31 luglio 2024

La rabbia giovane dei Superchunk

Ci sono dischi che suonano così familiari che già al primo ascolto sembra di conoscerli da una vita. Di solito sono quegli album non troppo impegnativi che ricordano un'adolescenza sofferta, divisa tra gli abortiti sogni di sovversione e il comodo rifugio del conformismo. Sono dischi che profumano delle estati degli anni Novanta, forse le ultime vissute nell'anestesia di un apparente benessere. Questo è l'effetto che mi ha fatto No Pocky for Kitty (1991), secondo LP degli americani Superchunk, comprato di recente sebbene risalga a più di sei lustri fa. Di loro avevo sentito qualcosa nell'epoca d'oro di MTV e Videomusic, ma non avevo mai approfondito e il ricordo era via via sbiadito. Avendoli persi di vista, ero convinto fossero scomparsi e invece, vagando sulla rete, ho scoperto che sono vivi e vegeti e non hanno perso né smalto né energia.
No pocky for Kitty è indubbiamente figlio della sua epoca, eppure la straordinaria energia liberata in poco più di trenta minuti lo rende tuttora validissimo, a modo suo un piccolo gioiello di culto. Fu registrato in soli tre giorni sotto la sapiente guida del produttore Steve Albini; la formazione comprendeva il cantante e chitarrista Mac McCaughan, il secondo chitarrista Jim Wilbur, la bassista Laura Ballance e l'energico batterista Chuck Garrison.
Dodici tracce di puro punk rock, un impenetrabile muro chitarristico tuttavia mediato da uno spiccato gusto per la melodia. Si potrebbe anche parlare genericamente di rock alternativo, eppure ritengo che il concetto di punk revival sia più azzeccato ed esaustivo. Il tutto sparato a mille con una furia incontenibile, o sarebbe meglio parlare di un'urgenza espressiva, una rabbia giovane che li accomuna ad altre band di culto come Minutemen, Dinosaur Jr. o Fugazi.
Il trittico iniziale lascia senza fiato: Skip steps 1 & 3 è una bella botta d'energia, ma il livello si alza con gli intrecci delle due chitarre di Seed toss e soprattutto con il furore primitivo di Cast iron, che si può ammirare anche in una recente versione live presente su YouTube. È questa la migliore traccia del disco, l'inno di una gioventù dal temperamento sognante, ribelle e incompresa.
«Don't get uppity with me,
I see things that you never see,
I've been seeing them for years,
let me whisper in your ear.
I'll tell you from my front porch,
I'll tell you from my cast iron chair,
I'll tell you about my visitors,
I only wish you were there, well.»
Da segnalare anche Punch me harder, l'iconica Sprung a leak e l'intensa 30 Xtra, tutte sparate a volumi altissimi, con la voce adolescente di Mac che a fatica si fa strada nell'impenetrabile muro di suono. Le altre tracce sono trascurabili, sebbene di fatto l'album non conosca cali di tensione, tra bordate di chitarra e una sezione ritmica che non perde un colpo. Pur non essendo canzoni che brillano per originalità, nondimeno offrono un esaustivo spaccato di quella scena americana indipendente che nei primi anni Novanta ha gettato le basi di un punk revival con significativi riscontri commerciali e di critica.
Mac McCaughan e Jim Wilbur hanno raccontato alcuni aneddoti curiosi sulla realizzazione del disco. Stavano ancora scrivendone i pezzi quando intrapresero il loro primo tour nazionale, a zonzo per gli Stati Uniti sopra un vecchio furgone. L'accordo con la casa discografica prevedeva che avrebbero registrato i brani una volta tornati a Chicago. I soldi però erano pochi, così come il tempo a disposizione per avvalersi di un mostro sacro come Albini. Fu così che l'album fu registrato e mixato in sole tre notti alla Chicago Recording Company. Ha ricordato in proposito Mac: «lavorammo per tre notti dalle sei di sera alle sei di mattina per ottenere una tariffa più vantaggiosa, uscendo dallo studio di tanto in tanto per comprare biscotti e birra di radice per Mr. Albini». Conferma tutto l'altro chitarrista Jim Wilbur che, ammalatosi di un'infezione bronchiale nel corso del tour, si presentò a Chicago in condizioni fisiche precarie. Riguardo ai tempi strettissimi per l'incisione, ha rivelato che «è difficile crederlo oggi, ma ai tempi non sembrava poi una cosa da pazzi fare le cose in quella maniera». La registrazione non perfetta conferma quanto narrato dai due, ma non è necessariamente un difetto in un'opera punk. Anzi, il disco è uscito ruvido al punto giusto, d'impatto, sincero e grezzo com'è da sempre la rabbia giovanile
In definitiva, No Pocky for Kitty è un album poco noto che tuttavia andrebbe recuperato, anche (ma non solo) per l'inevitabile "effetto nostalgia" su quanti sono nati a cavallo tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli Ottanta. Dentro potranno trovarvi il ritmo della loro adolescenza, oppure quei suoni che già da bambini ne hanno orientato i gusti futuri.
La copertina e una foto interna del disco

