Sono tante le
perle nascoste della letteratura italiana del Novecento, una moltitudine di
opere che non hanno goduto della fama di altre, pur meritando di entrare a
pieno titolo nel novero dei classici. Il discorso calza a pennello per Il
balordo, romanzo di Piero Chiara pubblicato nel 1967. Oggi è quasi dimenticato,
nonostante un'invidiabile freschezza di scrittura e la sottile ironia che
l'attraversa da cima a fondo. Parlare di un capolavoro forse è troppo, ma di
sicuro può essere collocato tra i grandi romanzi del Novecento per la profonda
capacità d'analisi di un'epoca storica e di un Paese, l'Italia, a cavallo tra
la fine del regime e i primi sussulti della rinata democrazia.
Il romanzo è
ambientato negli anni del Fascismo, in una cittadina sulla sponda di un lago,
facilmente identificabile con Luino. Qui vive Anselmo Bordigoni, detto Bordìga,
maestro di scuola e talentuoso musicista di fama locale. Per una serie incredibile
di coincidenze e fraintendimenti, il Bordigoni viene accusato di tenere
condotte contrarie alla morale; sono maldicenze, ma lo porteranno prima al
licenziamento e poi all'applicazione della misura di polizia del confino
triennale. Le autorità di pubblica sicurezza lo destinano ad Altavilla del
Cilento – l'attuale Altavilla Silentina –, dove l'oscuro maestro è riverito
come un grande musicista e vive la più feconda e serena stagione della sua
vita. Per un'ulteriore serie di rocambolesche circostanze e fraintendimenti, il
Bordìga viene arruolato come maestro di banda dagli Alleati sbarcati a Salerno,
per fare infine ritorno al suo paese natale in una nuova imprevedibile veste.
Il
romanzo si regge sulla maestosa figura di Anselmo Bordigoni, archetipo
dell'uomo che si lascia vivere, senza farsi domande né tentare di piegare la
sorte al suo volere. Anzi, egli si adegua a capo chino ai mille rovesci della
fortuna e li accetta di buon grado, con un atteggiamento a metà strada tra
l'imperturbabilità del saggio e l'incoscienza del bruto. È l'antitesi dell'homo
faber, colui che costruisce il proprio destino col sudore della fronte e il
duro impegno; al Bordigoni, invece, per avere successo è sufficiente essere se
stesso e attendere che qualcosa di imprevedibile accada. Basti pensare che le
frasi da lui pronunziate si contano sulle dita di due mani, nonostante il libro
si snodi in un arco di tempo che supera i due lustri. In questo egli è un
“balordo”, un personaggio un po' tocco, strampalato, eppure portatore di una
personalità così decisa che alla fine sarà la gloria a bussare alla sua porta,
senza che egli l'abbia rincorsa. E non è un caso che egli trovi il suo habitat
naturale ad Altavilla del Cilento, in quel Meridione
quieto e operoso che accoglie gli artisti, specie se forestieri,
considerandoli affetti da una divina follia. E se è vero che il Bordìga è il
mattatore della storia, c'è tutto un contorno di personaggi minori, un
pullulare di altri “balordi” che meriterebbero un romanzo a sé: cito solo il
dentista spretato Maldifassi e il sinistro barbiere Duodenale.
Il balordo è
un romanzo che rimane impresso nella mente per tante ragioni. In primis,
indimenticabile è la figura del protagonista, così eccentrica rispetto ai
caratteri dominanti della letteratura del secolo scorso. Il classico
personaggio novecentesco è un uomo tormentato e complesso, sconosciuto persino
a se stesso, che rimugina sui casi della vita macerandosi nell'incapacità di
trovarle un senso autentico e definito. Il Bordigoni, invece, attraversa i principali eventi del “secolo breve” con indolenza e passiva rassegnazione, guardandosi bene dall'addentrarsi in futili e faticose
autoanalisi. E questa pacatezza d'animo è la chiave del suo successo; non a
caso, ovunque lui metta mano, si compie un piccolo miracolo. In secondo luogo,
da cilentano, non posso che ringraziare Piero Chiara per le belle pagine
dedicate al popolo del Cilento. In questo romanzo di splendidi contrasti, il
confino è quasi un paradiso, al punto che il Bordìga, sostentato
dallo Stato e circondato da nuovi amici, ad Altavilla è felice e spensierato. Con ciò non voglio affatto dire che Chiara abbia
voluto sminuire la drammatica e dolorosa esperienza del confino; semplicemente,
il romanzo va letto attraverso la lente dell'ironia, senza addentrarsi in
considerazioni politiche. Ad ogni buon conto, e questo è il terzo merito, Il
balordo è un feroce atto d'accusa contro certa borghesia benpensante, che
nasconde dietro gli scandali degli altri la propria grettezza e pochezza
intellettuale. Una classe che, gettando fango sui più deboli, etichettati come
balordi, cerca di elevarsi per contrasto, come un giudice tiranno che si illude
di essere al di sopra delle parti.