In
epoca borbonica il Cilento era definito “terra dei tristi”. La ragione di un
tale appellativo risiedeva nella leggendaria e pervicace opposizione dei suoi
abitanti a qualsiasi forma di potere costituito; tristi, dunque, nel senso di
sciagurati, torbidi, malvagi, ingrati. In effetti i cilentani nei secoli si
sono ribellati più volte, nella vana speranza di migliorare le proprie
condizioni di vita liberandosi dal giogo del sovrano di turno, dei galantuomini
schiavisti, di un clero bigotto e prono ai voleri dei potenti. Era così
naturale che il vento delle nuove idee liberali e carbonare soffiasse anche in
questa landa remota, traducendosi in un florilegio di sette segrete che si
ispiravano ai principi egualitari della Rivoluzione francese. Dopo la Restaurazione
del 1815, il Cilento si ribellò tre volte: nel 1820-21, nel 1828 e nel 1848. I
libri di storia colpevolmente ignorano i moti del Cilento, dedicandovi al
massimo qualche cenno distratto. Ma vi è di più: tali eventi sono praticamente
sconosciuti al grande pubblico, spesso persino a livello locale. E se tutti sanno
associare un pensiero patriottico all'udire i nomi di Pisacane o dei fratelli
Bandiera, pochissimi hanno sentito parlare di Costabile Carducci o di
Antonio Maria De Luca. Eppure non si tratta di vicende secondarie: le rivolte
cilentane ebbero vasta eco ai tempi, anche all'estero, oltre a costituire un
tassello importante della vicenda risorgimentale.
L'editore
Galzerano di Casalvelino Scalo, che tempo fa ho ospitato su questo blog con
un'intervista, ha fatto luce su queste vicende, dedicando ai moti del
1828 diverse pubblicazioni. La rivolta dei tristi – I
moti cilentani del 1828, di Benedetto D'Angelo, è un breve saggio che
persegue uno scopo divulgativo, sebbene l'Autore dichiari che l'opera non ha
pretese di esaustività. Si tratta di un testo agevole e godibile, che
tratteggia con sufficiente precisione e approfondimento l'insurrezione del
1828, soffermandosi altresì sul contesto storico, sulle cause, le conseguenze e
l'eredità lasciata dai moti. D'Angelo fa pregevole opera di storico, prendendo
per mano il lettore e guidandolo con pochi ma precisi cenni nell'Europa post
Restaurazione. La sua attenzione è ovviamente incentrata sul Cilento, ma non
dimentica di ricostruire il contesto in cui la rivolta nacque, contesto che
supera i ristretti confini dell'area geografica di riferimento. Il lettore
rimarrà stupito proprio da questo aspetto, che l'Autore rimarca: i moti
cilentani maturarono in un magma ideologico (il pensiero liberale), settario
(la Carboneria) e diplomatico (la Restaurazione) di grande fermento a livello
europeo, in cui il Cilento si collocò come una sorta di laboratorio ove preparare le grandi rivoluzioni del domani.
Il
saggio si sofferma su tutte le fasi della rivolta, dalla preparazione agli
esiti. Grande attenzione viene dedicata alla feroce repressione
e alle vicende giudiziarie, con
una puntuale ricostruzione dei processi agli insorti. E proprio alle figure dei
rivoltosi sono dedicate le pagine più intense del saggio, con precisi
ritratti dei controversi fratelli Capozzoli, del canonico De Luca, dell'avvocato Teodosio De Dominicis, di Antonio Galotti e di altri personaggi minori.
Meno
convincente è, a mio avviso, il deciso punto di vista antiborbonico – con tanto di giudizi tranchant – che emerge dalle
pagine. Sia chiaro: bene fa
l'Autore a ricordare la spietatezza del maresciallo Del Carretto nella
repressione della rivolta, puntando giustamente l'indice contro il regime illiberale dei Borbone. Tuttavia, sarebbe stato opportuno precisare che le medesime
raccapriccianti scene del 1828 si sarebbero ripetute trent'anni dopo, sotto i Savoia conquistatori del Sud. Le teste mozzate esposte in gabbie come monito, le fucilazioni dopo processi
sommari, l'incendio e la razzia di interi villaggi, la negazione di ogni
diritto costituzionale non sono stati, purtroppo, esclusivo appannaggio dei
Borbone. Quelli che sono venuti dopo, calpestando proprio la memoria di quanti
nel 1828 e nel 1848 si erano battuti per la libertà, forse hanno fatto pure
peggio, perché nascosti dietro la maschera dei liberatori. Ritengo che il
saggio, per dovere di completezza, avrebbe dovuto porre l'accento anche su
questo aspetto, per quanto possa essere controverso. Difatti, la parola
d'ordine dei rivoluzionari del 1828 non era “Italia”, quanto piuttosto
“libertà”, al punto che nel famoso Proclama di Palinuro gli insorti si
rivolgevano direttamente al Re, chiedendogli di concedere la Costituzione. A mio
modesto avviso, il canonico De Luca, Galotti, De Dominicis e gli altri
rivoltosi non possono essere definiti patrioti, quanto piuttosto “martiri della
libertà”, perché la loro missione non era fare l'unità
del Paese.
Far
emergere la storia locale è sempre un bene; farlo in un territorio che spesso
tende a dimenticare l'eroismo dei propri antenati è addirittura opera meritoria.
Consiglio caldamente la lettura di questo saggio, non solo ai cultori della
storia locale, ma più in generale a quanti amano
approfondire le vicende italiane dell'Ottocento. Tenendo presente che solo chi sa scavare nelle radici è in grado di comprendere
meglio l'età contemporanea.
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