Carlo Castellaneta
iniziò la stesura di Viaggio col padre a soli venticinque anni, anche se
dovette attenderne altri tre per vederlo pubblicato (1958). Come tutti i
romanzi d’esordio, risente di una certa acerbità, sia nelle intenzioni che
nella struttura narrativa. Per quanto concerne il primo aspetto, è stato lo
stesso autore milanese, ormai adulto, a ironizzare con bonario distacco sul
suo primo romanzo, frutto della “fiducia di potere, ancora, nell’Italia del
1955 affamata di giustizia, cambiare il mondo con un libro”. Quanto alla
struttura, la narrazione si dipana lungo due piani intersecantisi: quello
presente del viaggio in treno e quello passato dei ricordi. Si tratta di una
scelta non propriamente originale e quasi forzata in alcuni punti, ma che riesce
funzionale allo scopo del racconto, conferendogli uniformità di fondo.
La trama può essere
riassunta in poche battute. Un ragazzo intraprende assieme al padre un lungo
viaggio in treno, da Milano a Foggia, per partecipare a un funerale. Tra i due
aleggiano antichi dissapori, risalenti al tempo della guerra. Il loro non è
semplicemente un conflitto generazionale, ma una propaggine privata della guerra
civile che si è combattuta in Italia tra fascisti e partigiani. Il padre, convinto
fascista, ha condotto la famiglia in rovina pur di non tradire i propri ideali.
La moglie e i figli, inizialmente pieni di ammirazione nei suoi confronti, di
pari passo con l’inasprimento del conflitto hanno acquisito una maggiore
consapevolezza degli errori e degli orrori del regime, fino ad appoggiare, sia
pure in modo silente, la causa partigiana. Conclusa la guerra, le tensioni a
lungo covate sono esplose, determinando la disgregazione del nucleo familiare.
A distanza di qualche anno, il figlio coglie l’occasione del viaggio in treno
per conoscere il perché delle scelte del padre, del suo tenace aggrapparsi a ideali e valori sconfitti dalla storia, la sua cieca testardaggine nel non
voler ammettere gli errori compiuti. E solo alla fine, quando il convoglio è
ormai prossimo alla stazione di Foggia, la tensione viene sciolta in un chiarimento
tanto desiderato quanto parziale.
Viaggio col padre è
prima di tutto il resoconto di un dramma familiare, calato nel più vasto
contesto del dramma nazionale della guerra civile. Allo stesso modo, è un
romanzo di formazione individuale e collettiva, perché alla crescita del
sentimento democratico nell’animo del protagonista corrisponde il risveglio di
un’intera nazione. È poi il libro della
Milano operaia, fatta di palazzi rugginosi costruiti ai bordi delle
massicciate, di piccole invidie e storie minime di periferia. Con questo
romanzo Castellaneta inizia a imprimere il marchio di fabbrica della sua
produzione successiva: la descrizione vivida e dolente della Milano popolare, un
microcosmo in evoluzione che in pochi anni passa dalla miseria nera agli agi
del miracolo economico. Figura esemplare di questa voglia di cambiamento è
Ottavio, l’intellettuale comunista poi diventato capo-partigiano, che
contribuisce in maniera determinante alla crescita del protagonista. Il personaggio
di Ottavio sarà poi ripreso da Castellaneta nel successivo romanzo Una lunga
rabbia, facendogli assumere le vesti del pittore Oreste.
Sebbene Viaggio col
padre risenta dei limiti dell’opera prima, rimane comunque una lettura godibile
e finanche avvincente. Echeggia qui e lì una certa enfasi nella volontà di
costruire una storia di redenzione individuale e collettiva, perché audace era
il compito che il giovane autore si era dato: cambiare con un libro le sorti d’Italia
o, quantomeno, tentare una spiegazione degli eventi che seguirono alla caduta
del regime.
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