Intesa come patologia fisica, oppure quale
stato di prostrazione emotiva, la malattia è un vero e proprio topos della letteratura europea del
Novecento. Non a caso il “malato” è protagonista di tanti celebri romanzi dello
scorso secolo, da La montagna incantata
a La coscienza di Zeno. Si potrebbe
persino azzardare che il malessere sia il tratto distintivo dell’uomo
contemporaneo, perché se è vero che la società del benessere ci ha liberati
dall'ansia del pane, è al contempo indiscutibile che abbia gravato l’Occidente di
un carico di nevrosi prima sconosciute. Forse per questo Márai non rivela i
nomi dei personaggi; li identifica con un’iniziale, come a voler dire che nessuna
vicenda ha una portata soltanto individuale, ma ognuna riguarda la natura
profonda e universale dell’umanità.
Il protagonista del libro è Z., un celebre
pianista e compositore ungherese che si ammala di un oscuro morbo mentre si
trova a Firenze, invitato dal Governo italiano a tenere una serie di concerti. Sono i mesi
convulsi che precedono lo scoppio del secondo conflitto mondiale, ed è il mondo intero
a sembrare malato. In questo senso la vicenda di Z. travalica l’aspetto personale,
per assurgere a simbolo di un’epoca tragica. Z. viene ricoverato in una clinica
d’élite, accudito amorevolmente da due medici e quattro suore infermiere, diversissime
per temperamento eppure complementari. Sono loro, più che i dottori, a
contribuire alla guarigione di Z., con una dedizione che non è solo
professionale, ma si avvicina alla più alta manifestazione dell’essere donna, la
maternità. Il loro amore disinteressato e casto è la forza costruttiva che
bilancia l’impeto distruttivo dell’amore carnale.
Un punto resta avvolto dal mistero: quale sia
la malattia di cui è affetto Z. Márai non lo rivela, perché d'altronde, come
afferma anche il medico che ha in cura il pianista, una parola latina vale
un’altra e non risolve l’enigma. Le interpretazioni possono essere tantissime,
dalla sclerosi amiotrofica alla depressione, passando per la tesi secondo cui
la malattia sarebbe solo una generica metafora del male di vivere. Eppure c’è
un punto del libro che, a mio avviso, ne è la chiave di volta. Sono due righe
in tutto, ma contengono un’inaspettata rivelazione.
«La vita diventa un veleno se non crediamo in essa, quando non è che un mezzo per saziare la vanità, l’ambizione, l’invidia.»
Il male di Z. è dunque la vita stessa. È una
risposta cruda ed estrema, che non lascia scampo, eppure è l’unica verità. La
sua non è una vita qualsiasi, ma un’esistenza straordinaria votata all'abnegazione
e al sacrificio. Abnegazione perché Z. rinuncia a tutto per amore della musica,
da lui considerata la massima espressione dell’animo umano. Sacrificio perché è
tramite la musica che conosce E., donna sposata ad un suo caro amico, che lo
avvince in una passione tanto intensa quanto insoddisfatta. Musica e passione
sono le due entità che prosciugano le forze di Z. giorno dopo giorno, fino a
condurlo alla paralisi. La malattia nasce così dagli irrisolti conflitti, dai
paradossi che soffocano un animo destinato alla grandezza. Z. è celebre e acclamato in tutto il mondo, eppure è solo. Ha talento da vendere e per questo
attira su di sé invidie. Ha dedicato ogni sua energia all'arte, fino ad esserne
sopraffatto. In più, ama una donna che non può ricambiare con il medesimo ardore.
Questo è il male di vivere che giorno dopo giorno si addensa su di lui, come un
veleno inoculato a piccole dosi, fino a diventare letale. Esiste un rimedio?
Forse sì, ma ha il sapore della rinuncia.
«Non so che cosa sia la felicità. Ma se una condizione di assenza di desiderio, di totale appagamento, di coscienza della realtà informata dalla gratitudine e dall'umiltà non assomiglia alla felicità, allora non sono curioso di conoscere tale stato d’animo.»
La sorella è un libro
difficile, a tratti ostico, ma non si può non definirlo grandioso. È un’opera
labirintica, a più livelli, nel senso che la prima lettura non le rende
completamente giustizia, perché è impossibile coglierne subito tutte le
possibili sfumature. In fondo, però, tante parole non servono; basti dire che è
uno dei vertici della letteratura europea del Novecento.
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