23 agosto 2024

"Notizie da un'isoletta" di Bill Bryson: la Gran Bretagna che non ti aspetti

Bill Bryson non è solo un giornalista e uno scrittore di reportage di viaggio, ma è un vero e proprio compagno di avventure. Col suo stile ironico e l'innata curiosità, unitamente alla capacità di far rivivere sulla carta persone e luoghi, si propone al lettore quasi come un vecchio amico che snocciola racconti di viaggio davanti a un focolare e una tazza di caffè bollente. Avevo già avuto modo di apprezzare queste doti in America perduta e soprattutto nel meraviglioso Una passeggiata nei boschi, dettagliato resoconto di una lunghissima escursione sul celebre Sentiero degli Appalachi.
Notizie da un'isoletta (prima edizione, 1995) racconta il viaggio di otto settimane da lui intrapreso in Gran Bretagna a metà degli anni Novanta, partendo dal sud e arrivando fino in Scozia, passando per l'affascinante Galles. Bryson non era tuttavia un turista o un escursionista improvvisato, avendo vissuto e lavorato in Inghilterra per circa vent'anni. Prima di lasciare definitivamente il Paese adottivo per fare ritorno negli Stati Uniti, decise dunque di intraprendere questo viaggio e di scrivere un libro sull'esperienza. L'isoletta del titolo è ovviamente la Gran Bretagna ed è tale agli occhi di un americano, abituato agli sterminati spazi della madrepatria. La parola non ha tuttavia un significato sminuente; anzi, lo scrittore mette proprio in evidenza quante meraviglie storiche, naturalistiche e artistiche siano presenti in un territorio relativamente piccolo. Treni, alberghi, strade, sentieri e viali cittadini sono lo sfondo delle avventure di Bryson, che si diffonde ampiamente su particolari storici e paesaggistici, non disdegnando dissertazioni colte e strali polemici, sempre tuttavia mediati dall'ironia. Predilige i mezzi pubblici e le proprie gambe, per cui ne risulta un viaggio lento, a misura d'uomo, ricco di deviazioni e soste anche in luoghi meno noti.
Partendo dal porto di Dover e arrivando a John O'Groats, località che segna il punto più settentrionale della Scozia, Bryson descrive i luoghi e le persone, elencando curiosità e aneddoti, talvolta in maniera fin troppo troppo dettagliata. Ne viene fuori un ritratto insolito e pittoresco della Gran Bretagna e del modo di vivere dei suoi abitanti, così diversi dagli stereotipi cui siamo abituati. Attraversando sia le zone rurali che i medi e grandi centri urbani, il viaggio di Bryson desta curiosità nel lettore, proponendo un originale quadro d'insieme dell'isola. Scopriamo così una terra che non ha nulla da invidiare ad altri luoghi, spesso superficialmente giudicati "più belli".
A mio avviso le parti più gustose sono quelle in cui l'autore racconta le sue disavventure durante i tragitti sui treni della British Railways, nonché in alcuni alberghi e pensioni dove ha pernottato. Tra cronici ritardi, coincidenze mancate, gestori inospitali, condizioni igieniche precarie e pasti disastrosi, queste pagine strappano più di un sorriso e, soprattutto, trasmettono l'impressione di cui ho parlato prima, quella di ascoltare le irresistibili peripezie di un vecchio amico.
Lo sguardo di Bryson, in questo come in altri suoi libri, è al contempo impegnato e disincantato. Impegnato perché lo statunitense non esita a lanciare le sue critiche contro le brutture della modernità e i mostri architettonici che avrebbero, a suo avviso, tradito lo spirito più profondo dell'isola. Disincantato perché il giornalista americano ha il pregio di non seguire un itinerario tracciato, ma di affidarsi all'intuito e alla sensazione del momento, scoprendo luoghi poco noti al grande pubblico, rivelando con estrema naturalezza e senza pregiudizi lo spirito più profondo di un Paese e della sua gente.
Il libro è piacevole, sebbene in alcuni punti l'autore si dilunghi su particolari e aneddoti di storia locale non sempre interessanti, almeno per il lettore italiano. Per queste ragioni, per chi avesse voglia di leggere qualcosa di Bryson, consiglio di cominciare con il citato Una passeggiata nei boschi, più divertente e godibile.

