31 agosto 2025

"Sulla collina nera" di Bruce Chatwin: il respiro di due vite

Questo libro è la prova che Chatwin non era solo un cronista di viaggi, veste in cui di solito viene ricordato, ma principalmente un ottimo narratore. Il racconto della vita dei fratelli Jones possiede infatti il respiro delle grandi saghe familiari, nonché un'impronta di perfetta compiutezza letteraria che appartiene soltanto ai grandi romanzi. Per quanto forse sia un giudizio azzardato, ritengo che Sulla collina nera non possa mancare in un'ideale biblioteca del Novecento europeo.
La vicenda è ambientata in Galles, ma potrebbe allo stesso modo svolgersi negli Stati Uniti rurali o in uno qualsiasi dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, oppure in Estremo Oriente; è infatti una storia profondamente britannica ma al tempo stesso universale. Chatwin ha saputo raccontarla secondo un punto di vista "locale" e tuttavia non provinciale, se è vero che, al netto dell'ambientazione, alcune delle tematiche trattate sono comuni a buona parte della letteratura novecentesca. Curioso è il fatto che proprio lui che ha girato il mondo e ha sempre prediletto gli spazi immensi e senza confini (si legga In Patagonia), abbia poi ambientato il suo più grande romanzo in uno spazio confinato, un lembo di terra gallese ai piedi della Black Hill, l'altura del titolo.
Sulla collina nera è principalmente la storia dei gemelli Benjamin e Lewis Jones. Invero il romanzo segue pedissequamente l'esistenza dei due, dalla nascita alla fine dell'Ottocento fino ai loro ultimi giorni negli anni Ottanta dello scorso secolo. Tuttavia si tratta di un'affermazione riduttiva, per quanto corretta. Chatwin infatti ha costruito un grande romanzo corale, cosicché si può ben dire che Sulla collina nera sia la storia di una comunità rurale che attraversa quasi senza accorgersene le grandi rivoluzioni del Ventesimo secolo: due guerre mondiali, la diffusione delle automobili, la nascita e lo sviluppo del trasporto aereo, le controculture, i movimenti di protesta, il subbuglio politico dell'epoca thatcheriana, le crisi economiche dei dopoguerra e le rinascite. Tutti questi eventi passano sopra quel pezzo di terra gallese e lo scalfiscono a poco a poco, pur non riuscendo a mutarne le solide radici più profonde. 
Lewis e Benjamin sono nati all'ombra della collina nera e ivi trascorrono tutta la loro esistenza, senza mai abbandonare la fattoria ereditata dai genitori, chiamata icasticamente "La Visione". Apparentemente indistinguibili, sono in realtà profondamente diversi. Lewis è un sognatore riottoso, recalcitrante ma infine sottomesso alle regole stabilite prima dai genitori e poi dal fratello; egli vorrebbe fuggire dalla Visione e condurre un'esistenza diversa, ma obtorto collo finisce per soccombere. Benjamin è pratico, poco avvezzo al mondo esterno e per nulla desideroso di conoscerlo; ama il gemello ai limiti dell'ossessione e lo lega a sé, in un'esistenza sempre uguale scandita soltanto dal ritmo delle stagioni. Benjamin è la catena che lega l'uomo alla terra, Lewis il cane che vorrebbe morderla per fuggire via. Ciononostante, gli anni passano uno dopo l'altro senza che i grandi cambiamenti della storia mutino le sorti degli abitanti della Visione e delle terre intorno.
Chatwin descrive una Gran Bretagna rurale in parte diversa da quella a cui ci avevano abituato scrittori come Hardy (La brughiera); egli rappresenta una campagna amena ma avara come quella dell'americano Caldwell, abitata da uomini e donne che conducono spesso un'esistenza misera e brutale. Benjamin e Lewis grazie al duro lavoro possono dirsi finanche agiati, eppure nulla godono delle loro ricchezze: rosi dall'ossessione dell'accumulare nuova terra, consumano la vita nell'ansia di sprofondare nella medesima miseria di alcuni loro vicini. Per questo non hanno tempo di volgere lo sguardo al progresso e si chiudono sempre di più nelle loro abitudini. La Visione è dunque il loro hortus conclusus, uno spazio chiuso che al tempo stesso li preserva e li limita. Chatwin tuttavia non giudica i gemelli, posa uno sguardo benevolo su di loro, li tratta come gli ultimi eredi di una razza in via di estinzione, tenacemente refrattaria alla modernità e protagonista di una storia senza tempo.
Lo stile merita una riflessione a parte. Dialoghi e parti descrittive sono perfettamente dosati, soluzione tanto più necessaria in quanto il libro copre più di ottant'anni in poco meno di trecento pagine. Dense e vivide sono poi le descrizioni del paesaggio rurale inglese, arricchite da innumerevoli nomi di arbusti, fiori rari, alberi e uccelli.
Sebbene non sia consigliabile a chi cerca nei libri le emozioni forti, Sulla collina nera è un romanzo potente e armonioso, che conquista alla distanza.