18 luglio 2024

"Gli ospiti di quel castello" di Ercole Patti: l'enigma della carne

Come ben sa chi ha letto qualche romanzo di Ercole Patti, i due poli geografici della sua narrativa sono Catania e Roma. La prima è descritta come una città molle e indolente, su cui spira un vento che è un dolce veleno, inducendo al sonno e all'abbandono. La seconda, sia pure non troppo diversa per pigrizia e mollezza, diventa un luogo di corruzione specialmente per i giovani siciliani che vi trascorrono un periodo di studio o lavoro lontano dalla famiglia. Roma accende i sensi di questi giovani e consente loro di coltivare quei vizi che non oserebbero manifestare nella terra natale. Così è per Giovannino, principale attore dell'omonimo romanzo del 1954, e così è anche per il protagonista del libro di cui vorrei parlare.
Gli ospiti di quel castello fu pubblicato nel 1974, due anni prima della morte dello scrittore catanese, di cui è una sorta di testamento. È un'opera di agevole lettura, seppure enigmatica e ricca di simbolismi, tanto da collocarsi in una posizione a parte nella narrativa di quegli anni, più interessata a descrivere la società contemporanea e le sue contraddizioni. Patti invece ci riporta indietro di una decina di lustri, a quella metà degli anni Venti in cui il fascismo consolidava il proprio potere. Salvo brevi accenni, per lo più ironici, il racconto non ha tuttavia intenti politici, né di ricostruzione storica. Anzi, il presente e il passato sono talmente intersecati tra loro che si può parlare di una storia senza età.
La vicenda si svolge in una Roma placida e autunnale dove vive il protagonista del racconto, un ventitreenne che si è ivi trasferito dalla natia Sicilia. Intuitivo dunque pensare che si tratti di un alter ego dell'autore. L'esistenza del ragazzo scorre piuttosto monotona, se non fosse per le fugaci avventure amorose con cameriere e domestiche delle pensioni popolari in cui abita. Un giorno però, nei pressi di Piazza San Silvestro, il giovane percorre un vicoletto che non aveva mai notato prima, uno dei tanti che si dipanano nel centro storico. La viuzza conduce a un cancello malmesso, oltre il quale si estende un grande parco. Al centro del giardino, nel cuore della Città eterna ma al tempo stesso in un indefinito altrove, si erge un castello. Il ragazzo si fa coraggio, entra nel palazzo e di colpo si ritrova invecchiato di cinquant'anni.
Ha così inizio una curiosa avventura tra il realistico e l'onirico che vede il protagonista confrontarsi con gli "ospiti" del castello, personaggi enigmatici che vivono per qualche tempo nelle avite stanze e poi di colpo vengono portati via su un calesse guidato da un cocchiere col cilindro nero, forse la personificazione della Morte. Tutti gli ospiti, sebbene diversi tra loro, hanno due punti in comune: appartengono in qualche misura al passato del protagonista e, come lui, sono degli erotomani. Attraverso queste figure guidate da un'incontenibile sensualità, Patti vuole indagare l'enigma della carne, comprendere le ragioni che spingono l'essere umano a trasgredire alle regole della convenienza pur di soddisfare un effimero desiderio. Gli ospiti di quel castello vuole così essere una riflessione sul rapporto tra gioventù e senilità, la prima arresa alla selvaggia urgenza dell'eros, la seconda lacerata dal disfacimento fisico eppure ancora sensibile ai colpi devastanti di una sensualità mai sopita. All'interno di questo più ampio tema si inseriscono altri grandi conflitti, come quello tra amore e morte, ritrosia e sfacciataggine, corpo e spirito. 
Il romanzo ottenne lusinghieri pareri alla sua uscita, anche da parte di scrittori affermati come Prisco, che ne lodarono l'eccentricità rispetto alla produzione coeva. Devo tuttavia osservare che il mio parere non è altrettanto entusiasta. Al di là del piano più squisitamente narrativo, non sono riuscito a cogliere i simbolismi che pure si celano tra queste pagine. Nulla da obiettare sulla magistrale scrittura di Patti; in verità, è il senso più profondo del romanzo che mi sfugge, salvo il volerlo ritenere un mero divertissement, benché non credo sia il caso. Probabilmente nelle ambizioni dell'autore si trattava di un'opera da leggere a più livelli di approfondimento, a seconda della sensibilità del lettore nell'addentrarsi nei diversi piani simbolici nascosti dietro l'apparenza di un racconto leggero. Lo sconsiglio a chi non conosce ancora Patti, perché potrebbe farsi un'idea imprecisa del narratore catanese. Sarebbe allora preferibile iniziare con Giovannino, meglio ancora con Un bellissimo novembre.

