, membri di un club ristretto ma eletto. Il resto è tutto quello che rimaneva da dire: un poeta morto a vent'anni, il 17 giugno 1907. Corazzini nacque in una famiglia agiata ma, a causa di alcune errate speculazioni paterne, si ritrovò presto in miseria. Iniziò a lavorare come impiegato in una compagnia di assicurazioni, senza poter terminare gli studi; contemporaneamente partecipò alla vita culturale romana e collaborò con riviste e periodici inviando poesie. Si spense ad appena vent'anni, a causa della tubercolosi.
Per quanto la sua breve esistenza incarni al meglio certi cliché del poeta, Corazzini non si definiva tale. «Perché tu mi dici: poeta?», scriveva in una delle sue liriche più celebri. Eppure, per comprendere quanto Sergio fosse un grande poeta, non serve conoscere la sua opera omnia, né addentrarsi in saggi letterari più o meno complessi. Basta invero leggere con attenzione la sua ultima poesia, La morte di Tantalo, scritta pochi mesi (o forse giorni) prima di morire, pubblicata postuma su Vita letteraria del 28 giugno 1907. È indubbiamente la sua opera più matura, dolorosamente coincidente con un testamento spirituale.
La scena si apre su un giardino, un hortus conclusus di tradizione bucolica dove il poeta è in compagnia di una donna. I due siedono sul bordo di una fontana che abbellisce una vigna dorata, non sappiamo se per il colore dei grappoli o per la luce del giorno morente. La ragazza piange e le sue palpebre sono gonfie di lacrime, simili alle vele di una nave sferzate da una leggera brezza. Anche il poeta al suo fianco condivide lo stesso dolore, eppure non sa dargli un nome. La loro non è sofferenza d'amore, né carnale o di malinconia; semplicemente si sentono morire ogni giorno che passa senza riuscire a rinvenire la causa del male.
Arriva la notte e la vigna d'oro scompare sotto la coltre di un'oscurità così densa e opprimente che, volgendo gli occhi al cielo, appare «una nevicata di stelle». La nevicata di stelle è un'immagine potentissima, forse l'apice della lirica e dell'intera produzione di Corazzini. È qui che il giovane romano si dimostra poeta, nell'aver saputo costruire una grandiosa metafora con due semplici parole della vita quotidiana, un articolo e una preposizione.
Prima di addormentarsi sotto il cielo stellato, i due assaporano i grappoli della vigna d'oro e bevono l'acqua dolce della fontana. Così facendo, contravvengono alle leggi divine che non permettono di mangiare quei frutti e di abbeverarsi alla fontana. Ed ecco che arriva il mattino e i due si ritrovano ancora seduti sull'orlo della fontana, «nella vigna non più d'oro». A questo punto gli oscuri simbolismi di cui il testo è ricco diventano chiari: il giardino è una sorta di luogo di transito, dove le "anime" (la parola ricorre nel testo) devono stazionare prima della vita eterna, negata tuttavia a chi contravviene alle severe disposizioni divine. Il poeta e la ragazza, violando le regole del giardino, si sono negati la morte, vista come una nuova e più piena rinascita, per cui la loro condanna sarà quella di vivere per sempre, errando nel mondo senza una meta e senza poter estinguere quel fuoco di melanconia che solo in un altrove si sarebbe finalmente spento.
«E aggiungi che non morremo più
e che andremo per la vita
errando per sempre.»
Il supplizio del poeta è simile a quello di Tantalo, condannato per l'eternità ad avere fame e sete implacabili, pur essendo immerso in una pozza d'acqua dolce e avendo a portata di mano un albero colmo di frutti. A causa dei suoi misfatti gli dèi hanno ordito una crudele condanna: quando prova a bere, il lago si prosciuga, quando tenta di afferrare i frutti, questi si allontanano. La differenza tra Tantalo e il poeta è tuttavia abissale, perché mentre il primo ha trasgredito le leggi degli dèi, il secondo non ha colpe. L'esistenza di Corazzini è segnata dalla tubercolosi, una condanna senza processo che in quegli anni mieteva tante giovani vittime. Tuttavia egli non crede che il destino infausto sia casuale. Vuole trovare un senso a questa esistenza colma di un dolore che poeticamente sente di aver meritato; ecco che il soggiorno nel giardino dalla vigna d'oro diventa metafora della colpa. Una colpa scontata vivendo ed errando per sempre.
La morte di Tantalo è un testo talmente ricco e complesso da non credersi che sia stato scritto da un ventenne che vedeva nella morte, quasi chiamata per nome, un sollievo alla propria esistenza minata dalla sofferenza e dalla malattia. Una morte invero intesa come rinascita, anche nell'ottica del pensiero cristiano. Aggiungo che gli ultimi versi sono una profezia, perché Sergio Corazzini non è mai davvero morto, se a distanza di oltre cent'anni la sua voce giunge ancora forte e chiara a chi la vuol sentire.
Un angolo di Villa Celimontana, Roma