19 agosto 2025

"Quattro amici" di David Trueba: l'inutile fuga

La letteratura picaresca, come noto, è nata in Spagna, dove gode di lunga tradizione. Nei romanzi picareschi il protagonista e io narrante di solito intraprende un viaggio, spesso per fuggire da qualcuno o qualcosa e comunque senza una meta predefinita, oppure semplicemente per cercare fortuna. Si imbarca così in ogni sorta di avventura, anche di tipo erotico o delittuoso. Il picaro è caratterizzato da intraprendenza e furbizia, è un intrepido, uno sfrontato che vive di espedienti e improvvisazione. Ogni sua giornata è costellata di imprevisti, peripezie al tempo stesso divertenti, tragiche e grottesche.
Quattro amici, del madrileno Trueba, presenta qualche affinità con il genere picaresco, ne è una sorta di appendice contemporanea con tutte le differenze del caso. Pubblicato per la prima volta nel 1999, può essere definito un romanzo "estivo" secondo una duplice accezione. In primis perché racconta una vicenda ambientata in un torrido agosto di fine secolo; in secondo luogo perché è un libro disimpegnato che si legge con disinvoltura, come nella migliore tradizione delle letture da ombrellone. E invero, sebbene contenga anche delle riflessioni profonde, l'elemento preponderante è quello dell'avventura scollacciata, raccontata con uno stile leggero che spesso trascende nello scurrile.
I quattro amici del titolo hanno tre elementi in comune: sono madrileni, alla soglia dei trent'anni e percepiscono la propria esistenza come una successione di fallimenti. Anzi, è proprio l'idea del fallimento esistenziale che cementa la loro amicizia, nella compassione che ciascuno prova per se stesso e per gli altri. Il primo è Solo, l'io narrante; giornalista d'insuccesso, è reduce dalla fine di una storia d'amore che lo ha lasciato inerme e depresso. Nutre inoltre una forte ostilità nei confronti dei genitori, che invece possono definirsi persone di successo. Poi c'è Blas, studente fuori corso e figlio di un militare franchista; è ossessionato dal sesso e dall'incapacità di soddisfare i propri desideri. Il terzo è Raúl, all'apparenza l'unico realizzato in quanto è sposato e ha due gemelli; in verità, vive il matrimonio e la paternità come due gabbie da cui non può uscire. Infine c'è Claudio, il bello del gruppo, che passa da una relazione fugace all'altra senza volersi realmente impegnare ed è intrappolato in un lavoro misero.
Il nucleo centrale del romanzo è il viaggio che i quattro amici decidono di intraprendere lungo le strade assolate della Spagna di fine agosto, senza una meta e a bordo di un furgoncino appartenuto a un rappresentante di prodotti caseari. Quindici giorni senza regole alla ricerca costante di sesso facile, alcool e divertimento estremo. Più che una vacanza, una vera e propria fuga da mogli, genitori e dai problemi: quindici giorni di pura anarchia nella speranza di ridare vita artificiosamente al fantasma della perduta adolescenza. I quattro simpatici personaggi tratteggiati da Trueba sono degli immaturi, uomini nel fisico ma ragazzini nell'animo. Essi non vogliono farsi carico delle responsabilità che la vita adulta impone e pertanto si rifugiano nel ventre caldo della loro antica amicizia, provando a rivivere le stesse esperienze ed emozioni di quando avevano dieci anni di meno e nessuna responsabilità sulle spalle. Il viaggio è disseminato di incontri grotteschi, epiche ubriacature e fugaci appuntamenti con donne, a loro volta preda di un'analoga solitudine esistenziale. I quattro attraversano paesaggi assolati, riposano su spiagge sporche e sovraffollate, dormono in tenda o in squallidi alberghi, frequentano locali notturni e night, si ubriacano fino a perdere coscienza e commettono anche qualche reato; eppure, nonostante tutte le peripezie, non riescono a trovare le emozioni che stavano cercando. Alla fine dovranno ammettere a se stessi che l'adolescenza è una stagione irripetibile e dolce, ma non prolungabile all'infinito. Ciò che resta è il valore dell'amicizia e dello stare insieme.
«Guardai Blas e Claudio seduti vicino a me, e compresi, in un certo senso, che cos'è l'amicizia. È una presenza che non ti evita di sentirti solo, ma rende il viaggio più leggero.»
Come ho già scritto, è una lettura leggera e senza grandi pretese. Il linguaggio utilizzato da Trueba è estremamente realistico, con abbondanza di parolacce e turpiloquio. Tuttavia, sarebbe semplicistico bollare il romanzo come un prodotto letterario di pura evasione. Quattro amici, infatti, fa divertire ma anche ragionare, perché contiene diversi spunti di riflessione – forse non particolarmente originali ma egualmente validi – su tematiche come il rapporto tra amore e amicizia, il ruolo delle convenzioni borghesi nell'orientare le scelte di ciascuno, la solitudine dell'uomo contemporaneo e la sua volontaria fuga dalle responsabilità. Un problema, quest'ultimo, già sentito venticinque anni fa e quanto mai attuale.