6 luglio 2024

"Gioco all'alba" di Arthur Schnitzler: un perfetto congegno narrativo

Ci sono racconti che meritano di essere ricordati per la perfezione del congegno narrativo, preciso come un meccanismo a orologeria che scatta al momento giusto. Sono storie in cui tutti gli elementi combaciano alla perfezione, puzzle letterari composti da pezzi che si incastrano in un solo possibile verso. Gioco all'alba dell'austriaco Arthur Schnitzler (1862-1931), è uno di questi. Romanzo breve scritto in età matura, è meno celebre di Doppio sogno e di Fuga nelle tenebre, eppure per certi versi è ancora più avvincente. Anzi, l'aggettivo giusto è avvinghiante. Il merito di questa malia non è tanto nel finale, scontato già a metà della narrazione, quanto nella strisciante tensione che conduce a quel finale e che esplode nelle ultime pagine, per l'appunto come una bomba a orologeria.
La vicenda si consuma in pochi, intensi giorni. Wilhelm, detto Willi, è un tenente dell'esercito asburgico, dedito alla bella vita tra donne, eventi mondani e giornate in caserma non troppo impegnative. Una sera un ex commilitone, tale Bogner, lo va a trovare per chiedergli in prestito mille fiorini, cifra necessaria per coprire un colpevole ammanco di cassa che, ove scoperto, gli procurerebbe grossi guai. Willi non possiede l'ingente somma, né è davvero intenzionato ad aiutare Bogner, considerato più un conoscente che un vero amico. Tuttavia, un po' per altruismo e un po' per desiderio di sfidare la sorte, si impegna a fare il possibile per reperire il denaro in appena ventiquattro ore, giocando d'azzardo la paga mensile. Nel corso di una folle notte il suo destino si compie: prima le carte benevole gli fanno guadagnare una cifra altissima, poi la febbre del gioco gli fa perdere tutto e persino maturare un onerosissimo debito con il console Schnabel, uno dei giocatori. Dalla sera all'alba la vita di Willi prende una piega drammatica e inaspettata: da ufficiale dalle finanze modeste ma sicure, si ritrova gravato di un ingente debito d'onore che non è in grado di saldare. Pagherà tutto e con gli interessi quando, alla spasmodica ricerca del denaro, incontrerà una sua vecchia fiamma, la crudele Leopoldine. È a questo punto che tutti i pezzi del mosaico, sparsi abilmente da Schnitzler nelle prime cento pagine, troveranno il perfetto incastro di cui parlavo all'inizio.
Il grande tema del romanzo è il gioco, o meglio la dipendenza da quello d'azzardo; oggi parleremmo di ludopatia, termine sconosciuto ai tempi di Schnitzler. Sarebbe tuttavia un'analisi superficiale, oltre che dettata dalla sensibilità contemporanea. Il vero gioco cui si riferiva lo scrittore austriaco attraverso la metafora delle carte è quello del destino, ancora più spietato di un tavolo verde. La vicenda di Willi insegna che non si può sfuggire al suo disegno perverso; possono volerci anni e numerose circonvoluzioni solo a prima vista casuali, ma tutto ciò che accade è già scritto e non c'è modo di mutarlo. Gli uomini sono apparentemente arbitri e protagonisti di questo gioco; in verità, sono pedine e vittime del passatempo crudele di un dio chiamato fato. Ogni azione e ogni omissione, per quanto sembrino dettate dal libero arbitrio, sono parte di una figurazione che sfugge alla capacità dell'uomo di dominarla. Il destino è già scritto e aspetta solo di compiersi; un qualsiasi evento, anche minimo, può dare il via a una ridda di accadimenti involontari e imprevedibili. Si pensi alla figura di Bogner, l'inetto ex commilitone che si presenta alla porta di Willi con una semplice richiesta di denaro. In un'ottica cristiana potrebbe essere la personificazione del diavolo tentatore, dato che è lui a instillare nell'ufficiale il tarlo del gioco. Con ogni probabilità, però, nessuna interpretazione teologica o teleologica può essere associata a Schnitzler, in quanto presupporrebbe una direzione finalistica in termini di causa/effetto o di peccato/espiazione, del tutto avulsa dalle sue intenzioni. Verosimilmente, il gioco delle carte è un simbolo della fatalità, dell'accadere casuale e rovinoso messo fortuitamente in moto dall'arrivo del misero Bogner.
Gioco all'alba è un libro del 1927 che mantiene ancora un'invidiabile freschezza, a conferma che si tratta di grande letteratura. A differenza di altri romanzi scritti nella stessa epoca non affronta il grande tòpos della letteratura austriaca del primo Novecento, ossia la caduta dell'Impero asburgico. Anzi, nelle pagine di Schnitzler quel mondo è vivo e vegeto, con le sue regole ferree spesso obsolete, il pervicace attaccamento alla divisa e all'onore, il culto dell'apparenza e la convinzione che sia preferibile la morte piuttosto che venire meno alla parola data.