8 marzo 2025

"La scala a chiocciola": l'incubo vestito di decoro

Gialli e thriller non sono tra i miei generi preferiti, né in letteratura né al cinema. Ciò non toglie che ogni tanto li apprezzi, sebbene non me ne intenda particolarmente. Al più mi piacciono le ambientazioni, soprattutto quelle cittadine plumbee e notturne di certi noir, oppure le desolazioni delle immense campagne dove per chilometri non si incontra anima viva. In parole povere, più che scoprire chi è l'assassino, mi intriga il contesto in cui avvengono i fatti, spesso più interessante della trama. L'avita magione è uno dei luoghi classici in cui vengono ambientate queste storie. Una casa antica, isolata, decadente, polverosa e abitata da oscure presenze è la scenografia ideale di questo tipo di narrazioni; si pensi a titolo di esempio alla Casa Usher del celebre racconto di Edgar Allan Poe.
È dunque per questo interesse, sia pur mediato, che ho visto La scala a chiocciola, film statunitense del 1946 per la regia di Robert Siodmak, considerato uno dei capostipiti del thriller cinematografico. Ammetto la mia ignoranza, in quanto non conoscevo il lungometraggio; l'ho scoperto leggendo uno degli ultimi numeri di Martin Mystère, in cui se ne consigliava appunto la visione.
La trama è semplice ma d'impatto, considerando soprattutto l'anno di produzione. Un piccolo centro della provincia americana da qualche tempo sta vivendo un incubo: c'è un assassino seriale che uccide solo donne che presentano una qualche forma di disabilità. La giovane Elena, muta a seguito di un terribile shock, sembra essere la prossima vittima predestinata. Sola al mondo e fragile per l'incapacità di parlare e chiedere aiuto, viene caldamente invitata a rimanere chiusa nella casa dove lavora come domestica, fin quando l'assassino non verrà arrestato. Purtroppo, però, è proprio in quella casa signorile che vive il mostro.
Questa a grandi linee la storia, senza voler svelare troppi particolari. Nonostante siano passati quasi ottant'anni dalla sua uscita, il film mantiene ancora oggi un suo fascino e non solo per ragioni "archeologiche". Vero è che può essere considerato l'archetipo di un genere e ciò solo basterebbe per giustificarne la popolarità fino ai giorni nostri. Si può infatti affermare che ne La scala a chiocciola compaia forse per la prima volta quella figura dell'assassino seriale che tanta fortuna cinematografica avrà nei decenni successivi, soprattutto nelle produzioni statunitensi. Eppure, a mio avviso, il punto di forza del film non è questo, non sta nella capacità di condensare elementi classici del brivido e proiettarli nel futuro. Ciò è sicuramente vero, tuttavia non sufficiente. Mi sono dunque chiesto come faccia un film così vecchio a tenere incollato lo spettatore alla poltrona, senza una sola goccia di sangue e senza scene particolarmente crude o impressionanti.
Ciò che lo rende un capolavoro è la perizia tecnica del regista negli straordinari giochi di luci e ombre che creano un clima continuo di strisciante tensione. Si considerino le scene ambientate nella cantina: di fatto non succede nulla o quasi, eppure un brivido corre lungo la schiena dello spettatore, convinto che dietro ogni pilastro o in ogni angolo oscuro si nasconda un pericolo mortale. Il grandioso bianco e nero fa il resto, dimostrando, se mai ce ne fosse bisogno, di essere l'unica perfetta forma di rappresentazione visiva per questo genere di opere.
Tornando a quanto detto all'inizio, La scala a chiocciola utilizza il grande topos dell'antica magione, non più mera scenografia ma vero e proprio personaggio. La labirintica casa Warren è in questo senso perfetta: in stile vittoriano, piena zeppa di ogni sorta di arredi, quadri e chincaglierie, è composta da ampi saloni, stanze più piccole, anditi oscuri, lunghi corridoi e spazi più modesti dedicati alla servitù. Il suo cuore è però rappresentato dalla scala a chiocciola che parte dal piano nobile e conduce agli scantinati. È proprio su questa scala che si consuma la doppia tragedia conclusiva, preambolo al lieto fine, forse non troppo originale ma coerente coi gusti dell'epoca. Il senso di piacere visivo delle prime scene si trasforma gradualmente in un'opprimente sensazione di claustrofobia; solo alla fine arriviamo a comprendere che è la casa stessa il cuore del male, con i suoi tappeti, arazzi, arredi, quadri, caminetti, soprammobili e poltrone, utili soltanto a dare all'incubo una veste di decoro.
Per chi fosse interessato, il film è in libera visione su YouTube. Vale la pena vederlo, se non altro per ammirare la "grazia innaturale" della bella Dorothy McGuire (per dirla alla Battiato) e lo straordinario pathos di Ethel Barrymore nel ruolo della vecchia Lady Warren.
Elena (Dorothy McGuire) sulla celebre scala