5 agosto 2025

"Viaggi con Charley alla ricerca dell'America" di John Steinbeck: un on the road a metà

Il viaggio in lungo e in largo attraverso gli Stati Uniti, coast to coast oppure da nord a sud, è un vero e proprio topos della letteratura nordamericana, da Kerouac fino ai giorni nostri. Tanti coloro i quali hanno tentato l'impresa per desiderio d'avventura utilizzando ogni mezzo, compresi quelli di fortuna; tra questi, numerosi giornalisti e scrittori che hanno lasciato dettagliati resoconti. Come noto, la letteratura di viaggio è ben più antica e conta opere decisamente più autorevoli e celebri, eppure è indubbio che gli States abbiano un fascino ineguagliabile che attira le anime inquiete o i semplici sognatori. Sarà per gli spazi immensi e la varietà del paesaggio, oppure per l'immaginario on the road costruito da decine di pellicole, oppure per la naturale seduttività di un territorio al tempo stesso fortemente antropizzato e selvaggio, fatto sta che non si contano i diari di viaggio e i romanzi dedicati al tema.
Persino un Premio Nobel ha voluto dare il suo personale contributo. Alla fine dell'estate del 1960 il cinquantottenne Steinbeck, già scrittore celebrato e famoso, decise di intraprendere un lungo viaggio nel suo Paese, seguendo un itinerario praticamente circolare che partiva da Sag Harbor, cittadina costiera dove aveva una seconda casa. Ciò che spinse Steinbeck a tentare l'impresa, sebbene non fosse più giovanissimo, fu l'urgenza di conoscere la propria patria, essendosi reso conto di non conoscerla affatto, o meglio di non conoscerla più. Negli ultimi tempi egli aveva vissuto prevalentemente a New York, in una dimensione artificiale, frenetica e multiculturale che nulla aveva a che vedere con lo spirito più profondo degli Stati Uniti. Il desiderio di recuperare quello spirito smarrito spinse dunque l'autore a organizzare meticolosamente un arduo viaggio in solitaria.
Oltre all'io narrante, due sono gli altri personaggi principali del libro, a cui ci si affeziona presto. Il primo è Charley, un cane di razza barbone francese che si rivela un'eccezionale compagnia soprattutto nelle fredde notti in solitaria. Ovviamente non parla, eppure è in grado di capire e di comunicare a modo suo. Il secondo è Ronzinante, nome perfetto per designare una specie di furgone camperizzato con potente motore V6 a benzina, dotato di ogni specie di comfort, compreso un letto doppio, una cucina, un tavolo ribaltabile e i servizi igienici. L'uomo, il cane e il furgone, come i tre amici del celebre romanzo di Jerome, partono così all'avventura, prediligendo le strade secondarie alle grandi arterie autostradali. Sul punto Steinbeck ha un'idea ben chiara: se vuoi conoscere e vedere il paese reale, non devi affidarti alle strade a grande e veloce scorrimento, in cui si passa senza guardarsi intorno, ma imboccare le vie secondarie, quelle che attraversano i villaggi, i boschi, le campagne, i motel e le rivendite di cianfrusaglie che crescono come funghi ai loro bordi. Una filosofia assai simile a quella di Least Heat-Moon nel suo altrettanto celebre (e forse finanche più bello) Strade blu.
