«La mia opera forma un unico grosso libro come quella di Proust […]. A causa delle obiezioni dei miei primi editori non ho potuto servirmi degli stessi nomi di persona in ogni libro. […] Tutti i miei romanzi, compreso questo, non sono che capitoli dell’intera opera che io chiamo “La leggenda di Duluoz”. Voglio, quando sarò vecchio, riunire tutti i miei libri, reinserirvi il mio Pantheon di nomi uniformi, lasciare il lungo scaffale pieno di volumi, e morire felice.»
Così scriveva Jack Kerouac nel malinconico Big Sur, lasciando a noi posteri una
sorta di testamento, una dichiarazione d’intenti circa il significato più
profondo del suo percorso umano e letterario. Tutti i suoi romanzi hanno una
marcata impronta autobiografica: dal celebre Sulla strada al commovente Visioni
di Gerard, che rievoca la breve esistenza terrena del fratellino, morto in
tenera età. L’insieme dei libri del grande scrittore americano non è altro che
il resoconto di un’immensa commedia umana filtrata attraverso gli occhi di Ti
Jean (“il piccolo Jean” in franco-canadese), ovvero se stesso. Maggie Cassidy (1953) è un importante
capitolo di questo grande racconto americano, perché descrive il delicato
passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Jack Duluoz, alter ego dello
scrittore, è un ragazzo di origini franco-canadesi che vive nella cittadina di
Lowell negli anni che precedono la catastrofe del secondo conflitto mondiale.
La sua vita è scandita dalle semplici incombenze di qualsiasi ragazzo: la
scuola (più marinata che frequentata), le feste, lo sport, le uscite con gli
amici, le cene in famiglia. Jack è diviso tra due ragazze, Pauline e la procace
Maggie; la prima rappresenta l’infatuazione adolescenziale, la seconda il
turbamento della prorompente sensualità. Si tratta dunque di un romanzo di
formazione, che affronta da un angolo visuale privilegiato, perché
autobiografico, la sofferta scoperta della passione e della gelosia.
Il dolore esistenziale e l’inesausta ricerca
di sé, temi che segneranno gran parte della produzione dello scrittore
americano, sono qui solo accennati. La penna traccia scenari consolatori,
tratteggia echi di un periodo felice e spensierato dell’esistenza; predominano
i toni soffusi e la stessa Lowell è perennemente ricoperta da un manto di neve
che attutisce le sensazioni e addormenta il male di vivere. La città natale,
nei ricordi di Duluoz/Kerouac, è un microcosmo perfetto, un accogliente nido da
rimpiangere nell’età adulta; in questo senso Maggie Cassidy non è solo il racconto dei primi moti del cuore, ma
è anche un magistrale ritratto dell’America di provincia.
Non ci sono personaggi negativi: tutti,
familiari, amici e conoscenti, sono ricordati con nostalgico affetto.
Nostalgia, dunque, non scevra di un sottile rimpianto, che emerge nelle ultime
pagine del romanzo. Non a caso, tutto cambia quando Jack Duluoz lascia Lowell
per trasferirsi a New York; la metropoli lo fagocita, lo trasforma, lo rende
forse meno ingenuo ma più disincantato. Il viaggio, tema tanto caro a Kerouac,
non ha la salvifica forza liberatoria di Sulla
strada, ma è la perdita dell’innocenza, la fine dell’infanzia, forse
l’unica età davvero felice.
Per quanto riguarda il linguaggio, valgono
più o meno le stesse considerazioni fatte per I sotterranei, completato nello stesso anno: Kerouac adotta la
famosa prosodia bop, la tecnica di scrittura che cerca di riproporre sulla
carta l’ininterrotto flusso dei pensieri, lo stream of consciousness di joyciana memoria, al ritmo della musica
jazz. Se però ne I sotterranei questa
scelta stilistica raggiunge vette più impervie, in Maggie Cassidy la sperimentazione è contenuta. E anche se a volte
rinuncia alla punteggiatura, regalandoci memorabili pagine con un ritmo
martellante, Kerouac rispetta la struttura narrativa tradizionale. Se amate lo scrittore americano,
questo è un libro da avere, da collocare sul vostro scaffale tra La città e la metropoli e Sulla
strada.
Copertina di un'edizione Oscar Mondadori del 1988
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