C’è stato un
tempo, agli inizi del Novecento, in cui gli anarchici erano diventati un vero e
proprio incubo per i governi europei e un’ossessione per gli uffici di
polizia. Gaetano Bresci, Sante Caserio, Michele Angiolillo, Luigi Lucheni sono
alcuni dei nomi di quelli che in diversi attentati avevano assassinato capi di
governo e membri delle Case regnanti, in nome dell’ideale anarchico e per
liberare una società stretta tra le maglie della tirannide. Proprio in quegli
anni gli ideali anarchici raggiunsero la loro massima diffusione fra le masse
popolari e intellettuali, sì che in alcuni Paesi gli aderenti alle
organizzazioni libertarie superarono per numero i socialisti. Molti furono i
pensatori che approfondirono ed elaborarono il discorso che Bakunin aveva posto
in chiave moderna: Kropotkin, Malatesta e Cafiero, solo per ricordare i più
importanti.
In questo
contesto storico-culturale si colloca il libello di Pessoa (pubblicato nel 1922),
tutto costruito intorno ad un curioso paradosso. Due uomini sono seduti allo
stesso tavolo e stanno conversando amabilmente dopo un lauto pasto. Uno di loro
è un banchiere, “grande commerciante e monopolista ragguardevole”, titolare di
un’immensa fortuna in denaro, crediti e azioni. Eppure si professa anarchico,
nonostante la sua condizione lo renda così distante dall’idea tradizionale di
libertario. L’altro commensale vuole sapere, indagare come sia possibile che un
uomo così ricco, così intrinsecamente legato al capitale, possa definirsi
anarchico. La risposta alla domanda è il cuore dell’opera. Si tratta di un
arguto monologo, elaborato nella sua struttura retorica, che giunge ad una
inaspettata sintesi dopo una complessa trama di tesi e antitesi.
Ad avviso
del banchiere la società è ingiusta perché non è paritaria, a causa delle convenzioni sociali – quali il denaro, il censo, l’educazione, la classe di
appartenenza – che, impedendo di fatto l’uguaglianza sostanziale tra gli
uomini, si impongono sulla Natura, invece generosamente egualitaria.
L’anarchico, allora, è colui che “si oppone all’ingiustizia di nascere
socialmente diseguali”. Il banchiere, nato povero e operaio, descrive la lunga
parabola che lo ha portato a diventare un vero anarchico, nel pensiero e
nell’azione, solo dopo aver accumulato immense ricchezze. L’idea anarchica di
Pessoa, che parla con la bocca del suo personaggio, è votata all’individualismo
estremo; si oppone tanto al gesto dinamitardo quanto alle logiche di gruppo,
generatrici di tirannia dei più forti sui più deboli. L’unica forma di
liberazione consentita è quella individuale, perché solo uomini già liberati
dalla gabbia delle convenzioni sociali potranno attuare una vera rivoluzione,
che affranchi l’intero consesso umano.
E alla fine
l’ingenuo commensale, travolto dalle parole del banchiere, ha la forza per
porre la domanda fatale, quella che anche il lettore si figura nella mente fin
dalle prime pagine del racconto: come può un facoltoso capitalista reputarsi
autenticamente anarchico? Segue una risposta spiazzante, che non intendo
rivelare.
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