Tuttavia, rispetto ad altri reportage simili, Viaggi con Charley non mi ha entusiasmato. Il motivo risiede nel fatto che il libro può essere suddiviso in due parti, la prima decisamente riuscita e la seconda meno coinvolgente. La prima parte copre pressappoco il primo quarto dell'itinerario seguito da Steinbeck, ossia la parte nord-orientale e quella settentrionale degli Stati Uniti, al confine con il Canada. La scrittura è trascinante, soprattutto quando l'autore racconta le lunghe nottate passate in solitaria ai bordi delle strade in bivacchi improvvisati: sembra quasi di essere al suo fianco a condividere l'avventura. Steinbeck si dilunga in particolari, descrive i paesaggi e le persone incontrate, condivide col lettore la sua quotidianità anche negli aspetti più prosaici. In parole povere, si percepisce il suo entusiasmo iniziale. La seconda metà, invece, sebbene copra la gran parte del tragitto, è frettolosa, come se la stanchezza avesse preso il sopravvento. L'autore ne è consapevole e non nasconde questo senso di fatica che lo colse in itinere; sebbene se ne apprezzi l'onesta, ne esce fuori un libro poco equilibrato nelle sue parti. L'entusiasmo delle prime pagine cede il passo alla stanchezza, le descrizioni da dettagliate diventano frettolose, si percepisce la voglia di Steinbeck di tornare a casa e mettere una pietra sopra quell'idea balzana, realizzata forse fuori tempo massimo. È dunque un on the road riuscito a metà, così come l'obiettivo ultimo del viaggio, riscoprire il vero spirito americano, che non può dirsi pienamente realizzato.
Al di là di questo aspetto, va rimarcato che il libro è ricco di riflessioni profonde e ancora attuali sul rapporto tra passato e presente, sull'inquinamento, l'urbanizzazione selvaggia, l'eterna lotta tra innovazione e tradizione, tra rispetto delle radici e desiderio di tagliarle una volta per tutte. È inoltre una feroce critica al consumismo, alla globalizzazione del pensiero, del linguaggio e dei bisogni, nonché un durissimo atto d'accusa contro le discriminazioni razziali che negli anni Sessanta del ventesimo secolo ancora infestavano gli Stati del Sud, Texas e Louisiana su tutti. Se volete ascoltare una voce autorevole su queste tematiche, lo consiglio; se invece cercate soltanto la pura evasione, meglio dirigersi su altri romanzi, come il celeberrimo Sulla strada, il citato Strade blu, oppure una qualsiasi delle opere di Bill Bryson.