25 febbraio 2025

"Mighty Joe Moon": il folk contemporaneo dei Grant Lee Buffalo

Il principale merito delle grandi band è la capacità di creare un suono riconoscibile già al primo ascolto. Mi vengono in mente gli Smiths, i Depeche Mode e gli Smashing Pumpkins, nonché gruppi meno noti ma altrettanto originali come i Wedding Present, il cui muro chitarristico è un vero e proprio marchio di fabbrica. Grant Lee Buffalo è un nome che dice poco al grande pubblico, eppure i losangelini possono e devono essere inseriti in questa cerchia ristretta.
La loro pazza idea fu quella di proporre una personale rivisitazione del folk-rock che ha in Neil Young uno dei più grandi interpreti. Idea pazza perché la loro storia si esaurì in una manciata di anni, tra il 1991 e il 1999, quando pubblico e mercato erano orientati su altre proposte. Erano gli anni del brit-pop, del grunge, dello shoegaze e di quel calderone ribollente che venne genericamente chiamato rock alternativo e poi indie. I tre di Los Angeles, invece, pur inserendosi egregiamente nel contesto, tanto da partecipare anche a programmi di MTV, puntavano lo sguardo al passato, alla grande tradizione americana del country e del folk. Il loro stile non era tuttavia semplicemente derivativo, in quanto il suono della tradizione era filtrato da una sensibilità contemporanea che lo rendeva facilmente fruibile e, soprattutto, attuale e non anacronistico. Limitarsi a citare un genere è dunque fuorviante, perché i Grant Lee Buffalo hanno avuto la capacità di prendere linfa dalle radici della tradizione senza diventare emuli dei grandi del passato.
Mighty Joe Moon (1994) è forse l'apice della loro carriera, oltre che l'emblema di tale proposta musicale. Per comprenderlo basta dare un'occhiata alla ricchissima strumentazione, che comprende chitarre elettriche, banjo, basso, armonica, organo elettrico, piano, marimba, mandolino e batteria. Un mix di strumenti della tradizione nord e sudamericana, oltre a quelli tipici delle rockband. Senza dimenticare la splendida voce di Grant Lee Phillips, una delle più intense di quegli anni, capace di spaziare dal falsetto (Mockingbirds) ai toni più profondi ed evocativi (Sing along, Honey don't think).
Quando Grant Lee Phillips, Joey Peters e Paul Kimble (nelle vesti anche di produttore) entrarono al Brilliant Studio di San Francisco, dovevano avere le idee ben chiare. Altrimenti non si spiegherebbe la compiutezza di questo album, il secondo della loro breve discografia. Non ci sono punti morti, né riempitivi; persino il breve intermezzo di Last days of Tecumseh, un minuto o poco più, ha il suo perché. Anzi, è l'unica traccia smaccatamente country; eppure il loro tocco originale la fa piacere persino a uno come me che non ha mai sopportato il genere.
Il disco inizia alla grande con Lone star song, epopea americana in poco meno di cinque minuti, un blues sanguigno ed elettrico che graffia le orecchie. Si rifiata con l'acustica Mockingbirds, a mio avviso il pezzo in cui emergono al meglio le doti vocali di Phillips. Significativa anche Sing along, che vive di due momenti ben distinti: l'esplosione elettrica iniziale e il finale sussurrato che si chiude in delicati arpeggi di chitarra. In generale nel disco si nota una grande capacità di dosare ritmi e suoni diversi, sicché l'impressione finale è quella di un deciso equilibrio. Si prenda un pezzone come A demon called deception, dove non c'è un elemento che non sia esattamente al suo posto: la batteria incalzante, la musicalità del testo, la voce di Phillips ora imperiosa ora struggente, le sferzate di chitarra elettrica e le linee decise del basso. In generale non c'è un solo brano che possa dirsi non riuscito, tanto che il finale di Rock of ages è sorprendente per chi, arrivato alla tredicesima traccia, pensi di aver già sentito il meglio. La vera perla è secondo me Honey don't think, anche questa strategicamente collocata in coda; è semplicemente una delle più ispirate e struggenti canzoni d'amore degli anni Novanta.
Mighty Joe Moon è un gran bel disco, si potrebbe persino azzardare definendolo un capolavoro, sia pure sottovoce. Tredici tracce che avvolgono l'ascoltatore in un turbine di suoni caldi e pastosi, in cui si alternano passaggi elettrici e acustici, con testi visionari recitati da una voce, quella di Grant Lee Phillips, capace in certi momenti di brillare di una grazia quasi sovrumana. Indipendentemente da quale sia il vostro genere preferito, se amate la musica comprate questo disco.
La copertina e, in basso, foto tratte dal libretto interno

12 febbraio 2025

"Il paese delle meraviglie" di Giuseppe Culicchia: la generazione segnata dall'odio

A rileggere un libro che ha segnato una fase della nostra vita si corre un rischio, ossia quello di smarrire la magia della prima lettura. Sarà capitato a tutti di non riuscire più a ritrovare tra le pagine di un libro amato i segni di quel vecchio innamoramento. Forse per questo non ho mai riletto Il giovane Holden, per la paura (sia pure infondata) di rimanerne deluso. Ho fatto un'eccezione per Il paese delle meraviglie di Culicchia, che un'amica mi prestò nel lontano 2004, fresco di stampa. All'epoca mi fulminò, fissato com'ero per il punk e certe controculture ribelli. Un romanzo che mi segnò più profondamente di quanto abbia mai creduto, al punto che, rileggendolo, sono rimasto assai sorpreso di ricordarlo meglio di quanto mi aspettassi. Pur con le dovute differenze, le buone impressioni sono rimaste. Se vent'anni fa lo elessi a libro cult, un vero e proprio manifesto, oggi lo considero un nostalgico ricordo di un'epoca spensierata che non c'è più.
Sorprendentemente, inoltre, la seconda lettura mi ha condotto a riflessioni che vent'anni fa non erano possibili. Se infatti era intuibile che ci fossero degli spunti autobiografici, mai avrei potuto immaginare che la figura di Alice, uno dei personaggi del romanzo, fosse modellata su quella di Walter, cugino dell'autore e protagonista di una tragica vicenda che Culicchia ha trovato la forza di raccontare solo di recente. Senza svelare troppo della trama, chi volesse approfondire questo spunto autobiografico, rinvenendo eventualmente le mie stesse impressioni, può leggere il recente Il tempo di vivere con te.
In parole semplici, Il paese delle meraviglie è la storia di un'amicizia, profonda e sincera come può nascere solo in adolescenza, quella tra l'io narrante Attilio (detto Attila) e Francesco Zazzi (detto Franz). Quest'ultimo è un personaggio che difficilmente può essere dimenticato: quindici anni, sguardo azzurro pazzo, jeans fulminati dalla candeggina, chiodo e t-shirt con slogan scritti a biro risalenti al ventennio fascista. Franz infatti si dichiara neofascista, eppure il suo atteggiamento da immarcescibile poser ce lo fa amare sin dalle prime pagine. Coi suoi eccessi e la sua coerenza, Franz è l'amico che tutti in adolescenza avremmo voluto avere: folle, energico, fedele ai suoi ideali (per quanto discutibili), menefreghista, sciolto dai vincoli della buona società, malinconicamente anarchico nel profondo.
Le avventure di Attila e Franz nel corso di un intero anno scolastico, assieme a un incredibile numero di comprimari, sono il cuore pulsante della vicenda. Eppure Il paese delle meraviglie è anche qualcosa di più, perché attraverso la storia dei due amici Culicchia dipinge un impietoso ritratto dell'Italia alla fine degli Anni settanta, schiacciata tra il sogno del benessere e l'incubo del terrorismo e degli opposti estremismi. Il romanzo è infatti ambientato nel 1977 e sebbene i due amici vivano in un piccolo comune della provincia piemontese, gli echi del mondo si fanno sentire forte e chiaro, con la lotta politica, il punk, i Ramones e i Sex Pistols, la droga, la lotta senza tempo tra progressisti e conservatori. Il paese del titolo è l'Italia profondamente provinciale e bigotta in cui i due protagonisti hanno la ventura di vivere; una nazione incapace di spiccare veramente il volo, dilaniata com'è dalle opposte ideologie, siano esse politiche, sociali o religiose. In questo clima si consuma l'adolescenza sofferta di Franz e Attila, il primo troppo eccentrico per poter sopravvivere nella buona società, il secondo costretto a crescere troppo presto e a mettere i sogni nel cassetto. Non a caso il libro si conclude con la frase «io odio tutti», che non ha tuttavia l'ironico significato di un certo anarchismo punk, ma va intesa proprio in senso letterale. Arduo persino parlare di un romanzo di formazione, se così stanno le cose, in quanto il punto di approdo non è la crescita, ma un doloroso e invincibile disincanto.
Il libro di Culicchia ha segnato molti della mia generazione e di quella immediatamente precedente, come ho avuto modo di appurare confrontandomi con alcuni amici. E chiunque l'abbia letto, nessuno escluso, a distanza di anni ancora ricorda il pugno nello stomaco delle pagine finali.

