Ho impiegato vent'anni esatti per finire Malombra. Lo acquistai a quattordici anni, grazie a un buono libri
di 50.000 lire offerto dalla Regione Lazio ai vincitori di un concorso per
studenti. All'epoca ero fissato con la letteratura gotica e fantastica;
basti dire che lessi persino l'indigesto mattone di Horace Walpole, Il castello di Otranto. Non potevo
dunque lasciarmi sfuggire quello che è considerato il capostipite del genere in
lingua italiana. Com'era prevedibile, la prima volta mollai la lettura dopo
cinquanta faticosissime pagine. Qualche anno dopo mi cimentai nuovamente,
arrivando a concludere la prima parte. Successivamente l'ho ripreso in mano
varie volte, affrontato con le migliori intenzioni senza andare oltre i primi
capitoli, infine abbandonato.
L'ultima è stata la volta buona. Alla base della decisione di arrivare
fino in fondo c'era la stessa, immutata fascinazione di un tempo. Sarà che le
storie dal sapore gotico hanno un'attrattiva particolare, sarà che,
parafrasando Fiumani, “le cose in cui
credo sono le stesse da una vita”, fatto sta che non ho resistito
all'oscuro richiamo dell'avito palazzo signorile sulle sponde di un lago
selvaggio, in cui si consuma una vicenda dai tratti occulti. Le aspettative
sono state in parte disattese, perché Malombra
non è una novella gotica o fantastica, ma un romanzo di costume tipicamente
ottocentesco, che affronta incidentalmente tematiche spirituali e vagamente
esoteriche.
La trama è nota,
trattandosi di un classico. Corrado Silla, scrittore negletto da pubblico e
critica, è invitato da un misterioso gentiluomo in un'antica dimora sulle
sponde di un lago lombardo, per una non meglio precisata collaborazione. Nel
palazzo del conte Cesare d'Ormengo, il giovane Corrado ha modo di conoscere
meglio se stesso e il passato della propria famiglia, ma soprattutto
s'invaghisce della nipote del conte, Marina di Malombra. Quest'ultima è il
prototipo della femme fatale: bella,
aristocratica, sdegnosa, altezzosa, dotata di un fascino perverso di fronte al
quale si può solo soccombere. Marina è convinta di essere la reincarnazione
della sfortunata ava Cecilia, rinchiusa nel palazzo dal crudele marito, infine
impazzita e morta in circostanze misteriose. È questo l'elemento gotico che ha
spinto molti critici a inquadrare il romanzo in un genere con cui, in verità, ha pochissimi punti di contatto. Il buio, la tempesta,
l'intima sofferenza degli spiriti burrascosi, sono più che altro tematiche
tardo-romantiche. È la cornice in cui si svolge la
vicenda ad avere tratti tipici di certa letteratura gotica, ma l'ambizione di
Fogazzaro era molto più alta dello scrivere un racconto fantastico.
Lo ribadisco, Malombra è principalmente un romanzo di
costume, e non a caso parte significativa della storia si svolge nei salotti
mondani di Milano. Fogazzaro ci regala uno spaccato fedele della nuova Italia post-unitaria;
tutte le classi sociali sono rappresentate, dai miseri contadini all'aristocrazia,
passando per la nascente borghesia industriale, che sarà destinata a cambiare
il volto del Paese.
A mio avviso, punti di
forza sono l'ambientazione e l'arguta caratterizzazione dei personaggi. Quanto
a questi ultimi, Fogazzaro ne esaspera le caratteristiche, ne amplifica vizi e
virtù, correndo il rischio di operare una classificazione manichea. Corrado
Silla è allora l'emblema dello scrittore inetto, del romantico dell'ultima ora
dilaniato da tormenti estetici, religiosi e morali. Steinegge, che pure è il
personaggio che ho amato di più, perde forza quando viene fulminato sulla via
di Damasco; la sua repentina conversione, per quanto provocata da un evento
inaspettato e gioioso, ha il sapore di una rampogna moralizzante. E ancora, la
contessa Fosca e il figliolo Nepo sono volutamente ridicoli e macchiettistici.
Paradossalmente, il personaggio più credibile è Marina di Malombra, nonostante
i parossismi e le ossessioni di reincarnazione.
Quanto al linguaggio,
è letterario senza essere stucchevole, elegante ma di facile assimilazione.
L'autore gioca con i registri: si passa dal comico (la servitù) al patetico (la
contessa Fosca), dal drammatico (Silla) al misterioso (Marina). Prevalgono i
dialoghi, ma sovente il narratore si dilunga in minuziose descrizioni del
paesaggio e in analitiche dissertazioni sullo stato d'animo dei protagonisti;
eppure, per quanto si tratti di un romanzo ottocentesco, questi
intermezzi “aulici” non rallentano il ritmo della vicenda, che corre a precipizio
verso il drammatico finale.
Si tratta di un
classico, su cui sono stati versati fiumi d'inchiostro. Fermo restando che la
mia recensione non può aggiungere nulla a quanto è già stato detto, ne
consiglio la lettura, se non altro per la forte influenza simbolica che il libro
ha avuto su generazioni di lettori. Per chi volesse, su YouTube è disponibile
lo splendido lungometraggio del 1942 di Mario Soldati, che riproduce fedelmente
le ambientazioni e gli umori del romanzo, grazie soprattutto a una superba
fotografia.
Copertina di un'edizione Garzanti (2000)
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