22 luglio 2025

Blind Melon, l'altra faccia degli anni Novanta

In un'ipotetica classifica delle copertine più brutte della storia del rock non potrebbe mancare la sgraziata bambina vestita da ape dell'omonimo disco d'esordio degli statunitensi Blind Melon (1992). Peccato, perché l'album è di tutt'altra pasta e a mio avviso si può tranquillamente collocare tra i migliori di quell'effimera stagione di rock alternativo che tuttavia ha cambiato le sorti della scena musicale fin quasi ai giorni nostri.
Il gruppo si formò a Los Angeles alla fine degli anni Ottanta ed era costituito, nella formazione che registrò il primo LP, da Shannon Hoon (1967-1995) alla voce, Roger Stevens e Cristopher Thorn alle chitarre, Brad Smith al basso e Glen Graham alla batteria. Arrivarono alla prima incisione già con una major, la Capitol Records, che credette nelle potenzialità della band e fu premiata dall'ottimo riscontro di pubblico. Il suono dei Blind Melon in questo album è tutto incentrato sull'alternanza delle due chitarre di Stevens e Thorn, che giocano a rincorrersi su due rette parallele destinate a non incontrarsi. Lo si ascolti in cuffia per rendersene conto: le chitarre seguono due linee melodiche diverse, al punto che non si può dire quale sia la ritmica e quale la solista. Nell'effetto stereofonico delle cuffie la sensazione è tangibile: per dirlo con parole semplici, il riff in cuffia sinistra è diverso da quello della cuffia destra, com'è evidente in brani come Soak the sin e Paper scratcher.
Tre sono le caratteristiche di questa band: spiccato gusto per la melodia, muro chitarristico che sovente si stempera in passaggi più soft e la meravigliosa voce di Shannon Hoon. Si ascolti in proposito Deserted, che incarna al meglio i tre elementi citati. Il suono è un crogiolo di generi diversi, dal grunge alla psichedelia, passando per il folk e il blues; oggi si parla genericamente di "rock alternativo", senza necessità di un inquadramento rigido. Pur non essendo ritenuti grunge in senso stretto, i Blind Melon presentano molte similitudini coi coevi Pearl Jam: non a caso il produttore di questo disco è il medesimo di Ten, ossia Rick Parashar (che in Italia ha lavorato coi Litfiba). I losangelini, però, a differenza dei più famosi di Seattle, inserivano nelle loro canzoni elementi folk, come in No rain e soprattutto in Change, dove addirittura fanno capolino armonica e mandolino. No rain è la hit un po' paracula, ma non è la migliore. L'iniziale Soak the sin, Change e Holyman sono una spanna sopra.
Il disco scorre dall'inizio alla fine senza cali di tensione o di ispirazione. Shannon Hoon regala un'ottima prova (su tutte, I wonder) e aumenta il rammarico su quanto avrebbe potuto dare ancora alla musica, se non fosse morto ad appena ventotto anni. Il disco sorprende proprio per la sua compiutezza, piuttosto insolita per una band al suo esordio. Tredici tracce per quasi un'ora di rock solido e senza tempo che potrebbe essere scritto oggi come quarant'anni fa o in un prossimo futuro. Perché se è vero che i Blind Melon non hanno inventato nulla, è altresì indiscutibile che questo lavoro sia invecchiato molto bene e sia tuttora capace di regalare emozioni, grazie anche a testi semplici ma intimisti. L'ho scoperto tardi e mi rammarico di non averlo conosciuto prima, perché sono convinto che avrebbe potuto essere una delle colonne sonore della mia adolescenza.
Non credo, come pure sostengono alcuni, che i Blind Melon siano una band sottovalutata. Hanno avuto i riconoscimenti che meritavano, sebbene la prematura scomparsa di Hoon abbia contribuito sia a farli entrare nella leggenda, sia a farli dimenticare dai più. Il primo e omonimo è un disco che lascia addosso un senso di freschezza e al contempo di malinconia, come il ricordo di una giovinezza sofferta che col senno di poi appare splendere di una grazia all'epoca impossibile da cogliere. Come detto, il quintetto capitanato da Hoon non ha inventato niente; tuttavia la loro era una pastiche piuttosto originale per quegli anni, che mescolava il solido rock alla Led Zeppelin con il roots sound degli anni Sessanta e la rivoluzione grunge dei Novanta. E se questo album non è oggi molto considerato, forse ciò è paradossalmente dovuto al grande successo commerciale di No rain, che all'epoca li fece apparire come ciò che non erano, dei fricchettoni fuori tempo massimo.
Foto tratte dal libretto interno e, sotto, la brutta ma celebre copertina