31 gennaio 2025

"Fuga senza fine" di Joseph Roth: tra reduci e rovine

Ci sono opere che possono lasciare il lettore indifferente, oppure sconvolgerlo, a seconda della fase di vita che sta attraversando. Fuga senza fine è una di queste. La storia di Franz Tunda potrebbe infatti apparire come una vicenda a noi aliena, da leggere per semplice diletto e nulla più, "una storia vera" come tiene a precisare l'autore, ma al tempo stesso appartenente a un'epoca lontana. Se invece si astrae la vicenda dal contesto storico e ci si concentra sulla figura del protagonista, allora le cose cambiano. Se poi il lettore si trova in una fase della vita in cui le domande non sembrano trovare risposta, se si sente irrisolto e senza speranza di redenzione, allora nel libro potrà trovare una parte di sé e rimanerne sconvolto. Ciò perché Fuga senza fine è la cronaca di un dramma, quello di chi un giorno si scopre smarrito, di chi non ha più passato e non avrà mai un futuro, di chi si sente schiacciato dal peso di un presente che non gli appartiene.
Franz Tunda è un ex ufficiale dell'esercito austroungarico, fatto prigioniero dai russi durante la Prima guerra mondiale e fuggito dal campo di prigionia. Per anni, fino al 1919, si nasconde in una remota isba siberiana, grazie all'aiuto di un uomo che lo tratta come un fratello. La patria è lontana, l'Impero asburgico non esiste più, nulla egli sa del fratello e soprattutto della fidanzata Irene, che pure secondo il buoncostume borghese ha atteso per anni che egli ritornasse dalla prigionia. Quando Franz apprende che la guerra è finita, il mondo che conosceva è dissolto. Egli è un esule, un relitto storico, un uomo ancora giovane eppure appartenente al passato, un reduce costretto a vagare senza meta per l'Europa nella speranza di incontrare qualcosa che possa restituirgli l'identità perduta, forse proprio grazie alla vecchia fidanzata che egli non ha mai dimenticato.
Il viaggio intrapreso porta Tunda ad attraversare un'Europa in profondo cambiamento: dalla Russia rivoluzionaria passando per la Vienna depressa del post-Impero, dalla fragile Repubblica di Weimar fino ad arrivare in una Parigi decadente che ancora vive dei fasti del suo passato. C'è dunque una segreta corrispondenza tra uomini e luoghi, o sarebbe meglio dire tra uomini ed epoca storica. La crisi non è infatti solo individuale: è una crisi di valori e identità che riguarda l'intero continente. Di uomini come Tunda ce ne sono centinaia di migliaia, tra ex soldati dei contrapposti eserciti, intellettuali frustrati e borghesi impoveriti dal conflitto.
Ovviamente nulla da dire sullo stile di Roth (1894-1939), raffinato, tagliente ed essenziale come è proprio dei grandi scrittori. Alcuni passaggi tuttavia sembrano quasi frettolosi; il romanzo infatti copre poco più di centocinquanta pagine, nel corso delle quali il protagonista gira mezza Europa. Giocoforza ci sono parti, su tutte il ritorno a Vienna o il soggiorno a Baku, in cui alcuni particolari sono dati per scontati e poco approfonditi, aspetto che rende a tratti poco comprensibile l'evolversi della vicenda. Se poi non è così, ma si tratta di una mia erronea impressione, chiedo venia.
C'è chi considera Fuga senza fine uno dei più importanti romanzi del Novecento, assieme a La cripta dei cappuccini del medesimo autore. A mio modesto avviso si tratta di un'affermazione un po' pretenziosa. Certo è invece che si tratta di un libro capace come pochi di captare lo spirito di un'epoca e di un'umanità persa e sofferta. Franz Tunda, in questo senso, è uno dei più emblematici personaggi del Novecento letterario, ben più solido della storia che Roth gli ha fatto vivere.

