La storia del Mezzogiorno è un succedersi di lotte
sociali, ribellioni, rivoluzioni riuscite o abortite. Il vento del cambiamento
ha sempre soffiato sul Meridione, nonostante la sua posizione periferica
rispetto ai centri europei del pensiero liberale, Londra e Parigi su tutti. Si
pensi al periodo murattiano, oppure alle cicliche rivolte antiborboniche che
infiammarono il Regno negli anni 1820-21, 1848, 1857. Com'è noto,
l'unificazione nazionale non placò il fuoco della ribellione, che anzi si
rinvigorì nei confronti del nuovo nemico, identificato nei Savoia invasori. La
letteratura meridionale del Novecento ha sempre guardato con interesse a questo
fermento, tentandone un'analisi dal punto di vista politico, economico e
sociologico. E se pure ci sono autori che hanno approfondito l'incidenza del
pensiero liberale e carbonaro nel Meridione, il tema portante è da sempre la
dicotomia tra baroni e braccianti, declinata nelle sue varie forme:
galantuomini e cafoni, civili e zappaterra, giamberghe e zampitti, signori e
servitori. Tanti sono i romanzi che hanno affrontato la tematica; tra i
più importanti, Le terre del Sacramento e Signora Ava di Francesco Jovine, L'eredità
della priora di Carlo Alianello, ma anche Fontamara di Ignazio Silone.
Il melfitano Raffaele Nigro nel 1987 aggiunse
un altro tassello alla già lunga e nobile lista. Il suo tentativo sembrava
fuori tempo massimo, in un'epoca che aveva esaurito la spinta della prima
ondata meridionalistica ed era ancora molto lontana dal revisionismo
storiografico dei giorni nostri. E invece I fuochi del Basento incontrò il
favore di pubblico e critica, con la vittoria dei premi Campiello e Napoli. La
ragione del successo è presto detta: è scritto bene ed è appassionante e
labirintico come tutte le grandi storie. É un romanzo corale, una vera e
propria saga familiare che racconta le vicende di quattro generazioni della
famiglia Nigro, dalla seconda metà del XVIII secolo fino al 1863. I personaggi
attraversano da protagonisti uno dei periodi più travagliati della storia del
Mezzogiorno, che vede avvicendarsi sul trono di Napoli i Borbone, i Francesi
con Re Murat, poi di nuovo i Borbone con la Restaurazione e infine i Savoia. Non
ci sono però soltanto le grandi lotte per il potere: in basso c'è tutto un
mondo contadino in fermento, che segue con interesse e partecipazione le
vicende politiche, nella speranza che le rivoluzioni conducano finalmente alla
tanto desiderata spartizione delle terre.
I fuochi del Basento racconta proprio il sogno
di una repubblica contadina, un governo equo retto dalle migliori menti e dalle
braccia più robuste, l'utopia di una società in cui a comandare siano gli
intellettuali più illuminati assieme a chi lavora la terra. Questo è il sogno
di Francesco Nigro, protagonista del romanzo, che da bracciante si fa
capobrigante, coltivando il sogno di imparare a leggere e scrivere per
affrancarsi dalla schiavitù. Sulla stessa lunghezza d'onda si muovono altri
personaggi, che infiammano le terre di Puglia e Basilicata per affermare la
propria libertà. Sull'altro versante della barricata ci sono gli aristocratici,
reazionari che vogliono mantenere lo status quo e provano orrore per un governo
fatto di "cafoni e cacacarte". Raffaele Nigro ha ricostruito con dovizia
certosina un territorio e un'epoca spesso ignorati dai libri di storia; è un romanzo
denso e corposo, che "pesa" più delle duecentocinquanta pagine che lo
compongono. C'è dentro tutto un mondo, una mole straordinaria di personaggi e
vicende, che lo rendono un classico contemporaneo. Per quanto sia arrivato tardi
rispetto ad altre pietre miliari della letteratura meridionale (e
meridionalistica), è riuscito comunque a ritagliarsi un posto d'onore. Altre opere
forse hanno raccontato la rivoluzione con maggiore approfondimento politico;
penso a Il resto di niente di Striano o a Noi credevamo della Banti. Tuttavia, I
fuochi del Basento può vantare una narrazione di più ampio respiro, che
abbraccia oltre un secolo di storia locale ed europea.
Per quanto riguarda il linguaggio, Nigro optò
per l'uso dell'italiano in luogo del dialetto. Una scelta non facile, che
tuttavia si è rivelata felice. Il rischio di una tale scelta è quello di
sacrificare la credibilità dei personaggi, rendendo innaturale il loro modo di
esprimersi. Invece i braccianti di Nigro parlano una lingua accurata ma
semplice, perfettamente verosimile grazie al sapiente inserimento di
dialettismi e costruzioni lessicali mutuate dal linguaggio informale del ceto
contadino. Un libro che non può mancare in una piccola biblioteca di
letteratura meridionale.
Prima edizione Camunia del 1987
Nessun commento:
Posta un commento
Commenta l'articolo!