10 agosto 2024

"La campana di vetro" di Sylvia Plath: vivere in una gabbia

Ho sentito parlare di Sylvia Plath per la prima volta al liceo, merito di un'antologia di letteratura in lingua inglese che dava spazio anche alle voci più recenti e agli autori meno noti. E così, pur senza disdegnare Coleridge e Wordsworth, rimasi colpito dalla vicenda umana della poetessa statunitense, morta suicida nel 1963, a soli trentuno anni. E ancora ricordo di essermi di nuovo imbattuto in lei qualche anno dopo in un articolo su Antonia Pozzi, poetessa nostrana la cui vita mostra alcune sorprendenti similitudini con quella della Plath. È sull'onda di questi ricordi che di recente ho letto La campana di vetro, l'unico romanzo dell'americana, pubblicato un mese prima della morte.
La storia è palesemente autobiografica e la protagonista Esther Greenwood non è altri che la Plath, sebbene alcuni dettagli siano stati volutamente cambiati. All'inizio del romanzo Esther è appena giunta in un albergo che ospita solo giovani donne, tutte vincitrici di un concorso indetto da una rivista di moda. Il premio consiste appunto in un lungo soggiorno a New York, tra sfilate, incontri mondani e un tirocinio retribuito presso la redazione della rivista. È un mondo di cui la protagonista percepisce la vacuità, sebbene ne sia inspiegabilmente attratta; ella tenta di farne parte, ma al tempo stesso non riesce a prenderne le misure. Gli eventi la soverchiano, l'interazione con gli altri è ostica, al punto che finisce per essere considerata una sorta di outsider, troppo sensibile per farsi ammaliare dalle sirene dell'apparenza e al contempo non sufficientemente spregiudicata per diventare una protagonista di quel mondo. L'inquietudine la conduce così a una profonda depressione, con il successivo ricovero in una clinica psichiatrica dove subisce persino la violenza dell'elettroshock.
Il disagio psichico e l'oppressione della società sono i due grandi temi di questo romanzo. Per usare un'espressione che fu coniata proprio negli anni Sessanta dal sociologo Goffmann, potremmo parlare di "istituzioni totali". È tale la clinica in cui Esther è ricoverata, lo è l'albergo di New York e persino la sua famiglia. Esther vive in un contesto in cui tutto è già deciso per lei e non c'è possibilità di fuga, perché è come se ci fosse una sovrastruttura che si fa carico di tutti i suoi bisogni, senza però interrogarsi per davvero su quali siano i desideri della ragazza. La famiglia è la prima di queste istituzioni totali, "un campo di concentramento", secondo le parole di un celebre film di Ken Loach. La madre di Esther crede di conoscere la figlia, ma in realtà è un'illusione: il mondo interiore della ragazza è così complesso e ricco di sfumature che la madre non può coglierne che la superficie. Alla stessa maniera, anzi in modo ancora più drammatico, si colloca la clinica psichiatrica: un luogo gelido e solo all'apparenza ospitale, dove vige uno spietato regime fondato sulla logica del premio e della punizione. Si può avanzare e quindi essere trasferiti in un reparto che garantisce minori restrizioni, oppure essere degradati a un livello inferiore e venire puniti con l'elettroshock. È qui che Esther, dietro la caritatevole facciata della cura, subisce una completa destrutturazione della propria personalità.
Cos'è dunque la campana di vetro? I critici ne hanno dato diverse interpretazioni: chi ritiene sia la malattia psichica, chi la identifica con la clinica o con la famiglia come istituzione borghese. Forse non esiste una risposta univoca, forse la campana di vetro è genericamente il contesto in cui vive la protagonista, fatto di regole che non si possono trasgredire, di aspettative che non possono essere disattese, di rituali (come quelli sessuali) cui non è consentito non sottoporsi. Lo sforzo della protagonista, ma sarebbe meglio dire di Sylvia Plath, è stato quello di cercare di rompere la campana di vetro per respirare un'aria nuova, quella della libertà e di una nuova consapevolezza di sé, fuori dalle imposizioni del Sistema.
La voce di Esther ci accompagna in questo viaggio, a volte disincantata e ingenua, a volte colma di dolore e consapevolezza. La Plath ce la restituisce in tutte le sue sfumature, grazie a una scrittura introspettiva che lascia trasparire ogni emozione. Superfluo sottolineare che si tratta di un romanzo molto diverso da quello che offre la letteratura contemporanea; eppure i temi trattati, in primis l'alienazione e l'isolamento, sono quanto mai attuali.
Edizione Oscar Mondadori di qualche anno fa