17 gennaio 2025

"Una scrittura femminile azzurro pallido" di Franz Werfel: una catastrofe umana

Mentre nel romanzo Nella casa della gioia Franz Werfel aveva descritto una società in crisi e un mondo in sfacelo, in questo libro egli si è fatto cronista di un disordine tutto individuale. Leonida, alto funzionario del Ministero dell'istruzione austriaco negli anni immediatamente precedenti l'Anschluss, conduce una vita altisonante come il suo nome. Proviene da una famiglia modesta e grazie a un insperato colpo di fortuna ha sposato Amelie Paradini, una delle donne più ricche del Paese. Ciò gli consente di vivere decisamente al di sopra di quanto gli permetterebbe il suo stipendio da impiegato pubblico. Un'esistenza all'apparenza priva di macchie che è messa in discussione il giorno in cui gli viene recapitata una lettera vergata con scrittura femminile azzurro pallido, da cui il titolo del romanzo. Leonida riconosce subito la mittente, prima ancora di aprire la busta: la missiva è stata scritta da una sua vecchia amante. Sono i fantasmi del passato che si fanno inaspettatamente avanti, rischiando di compromettere l'esistenza agiata del funzionario statale.
Il protagonista è un eroe negativo, in quanto presenta tutti i vizi di certi esponenti della classe dirigente: è dozzinale, fedifrago, calcolatore, cinico, schiavo del dio denaro. Egli è l'incarnazione del parvenu, un uomo tutto sommato mediocre che ha raggiunto la ricchezza e una posizione sociale invidiabile grazie a un matrimonio fortunato. Eppure anche a lui viene offerta un'opportunità di redenzione; proprio quando la sua vita sembra inesorabilmente incardinata nei binari dell'agiatezza e del conformismo, l'arrivo della missiva lo pone di fronte a un bivio. Disinteressarsene distruggendola, come già aveva fatto nel passato, oppure aprirla e rispondere all'esortazione di aiuto ivi contenuta, rischiando tutto in un lancio di dadi. Nessuno può aiutarlo a trovare una soluzione, perché certi rovelli bisogna affrontarli da soli. Tuttavia Leonida non sa cogliere l'estrema opportunità celata tra le pieghe della lettera. E così l'ultima speranza di redenzione si dissolve, lasciandolo più solo e colpevole, a ennesima conferma della sua inettitudine morale.
Franz Werfel (1890-1945) ha dimostrato con questo romanzo di essere stato uno dei più fini narratori della sua generazione, in grado come pochi di trascrivere su carta paure, ossessioni e idiosincrasie dell'uomo europeo a cavallo tra i due conflitti mondiali. Cantore poco conosciuto della finis Austriae, in realtà non aveva nulla da invidiare a grandi contemporanei come Joseph Roth o Arthur Schnitzler.
Tutto il libro ruota intorno a tre soli personaggi principali, attorniati da una manciata di comparse. Leonida è una figura che ispira antipatia sin dalle prime pagine e con l'incedere della storia la prima impressione è confermata e anzi rafforzata. La moglie Amelie è una donna insulsa, piagnucolosa, succube dei capricci del marito e incapace di slanci vitali. Poi c'è la misteriosa autrice della lettera che, nonostante appaia soltanto nelle pagine finali, lascia il segno più profondo nel ricordo del lettore, in quanto è lei il vero deus ex machina dell'azione. E infine c'è Vienna, quasi un quarto personaggio, descritta da Werfel con pochi rapidi tocchi, perché se è vero che la vicenda si svolge quasi tutta in interni, gli scorci della città che si intravedono dalle finestre bastano per costruire uno scenario di grande fascino.
Una scrittura femminile azzurro pallido è la storia di un tormento, nonché un'impietosa critica al culto tutto borghese dell'apparenza e all'ipocrisia che spesso si cela dietro i rapporti umani, soprattutto tra i membri della classe dirigente. Werfel osserva con sguardo lucido e spietato la catastrofe umana del suo protagonista, senza tuttavia assumere toni moraleggianti o paternalistici. Il narratore non giudica, lascia che sia Leonida a firmare ed eseguire la sua stessa condanna, quella di un uomo che acquisisce consapevolezza quando è ormai troppo tardi e il fuoco è morto sotto la cenere. Il libro raggiunge dunque il suo punto più alto nello struggente finale, in cui Leonida, seduto su una poltrona del teatro, cade preda di un sonno convulso e animato da fantasmi. Sono i ricordi e le opportunità del passato, tutte quelle che non ha saputo cogliere e che non torneranno più. A lui, però, uomo mediocre e incapace di un sentire poetico, non resta neppure la gozzaniana consolazione del malinconico rimpianto, il «non amo che le rose che non colsi, non amo che le cose che potevano essere e non sono state».