7 luglio 2025

I "Litfiba del 2000", una questione di nome

La notizia della ristampa di Elettromacumba, a venticinque anni dalla sua uscita, ha colto di sorpresa molti fan di vecchia data dei Litfiba. Il primo album senza Piero, o se vogliamo il primo con Cabo, non era mai stato ristampato e addirittura non appare sulla discografia ufficiale della band. Se infatti si naviga sul sito del gruppo, si passa direttamente da Infinito a Grande nazione, ignorando completamente i tre dischi di inediti senza Piero Pelù. La ristampa di Elettromacumba, con tanto di firmacopie di Ghigo e Cabo, ha inevitabilmente riportato alla mente quei giorni di inizio Millennio che per tanti appassionati di rock italiano furono un piccolo shock.
Ovviamente tutto va contestualizzato all'epoca e all'età, ma se ripenso a quel giorno in cui fu annunciata la separazione tra Ghigo & Piero, ricordo benissimo il senso di sconforto che mi prese. Avevo poco più di quattordici anni e i Litfiba erano stati il mio primo vero amore musicale. Negli anni successivi ho acquistato centinaia di dischi e ampliato il mio bagaglio musicale, eppure i Litfiba occupano tuttora un posto privilegiato nel mio cuore, assieme ovviamente ai C.S.I. Il primo loro disco che acquistai fu la musicassetta di Mondi sommersi nell'agosto del 1997, pochi mesi dopo la sua pubblicazione. Seguì l'acquisto di tutta la discografia precedente, da Desaparecido in poi, fino all'uscita di Infinito e al successivo annuncio dello scioglimento.
Infinito si rivelò una delusione, sebbene col tempo l'abbia rivalutato, come ho scritto altrove. Eppure alla sua uscita non mi piacque: troppo pop, con canzoni perfino imbarazzanti (Mascherina) e altre che tradivano una virata verso il commerciale (Il mio corpo che cambia) che mal digerii. Il primo disco di inediti che avevo atteso e desiderato era stato un mezzo fallimento, come constatai da subito ascoltando su Radio Rai la presentazione in diretta dell'album. Circa un anno dopo, quando venne annunciato che la band avrebbe pubblicato un nuovo disco con una formazione rinnovata, senza Piero e con lo sconosciuto Gianluigi Cavallo alla voce, fu un altro colpo al cuore, l'ennesimo. Ricordo che ne parlai a scuola con l'unico amico che, come me, pensava che ascoltare musica fosse una cosa seria: impianto hi-fi (anche se all'epoca avevo un compattone Aiwa) e cd rigorosamente originali. Anche lui era spaesato, ma la sua curiosità virava verso l'ottimismo, mentre io la vedevo nera e consideravo l'arrivo del nuovo cantante come un affronto e un tradimento.
Eppure Elettromacumba lo acquistai: prima cautelativamente in copia pirata a 5.000 lire su una bancarella e poi, dopo qualche ascolto di rodaggio, originale a 26.000 lire alla compianta Ricordi Mediastore di Via del Corso. Mi costava ammetterlo, eppure mi piaceva. Anzi, dirò di più: mi piaceva infinitamente più di Infinito. Certo, la voce di Cabo mi sembrò da subito un tentativo di imitazione dell'inconfondibile timbro di Pelù, eppure il disco mi conquistò con le canzoni. Come ho già precisato, tutto va contestualizzato con l'età. Oggi sono consapevole che i tre LP del periodo Cabo sono dei lavori onesti e non certo dei capolavori, sebbene su Insidia andrebbe fatto un discorso più approfondito. Tuttavia all'epoca avevo quindici anni ed Elettromacumba placava la mia sete di elettricità rimasta insoddisfatta con Infinito. Brani come Il giardino della follia, Piegami, Dall'alba al tramonto e soprattutto Spia, hanno quell'energia che si era un po' persa negli ultimi due dischi dei Litfiba classici.
Se la nuova incarnazione dei Litfiba ebbe vita breve, senza decollare mai veramente, a mio avviso dipese dalla scelta di mantenere il nome. Ghigo, come noto, con ostinazione decise di tenere il marchio Litfiba. Questo forse è stato un errore, in primo luogo perché è stata una scelta divisiva. Moltissimi fan di vecchia data, se non la maggioranza, rimasero infatti fedeli a Piero e non seguirono la nuova line-up. Probabilmente se la nuova band si fosse presentata con un altro nome, avrebbe avuto ben altro successo e riconoscimenti, al di là degli inevitabili ma in tal caso innocui paragoni col passato. Mantenere il nome Litfiba si è rivelata un'arma a doppio taglio, perché per quanto Gianluigi Cavallo fosse un ottimo musicista e un carismatico vocalist, i "Litfiba del 2000" non avrebbero potuto reggere il confronto con la figura di Piero, con la propria storia ventennale e con album capolavoro come Desaparecido o 17 Re
A distanza di venticinque anni le polemiche e le prese di posizione non si sono placate e anzi sono state rinfocolate dalla recente ristampa di Elettromacumba. Io non l'ho acquistata perché sono affezionato alla mia copia in cd; sicuramente invece comprerò la ristampa di Insidia non appena disponibile, si spera a settembre. Da più parti poi si chiede un tour celebrativo del periodo post-Piero, portando in concerto i tre album datati 2000-2005. Sebbene sia consapevole che sarà molto difficile, mi unisco al coro degli speranzosi. Mai dire mai.
Ghigo & Cabo nel libretto interno di Elettromacumba

