Ci sono dischi che suonano così familiari che già al primo ascolto sembra di conoscerli da una vita. Di solito sono quegli album non troppo impegnativi che ricordano un'adolescenza sofferta, divisa tra gli abortiti sogni di sovversione e il comodo rifugio del conformismo. Sono dischi che profumano delle estati degli anni Novanta, forse le ultime vissute nell'anestesia di un apparente benessere. Questo è l'effetto che mi ha fatto No Pocky for Kitty (1991), secondo LP degli americani Superchunk, comprato di recente sebbene risalga a più di sei lustri fa. Di loro avevo sentito qualcosa nell'epoca d'oro di MTV e Videomusic, ma non avevo mai approfondito e il ricordo era via via sbiadito. Avendoli persi di vista, ero convinto fossero scomparsi e invece, vagando sulla rete, ho scoperto che sono vivi e vegeti e non hanno perso né smalto né energia.
No pocky for Kitty è indubbiamente figlio della sua epoca, eppure la straordinaria energia liberata in poco più di trenta minuti lo rende tuttora validissimo, a modo suo un piccolo gioiello di culto. Fu registrato in soli tre giorni sotto la sapiente guida del produttore Steve Albini; la formazione comprendeva il cantante e chitarrista Mac McCaughan, il secondo chitarrista Jim Wilbur, la bassista Laura Ballance e l'energico batterista Chuck Garrison.
Dodici tracce di puro punk rock, un impenetrabile muro chitarristico tuttavia mediato da uno spiccato gusto per la melodia. Si potrebbe anche parlare genericamente di rock alternativo, eppure ritengo che il concetto di punk revival sia più azzeccato ed esaustivo. Il tutto sparato a mille con una furia incontenibile, o sarebbe meglio parlare di un'urgenza espressiva, una rabbia giovane che li accomuna ad altre band di culto come Minutemen, Dinosaur Jr. o Fugazi.
Il trittico iniziale lascia senza fiato: Skip steps 1 & 3 è una bella botta d'energia, ma il livello si alza con gli intrecci delle due chitarre di Seed toss e soprattutto con il furore primitivo di Cast iron, che si può ammirare anche in una recente versione live presente su YouTube. È questa la migliore traccia del disco, l'inno di una gioventù dal temperamento sognante, ribelle e incompresa.
«Don't get uppity with me,I see things that you never see,I've been seeing them for years,let me whisper in your ear.I'll tell you from my front porch,I'll tell you from my cast iron chair,I'll tell you about my visitors,I only wish you were there, well.»
Da segnalare anche Punch me harder, l'iconica Sprung a leak e l'intensa 30 Xtra, tutte sparate a volumi altissimi, con la voce adolescente di Mac che a fatica si fa strada nell'impenetrabile muro di suono. Le altre tracce sono trascurabili, sebbene di fatto l'album non conosca cali di tensione, tra bordate di chitarra e una sezione ritmica che non perde un colpo. Pur non essendo canzoni che brillano per originalità, nondimeno offrono un esaustivo spaccato di quella scena americana indipendente che nei primi anni Novanta ha gettato le basi di un punk revival con significativi riscontri commerciali e di critica.
Mac McCaughan e Jim Wilbur hanno raccontato alcuni aneddoti curiosi sulla realizzazione del disco. Stavano ancora scrivendone i pezzi quando intrapresero il loro primo tour nazionale, a zonzo per gli Stati Uniti sopra un vecchio furgone. L'accordo con la casa discografica prevedeva che avrebbero registrato i brani una volta tornati a Chicago. I soldi però erano pochi, così come il tempo a disposizione per avvalersi di un mostro sacro come Albini. Fu così che l'album fu registrato e mixato in sole tre notti alla Chicago Recording Company. Ha ricordato in proposito Mac: «lavorammo per tre notti dalle sei di sera alle sei di mattina per ottenere una tariffa più vantaggiosa, uscendo dallo studio di tanto in tanto per comprare biscotti e birra di radice per Mr. Albini». Conferma tutto l'altro chitarrista Jim Wilbur che, ammalatosi di un'infezione bronchiale nel corso del tour, si presentò a Chicago in condizioni fisiche precarie. Riguardo ai tempi strettissimi per l'incisione, ha rivelato che «è difficile crederlo oggi, ma ai tempi non sembrava poi una cosa da pazzi fare le cose in quella maniera». La registrazione non perfetta conferma quanto narrato dai due, ma non è necessariamente un difetto in un'opera punk. Anzi, il disco è uscito ruvido al punto giusto, d'impatto, sincero e grezzo com'è da sempre la rabbia giovanile.
In definitiva, No Pocky for Kitty è un album poco noto che tuttavia andrebbe recuperato, anche (ma non solo) per l'inevitabile "effetto nostalgia" su quanti sono nati a cavallo tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli Ottanta. Dentro potranno trovarvi il ritmo della loro adolescenza, oppure quei suoni che già da bambini ne hanno orientato i gusti futuri.