4 gennaio 2025

"C.S.I. È stato un tempo il mondo" di Donato Zoppo: voci dai confini della Terra

Il Consorzio Suonatori Indipendenti, più semplicemente C.S.I., è stato il portabandiera di un mondo in cambiamento. Il "secolo breve" stava finendo e con esso le grandi ideologie che avevano infiammato gli animi, il mondo a blocchi contrapposti era giunto al capolinea e anche gli artisti percepivano nuove urgenze espressive e la necessità di lasciarsi alle spalle un passato divenuto ingombrante. In Italia i CCCP, al netto delle provocazioni e dei colpi di teatro, avevano in qualche misura rappresentato perfettamente quel mondo che appariva in sfacelo all'alba dei Novanta; non a caso il loro ultimo album, Epica etica etnica pathos, era già un canto d'addio e al contempo l'apertura verso qualcosa di nuovo. I C.S.I. nacquero dalle ceneri dei CCCP, con i provvidenziali innesti di alcuni ex Litfiba; una storia destinata a lasciare una traccia profonda nella scena rock nostrana, praticamente fino ai nostri giorni. Questa anomala alleanza artistica dell'Appennino tosco-emiliano non fu pensata come un gruppo nel senso classico del termine; un consorzio per l'appunto, a voler significare un patto contadino e operaio, stretto però tra musicisti che si consideravano indipendenti, in quanto ciascuno avrebbe portato il proprio bagaglio individuale per arricchire il tutto.
C.S.I. È stato un tempo il mondo, è l'appassionante racconto di quell'esperienza irripetibile. Il libro, scritto dal giornalista musicale Danilo Zoppo ed edito nel 2024 per i tipi di Aliberti, racconta la prima parte della breve storia della band, coprendo il periodo che va dallo scioglimento dei CCCP nel 1990 fino al tour di In quiete che seguì la pubblicazione del primo lavoro in studio, Ko de mondo, passando per l'esperienza del Maciste e dei Dischi del Mulo. Pertanto, pur essendo concepito come «un resoconto collettivo a più voci del Consorzio Suonatori Indipendenti», il saggio in realtà affronta solo la prima parte della loro carriera, concentrandosi specialmente sulle vicende che precedettero e seguirono l'uscita del primo LP. Resoconto a più voci nel senso che le pagine sono arricchite dalle parole e dai ricordi dei protagonisti di quegli anni, in primis i membri della spedizione che si recò in Bretagna a concepire, suonare e registrare il disco: Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Francesco Magnelli, Gianni Maroccolo, Giorgio Canali, Ginevra Di Marco, Pino Gulli e Alessandro Gerbi. Oltre naturalmente agli interventi di altri protagonisti di quell'avventura, come tecnici, fotografi, registi e discografici.
È stato un tempo il mondo, titolo tratto da una canzone dell'album e quanto mai azzeccato, offre un interessante spaccato del mondo musicale nostrano a cavallo di due decadi decisive, un attimo prima che l'avvento del digitale distruggesse per sempre quel modo genuino di fare musica, suonarla e ascoltarla. Il nucleo del libro è il racconto della spedizione in Bretagna; si scopre così che alla partenza per Finistère non c'era praticamente materiale e che Ko de mondo venne costruito da zero in un mese e mezzo nell'ameno scenario di Le Prajou, la grande magione ai confini del mondo affittata per l'occasione dalla casa discografica. A tratti sembra di leggere un romanzo, anche perché i membri dei C.S.I., con le loro personalità forti e definite, avevano tutti i caratteri di personaggi di fantasia. Si pensi ai due chitarristi, Zamboni e Canali, così diversi anche solo nell'aspetto, oppure al deus ex machina Maroccolo o al perfezionismo da scuola classica di Magnelli, per non parlare dell'aura mistica che da sempre circonda Ferretti. Leggendo il volume sembra di trovarsi con loro nell'avita dimora in Bretagna mentre il disco viene suonato e registrato. Ovviamente solo chi conosce Ko de mondo può capire alcuni passaggi, in quanto la lettura non può prescindere da un previo ascolto dell'album. 
Negli ultimi tempi si è rinnovato l'interesse intorno al Consorzio, merito soprattutto della reunion dei CCCP; c'è stato dunque un proliferare di interviste, ristampe, libri fotografici e celebrativi, come non si vedeva da tempo. Ciononostante, il libro di Zoppo è riuscito a ritagliarsi uno spazio, forse proprio per la sua specificità del concentrarsi solo su una breve frazione di questa storia di rock nostrano. Per tali ragioni, è un saggio destinato prevalentemente ai fan, che potranno scovarvi molte curiosità, interviste inedite e punti di vista differenti. Ritengo tuttavia possa essere letto anche da tutti gli amanti del rock italiano che, pur non essendo appassionati del Consorzio, abbiano voglia di conoscere una bella storia degli anni Novanta che meritava di essere raccontata così dettagliatamente.

23 dicembre 2024

"Sogni di Bunker Hill" di John Fante: un testamento spirituale

Fa riflettere che un libro così pieno di vita sia stato scritto quasi in punto di morte. Quando John Fante dettò alla moglie Joyce il suo ultimo romanzo, era ormai cieco e privo di una gamba a causa del diabete. Fu pubblicato nel 1982 e un anno dopo il più grande degli scrittori italoamericani lasciò questo mondo.
Sogni di Bunker Hill è il capitolo conclusivo della saga di Arturo Bandini, alter ego dell'autore e suo personaggio più amato. Può essere letto anche senza conoscere gli altri romanzi con il medesimo protagonista. Io stesso ricordo poco di Chiedi alla polvere e La strada per Los Angeles, letti da adolescente, mentre ancora non ho avuto occasione di leggere Aspetta primavera, Bandini. Nato a Boulder in Colorado e figlio di immigrati italiani, Bandini è un aspirante scrittore di dubbio talento e pressoché di nessun successo, salvo qualche breve racconto pubblicato su rivista. In questa sua ultima avventura è ancora un giovane squattrinato che approda a Los Angeles e si stabilisce in un alberghetto del distretto di Bunker Hill. Il libro narra le sue peripezie alla ricerca di un lavoro, o meglio, di un posto al sole in un mondo che arride a quanti hanno il coraggio di rischiare. La sua carriera sembra decollare quando un racconto viene notato da un agente letterario; da cameriere diventa così correttore di bozze, iniziando una rapida (ma effimera) scalata sociale, ottenendo infine un invidiabile contratto come scrittore di sceneggiature.
Fante conosceva bene il mondo di Hollywood, per avervi lavorato a lungo come sceneggiatore. Il romanzo, al di là di un apparente disimpegno, è una feroce critica a quel mondo falso, spietato e fondato sul culto dell'apparenza. Già negli anni Venti l'industria cinematografica muoveva in America un giro d'affari colossale e Hollywood era la Mecca di quanti ambivano anche solo ad accarezzare il successo. Arturo è uno di questi e in poco tempo capisce che la regola è una soltanto: adeguarsi o soccombere. Accettare di firmare col proprio nome pessime sceneggiature per un pubblico di stolti, oppure vedersi sbattere porte in faccia ed essere additati come ingrati. C'è un punto del romanzo, a mio avviso il più significativo, in cui Bandini si impegna per settimane per scrivere una sceneggiatura soddisfacente; ci mette tutto se stesso e alla fine la completa e ne è orgoglioso. Quando però la sottopone al suo supervisore, viene completamente stravolta e trasformata in un filmaccio western di terzo ordine. Arturo si ribella e non vuole che il suo nome sia associato a quell'obbrobrio. Il sistema allora lo punisce: il film sbanca i botteghini e a lui non spetta un centesimo di diritti d'autore. La Hollywood descritta da Fante è un leviatano che ammazza il talento, a cui è inane opporsi nell'illusione di preservare la propria integrità. Chi ci prova viene additato come l'ennesimo illuso, un Don Chisciotte che sacrifica gli agi del successo pur di non prostituirsi al mercato.
Sogni di Bunker Hill è un romanzo struggente come una lettera d'addio che conclude una lunga storia d'amore. Leggero nello stile ma profondo nei significati, fa sorridere e riflettere, sferrando poi un colpo inaspettato nell'amarissimo finale. A ragione viene considerato il testamento spirituale di Fante, il suo libro della maturità e della consapevolezza, un inno alla bellezza della vita e al disincanto. Non a caso nel finale assistiamo al ritorno di Arturo in seno alla sua famiglia; sono poche pagine, eppure restituiscono un commosso ricordo dell'infanzia di Fante. Il ritorno alle origini di Arturo è il ritorno alle origini di John, che si sentiva vicino alla morte e forse al ricongiungimento con i suoi amati genitori; non bisogna infatti dimenticare che la religiosità semplice e contadina della madre e della nonna è un tema ricorrente nei suoi libri. Così Arturo torna nella vecchia casa in Colorado che profuma di buon cibo, di infanzia, di una terra lontana. E lì, ancora una volta, il velo dell'illusione cade e gli viene amaramente ricordato che lui sarà sempre un diverso, un italiano, un minus, un figlio di immigrati.