22 giugno 2025

"Una manciata di more" di Ignazio Silone: l'imperdonabile tradimento

La terra è il grande tema della letteratura meridionale del Novecento. O meglio, a voler essere più precisi, è la lotta per la terra tra braccianti e possidenti, "cafoni" e "galantuomini" per dirla con altri termini, ad aver costituito il principale ambito d'interesse di questo filone letterario. Alvaro, Jovine, Alianello, Silone, solo per ricordarne alcuni, hanno descritto nei propri romanzi un Meridione diviso tra le sirene del progresso e il richiamo della tradizione ancestrale, tra le speranze di un futuro migliore e l'amara disillusione che segue alla constatazione che nulla può veramente cambiare. La terra è il termometro di quella società apparentemente immutabile, eppure percorsa da sotterranei fremiti di rivolta: solo quando la terra sarà di chi la lavora, sostengono i meridionalisti, il Sud potrà dirsi veramente liberato dalle antiche catene. Una manciata di more (1952), per molti il più maturo tra i romanzi di Silone, si inserisce in questa corrente di impegno civile.
In una desolata contrada dell'Italia meridionale, un angolo della Marsica tanto cara all'autore, si consuma una vicenda che è lo specchio di quel che accadeva in altre centinaia di identiche località del Mezzogiorno. Qui la terra è identificata nella "selva" e i possidenti sono i membri della famiglia Tarocchi. La selva è una vasta foresta da secoli contesa tra i miseri braccianti, che ne rivendicano l'uso comune secondo antiche servitù, e i membri della potente famiglia dei Tarocchi, che con sotterfugi, imbrogli e ingiustizie la vogliono tutta per sé. Eppure anche in questa landa misera e arsiccia si alza il vento della rivoluzione, o meglio il suo suono: c'è una tromba che incita i contadini a riunirsi e a marciare per far valere i propri diritti. Nessuno sa con precisione dove si trovi, perché subito dopo l'uso viene nascosta per impedire che le autorità la sequestrino. Così è successo con le rivolte sociali di inizio secolo e poi durante il fascismo; ogni volta che il suono della tromba si è diffuso nella vallata, i ricchi proprietari terrieri, appoggiati di volta in volta dalle autorità, hanno tremato, temendo di perdere i loro privilegi.
Caduto il regime fascista e terminato anche il secondo conflitto mondiale, nulla è cambiato nelle campagne della Marsica. Un nuovo attore è tuttavia apparso sulla scena, quel Partito Comunista che ha ambizioni di governo, dopo gli anni della clandestinità e la vittoria nella guerra di Liberazione. Per quanto sia un romanzo corale, il personaggio principale può essere identificato in Rocco De Donatis, di professione ingegnere, figlio eletto di quella terra funestata dalla miseria e dalle tragedie umane e naturali (il terribile terremoto del 1915). Rocco è un dirigente comunista, eppure in lui cresce l'insofferenza nei confronti del Partito, fino a trasformarsi in aperta ostilità. Rocco è appena tornato da un viaggio in Unione Sovietica, dove ha visto il volto crudele dell'ideale politico a cui ha dedicato tutta la propria vita. Ha scritto un memoriale sulla sua esperienza nella terra dei soviet e, tornato in Italia, assume un atteggiamento critico contro le decisioni dell'alta dirigenza, prona ai diktat di Mosca. Rocco invece vuole fare di testa propria e addirittura ha una convivenza more uxorio con una ragazza ebrea di nome Stella, attirandosi ancora di più le ire dei papaveri di Partito. In breve inizia una campagna di delegittimazione nei suoi confronti, fino al palese ostracismo.
La drammatica vicenda di Rocco svela ambiguità e ipocrisie del Partito, sebbene entrambi teoricamente perseguano il medesimo obiettivo, ovvero la tutela dei diritti dei contadini. Una manciata di more è dunque un durissimo atto d'accusa contro il P.C.I. Silone sembra voler dire che la questione vera, il male profondo del Mezzogiorno, è nella mancata riforma agraria, promessa da tutte le forze di governo succedutesi dal 1861 e mai realizzata. E la cosa ancora più grave è che neppure il Partito Comunista abbia messo mano alla questione, sebbene a rigor di logica fosse quello che sosteneva le rivendicazioni dei braccianti. Ecco perché per Silone le etichette ideologiche sono inutili e finanche dannose, così come lo sono per il suo personaggio Rocco, di cui è evidente lo spunto autobiografico.
La fotografia che viene fatta del Partito Comunista è impietosa: ne esce l'immagine di un'organizzazione asfissiante, bigotta, assuefatta dagli stessi vizi borghesi che vorrebbe estirpare, una struttura che non ammette il dissenso interno e mette a tacere le voci critiche. E allora, ai contadini meridionali traditi persino da chi avrebbe dovuto difenderli, non resta che mettere mano ancora una volta alla tromba che da secoli li chiama a raccolta.
Recente edizione Oscar Mondadori

