Dal 9 febbraio al 26 maggio è possibile visitare a Roma, presso il Palazzo Merulana, la mostra "Antonio Donghi: la magia del silenzio", a cura di Fabio Benzi. Come ho già scritto qualche tempo fa, Palazzo Merulana ha sede nell'omonima via nell'ex Palazzo dell'Ufficio di Igiene, chiuso e pericolante fino a pochi anni fa. Nel 2013 il Comune di Roma, proprietario dell'edificio, ha avviato un project financing per il recupero dell'area; è nato così Palazzo Merulana, oggi sede di un interessante museo di pittura e scultura del Novecento italiano. Lo spazio espositivo è articolato su quattro livelli e ospita stabilmente un centinaio di opere. Il percorso museale si snoda al secondo (il meraviglioso Salone) e al terzo piano (la Galleria), mentre al quarto c'è un'ampia sala utilizzata anche per conferenze. Le opere esposte sono di proprietà dei coniugi Elena e Claudio Cerasi; alla Fondazione a loro intitolata si deve il merito di aver aperto al grande pubblico questa importante collezione privata. La mostra dedicata a Donghi occupa il terzo piano e il biglietto consente di visitare inoltre la collezione permanente e, fino al 3 marzo, un'esposizione dell'artista contemporaneo Vittorio Marella.
Il romano Antonio Donghi (1897-1963) è stato uno dei principali esponenti del cd. Realismo magico, corrente artistica e letteraria che si affermò in Italia fra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Agli inizi della carriera si dedicò perlopiù alla paesaggistica, con opere di gusto tradizionale in stile post-impressionista. Nel 1923 la svolta. Donghi entrò a far parte del gruppo di artisti gravitanti intorno alla Galleria Bragaglia, ove erano esposte le avanguardie nazionali e straniere; qui ammirò le opere di Ubaldo Oppi, che lo impressionarono profondamente. Oppi è considerato uno dei fondatori del citato Realismo magico, una corrente che inseriva elementi magici o metafisici in una cornice apparentemente realistica. Per capire di cosa si tratta, vi invito a leggere il romanzo La pietra lunare di Tommaso Landolfi, in grado di spiegare meglio di ogni manifesto questo particolare movimento. Lo stile di Donghi si affinò nei due decenni successivi, rendendolo un artista noto e riconoscibile. Caratteristica è la rappresentazione di figure semplici, uomini e donne ripresi in gesti quotidiani, raffigurati in pose fisse, dallo sguardo profondissimo, realistici al massimo eppure circondati da un'aura sovrannaturale. Ha scritto in proposito il poeta lucano Leonardo Sinisgalli:
«Bisogna veramente nominare il paradiso a proposito di Donghi, e domandarsi di che cosa sono fatti gli angeli. […] Questi fiori che sembrano dipinti sui piatti, questi personaggi a coppie, così limpidi a furia di star fermi, così totalmente privi di ombra, hanno una fissità medianica. Sono spiriti, ecco, e son fatti della stessa sostanza dei fiori. Anche gli angeli devono essere fatti della stessa sostanza.»
Le opere in mostra sono più di trenta, in prestito dalla Galleria Comunale d'Arte Moderna di Roma, dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, dalle collezioni della Banca d'Italia e UniCredit, nonché facenti parte della Fondazione Elena e Claudio Cerasi. Di fatto viene ricostruito l'intero percorso del pittore romano: i paesaggi e le nature morte delle origini, arrivando ai ritratti di figure in interni ed esterni, colti nella dimensione intima della camera da letto, della toeletta o del camerino. Non a caso molte opere rappresentano circensi, attori e saltimbanchi, raffigurati non durante l'esibizione ma nelle pause prima o dopo lo spettacolo. Il teatro, il cinema e il circo ebbero infatti una profonda influenza su Donghi.
Sebbene i paesaggi rientrino tra le opere "minori" dell'artista, quelli esposti sono molto suggestivi. Non sono un critico d'arte, ma ho notato che la medesima fissità che caratterizza i ritratti è presente anche nei paesaggi. Sono luoghi senza tempo, immoti, bloccati in un eterno presente. Si prenda come esempio il Castello di Arsoli: tutto è apparentemente fermo, ma il cancello di ferro aperto sul fondo induce nell'osservatore una sottile inquietudine, come se da un momento all'altro dovesse irrompere sulla scena un personaggio inquietante o un evento inatteso.
Castello di Arsoli, 1946
Via del Lavatore, 1924
Paesaggio toscano (Monte Amiata), 1934
Fruttiera su un tavolo, 1935
I ritratti sono invece i grandi capolavori di Donghi. Come riportato nelle note che accompagnano la visita, Donghi «ha una capacità straordinaria di assorbire i testi figurativi dell'arte antica, dal Trecento al Seicento, celandone accuratamente i riferimenti in soggetti semplici e popolari». Sono personaggi senza tempo, moderni per angoscia esistenziale e un sottile male di vivere che traspare dallo sguardo, e al tempo stesso antichi come divinità, di cui hanno anche la posa ieratica. Osservandoli, viene da chiedersi cosa si nasconda dietro il loro sguardo interrogativo: indifferenza, paura, angoscia, disincanto o semplicemente resa alle grandi domande che attanagliano l'uomo. I personaggi di Donghi cercano una risposta ai dubbi che affollano la mente, oppure semplicemente accettano passivamente gioie e dolori dell'esistenza? Questa la domanda che mi sono posto. D'altronde, sembra emergere un senso di totale incomunicabilità; anche laddove le figure sono in gruppo – come ne La gita in barca o in Caccia alle allodole –, non c'è dialogo tra loro, non si toccano, non si guardano né parlano. Ciascuna è immersa nei propri casi ed è disinteressata ai pensieri e ai sentimenti degli altri.
Tra le tante opere, mi ha colpito particolarmente Il giocoliere. In una stanza dai colori tenui, abbellita soltanto da una tenda e da un modesto vaso di fiori su un treppiede, un giocoliere prova il suo spettacolo. Vestito con un gilet ocra e pantaloni di velluto viola, è in grado di tenere un cilindro in equilibrio sul sigaro. Lo sguardo è fisso sul cappello, i piedi ben piantati in terra, una mano sul fianco e l'altra in avanti, pronta a prendere il cilindro qualora dovesse cadere. Il quadro è così realistico che lo spettatore non può far altro che rimanere in silenzio, rapito dall'abilità del giocoliere e timoroso che il cappello possa cadere.
Le fotografie rendono l'idea della mostra più di qualsiasi commento, per cui non aggiungo altro. Mi preme tuttavia fare un piccolo appunto. La mostra è ospitata in tre sale abbastanza anguste, sebbene Palazzo Merulana disponga di spazi più ampi e arieggiati, come i saloni al secondo e quarto piano. Dato il notevole afflusso di pubblico, specialmente nei fine-settimana, forse sarebbe stato opportuno collocarla nelle sale più grandi.