11 dicembre 2024

"Le trou", quando il cinema va all'essenza

A quanto pare, alla base del romanzo Le trou c'è una storia vera. Lo scrittore José Giovanni aveva infatti conosciuto in carcere Jean Keraudy, un vero e proprio asso delle evasioni. Si può quindi immaginare che nel corso delle lunghe giornate della detenzione Keraudy abbia raccontato al futuro scrittore e sceneggiatore i particolari delle sue rocambolesche fughe. Quelle storie sarebbero diventate prima un romanzo di successo e poi nel 1960 uno splendido film di Jacques Becker, alla sua ultima regia prima della prematura scomparsa. Le trou, in italiano semplicemente Il buco, è senza dubbio un capolavoro per ritmo, intensità, fotografia e recitazione. Per quanto sia una frase banale, mai come in questo caso è corretto dire che tiene lo spettatore incollato alla poltrona.
A Parigi, nel carcere de La Santé, quattro uomini languiscono in cella. Di loro sappiamo soltanto che sono detenuti in custodia cautelare per crimini gravi, in attesa del processo che dovrà celebrarsi in Corte d'Assise. Non conosciamo il loro passato, né i capi d'imputazione; ci vengono rivelati solo i nomi: Roland, Geo, Monsignore e Manu. Un giorno viene allocato nella cella un quinto prigioniero, Gaspard, accusato di aver tentato di uccidere la moglie. I quattro si vedono allora costretti a rivelare al nuovo giunto il loro segreto: in un punto del pavimento, che durante il giorno rimane coperto, hanno iniziato a scavare un buco che può condurli nei sotterranei della prigione e da lì verso la libertà, attraverso le fognature.
La storia è questa, semplice eppure avvincente: per oltre due ore seguiamo i cinque detenuti impegnati nella titanica impresa dell'evasione. Le inquadrature si concentrano sulle mani che scavano, sugli attrezzi rudimentali, sulla polvere, le pietre e i calcinacci. Tutta la pellicola è girata in interni, con pochissimi personaggi: oltre ai cinque protagonisti, ci sono gli agenti di custodia e il direttore. Assente persino la colonna sonora, il ritmo è scandito dai monotoni rumori della prigione: i passi delle guardie nei corridoi, i blindi che vengono chiusi, le serrature che scattano, gli accendini che crepitano, il tinnire delle scodelle. Anche i dialoghi sono ridotti all'essenziale e sono diverse le scene in cui la comunicazione avviene a gesti o sguardi, un codice di comunicazione carcerario riprodotto con grande realismo. La bellezza del film è proprio nell'essenzialità; Josè Giovanni e Jacques Becker bandirono ogni irrealistica retorica, in modo da costruire un'opera che fosse quanto più aderente alla realtà. Emblema di questa felice scelta è la battuta conclusiva. Sono qui costretto a rivelare il finale, per cui chi non ha ancora visto il film interrompa la lettura. Alla fine si consuma il tradimento da parte del giovane Gaspard, che cede alle lusinghe del potere e si lascia convincere dal direttore a rivelare tutto, probabilmente nell'illusione di poter ottenere qualche beneficio. Nell'ultima scena l'obiettivo si concentra sul viso espressivo di Roland, in mutande e circondato dagli agenti, con le mani alzate e la faccia contro il muro. Al passaggio del traditore volta la testa e, con uno sguardo colmo di commiserazione più che di odio, pronuncia due parole più dure di una condanna.
«Povero Gaspard!»
Due parole semplici, apparentemente insignificanti, in realtà traboccanti di significato. In quel "povero Gaspard" c'è al contempo rabbia e pietà, desiderio di vendetta e subitaneo perdono, senso di superiorità morale e compassione per la sorte del compagno traditore. Perché se è vero che ai quattro quasi fuggiaschi aspetta la cella di rigore e un procedimento disciplinare e penale, è tuttavia fuor di dubbio che essi abbiano mantenuto fino all'ultimo la loro dignità. Il povero Gaspard, invece, è tale perché non ha esitato a svendersi al sistema nella vana speranza di ottenere qualcosa. E invece, con ogni probabilità, al massimo otterrà una punizione più mite di quella comminata agli altri, magra consolazione sporcata dal marchio d'infamia. A mio avviso è proprio in questa battuta finale che emerge quell'essenzialità che ritengo sia il punto di forza de Il buco.
Le trou non è semplicemente un'avvincente pellicola riconducibile al sottogenere carcerario, ossia i cosiddetti prison movies. Oltre alla magistrale fotografia e alla bravura di tutti gli attori (tra cui lo stesso Keraudy, Philippe Leroy e Marc Michel), c'è qualcosa di più profondo. È infatti un inno nostalgico a valori universali come l'amicizia, la fedeltà, il rispetto, il cameratismo tra chi condivide la stessa triste sorte. Ecco perché lo spettatore, quasi involontariamente, si trova a fare il tifo per i cinque detenuti. Si è consapevoli che hanno commesso gravissimi reati e che l'evasione consentirà loro di sfuggire a una giusta punizione, eppure non si può fare a meno di sperare che l'impresa riesca. A differenza di altri film del genere, come ad esempio il recente Fuga da Pretoria, non ci troviamo di fronte a condanne ingiuste o errori giudiziari; anzi, nessuno mette in dubbio che siano tutti colpevoli. Purtuttavia ci si appassiona alla sorte di questi uomini, riconoscendo loro quantomeno il coraggio di sfidare la sorte contro ogni principio di ragionevolezza.
Un fotogramma del film. A sinistra, Jean Keraudy

29 novembre 2024

L'amore al tempo dei Cult

Difficile trovare un disco che sia al contempo figlio della sua epoca e ancora attuale, soprattutto quando si parla degli anni Ottanta. Il sound di quel decennio, prima amato, poi odiato e infine (parzialmente) riabilitato, da sempre divide gli appassionati. A mio avviso, ciò dipende dal fatto che molte rockband di successo degli anni '60 e '70 tentarono di reinventarsi nella decade successiva con risultati discutibili, cedendo senza troppa convinzione alle lusinghe dell'elettronica e dando alle stampe lavori con un suono artefatto. Forse è questa la ragione per cui molti album di quel periodo hanno resistito poco alle ingiurie del tempo, apparendo oggi datati. Motivo per cui le eccezioni sono ancora più sorprendenti.
Love, il secondo album dei britannici The Cult, è una di queste eccezioni. Pubblicato esattamente a cavallo dei due lustri, nel 1985, suona dannatamente eighties senza che ciò debba intendersi come un difetto. È un lavoro figlio del suo tempo, come l'orecchio più allenato noterà già dai primi solchi di Nirvana, eppure in quasi quarant'anni non ha perso il suo smalto. Con questo LP il gruppo dimostrò di essere una solida realtà che sapeva parlare un linguaggio universale, non impastoiato dalle ristrettezze di un sottogenere. Love smaschera infatti l'erronea convinzione che i Cult fossero un gruppo dark o gothic.
Probabilmente il più amato della loro produzione, è un anello di congiunzione tra i suoni cupi di Dreamtime e il nuovo corso segnato da Electric del 1987. Forse per queste ragioni è considerato il loro migliore, anche da parte di chi critica Astbury & soci, accusandoli di essere poco originali e di aver inseguito le mode del momento. Di certo Love appariva più rétro alla sua uscita che non oggi, per via degli evidenti richiami ai mostri sacri del rock anni Settanta, Led Zeppelin su tutti. Bandite le tastiere, sono le chitarre di William "Billy" Duffy a dominare la scena, oltre ovviamente al basso possente di Jamie Stewart. Dietro le pelli si alternarono Mark Brzezicki e Nigel Preston, sebbene i due non compaiano nelle foto interne. The Cult era però soprattutto la straordinaria presenza scenica di Ian Astbury, qui all'apice della forma. Ombroso come Jim Morrison, glam come il primo Bowie, con uno stile a metà strada tra un pirata e un nativo d'America, Astbury sfoggia le sue indubbie qualità canore, sia nei pezzi più dilatati come Brother wolf, sister moon, che in quelli più grintosi come nell'immortale She sells sanctuary. Accattivante anche la grafica del disco: in copertina e nel libretto interno abbondano simboli esoterici, ripresi sia dalla tradizione degli Indiani d'America che dai geroglifici egizi, elementi riportati anche nelle fotografie che ritraggono i tre musicisti.
Come ho già detto, l'attacco di Nirvana fionda immediatamente l'ascoltatore in atmosfere ottantiane, ma già la successiva Big neon glitter è un pezzo senza tempo di solido rock che, pur non essendo derivativo, attinge a piene mani da band come Stooges o, si potrebbe persino azzardare, New York Dolls. Brother wolf, sister moon, invece, è l'unica traccia gotica o dark-wave; qui la voce di Astbury si eleva incontrastata sul tappeto di basso e chitarra, regalando una delle migliori performance della sua carriera, almeno in studio. Di Rain e She sells sanctuary c'è poco da dire, tanto sono celebri e da sempre osannate dal pubblico. A me piace molto anche Hollow man, che vola a livelli altissimi grazie a un azzeccato riff di chitarra di Duffy, oltre a fornirci, se mai ce ne fosse bisogno, l'ennesima prova della voce camaleontica di Astbury, capace di passare da un registro all'altro nella stessa canzone. Ad ogni modo non voglio diffondermi in un'analisi traccia per traccia che avrebbe poco senso per un LP compiuto e coerente come questo.
Come noto, il disco fu baciato dal successo, di vendite più che di critica, raggiungendo alte posizioni in classifica. Poi col tempo è stato dimenticato, forse in ragione dei grandi cambiamenti che il rock ha visto tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta: il britpop, il grunge, in misura minore lo shoegaze. Di colpo i Cult passarono di moda, considerati quasi un retaggio di un'epoca finta, vuota d'ideali, legata solo all'apparenza. L'oblio che ha coperto a lungo una parte della produzione rock degli anni Ottanta ha colpito ingiustamente anche Astbury & soci, sebbene Love, l'apice della loro carriera, sia semplicemente un grande disco rock, niente di più ma niente di meno.
La celebre copertina dell'album