9 giugno 2025

Daryl Zed: chi sono i mostri?

La pubblicazione in unico volume della miniserie dedicata a Daryl Zed era attesa dal 2020, ma ha visto la luce soltanto a maggio di quest'anno. L'albo tutto a colori di 192 pagine, ovviamente a cura di Sergio Bonelli Editore, è disponibile in edicola al prezzo di 7,90 euro. Il volume era già pronto da anni, come detto, ma non era mai stato distribuito. Le ragioni del ritardo sono state spiegate da Tiziano Sclavi in una lettera aperta che potete trovare sul sito della Bonelli.
Daryl Zed è un'opera di meta-fumetto, nel senso che si tratta di un espediente narrativo per cui un fumetto (Dylan Dog) contiene al suo interno un'altra testata (Daryl Zed), che a sua volta contiene un terzo fumetto (ancora una volta Dylan Dog). Nella finzione letteraria di Dylan Dog, Daryl Zed è un fumetto scritto da un amico di Dylan ispirandosi proprio alla figura dell'Indagatore dell'incubo. E nella finzione letteraria di Daryl Zed c'è un amico del protagonista, un fumettista chiamato Tiz con le sembianze di Sclavi, che ha creato un fumetto chiamato Dylan Dog, ispirandosi alle avventure di Daryl. Insomma, un complicato gioco di scatole cinesi in cui Dylan è fonte di ispirazione per Daryl che a sua volta è fonte di ispirazione per un altro Dylan.
Il personaggio fece la propria comparsa nell'albo 69 di Dylan Dog, intitolato Caccia alle streghe, celebre soprattutto perché si inserì nella vera e propria crociata che taluni esponenti della politica e dell'associazionismo lanciarono all'epoca contro alcuni fumetti, ritenuti un'incitazione alla violenza, se non addirittura un'istigazione a delinquere. Quelle prese di posizione, lo dico per inciso, fanno quantomeno sorridere se pensiamo ai giorni nostri, in cui smartphone e social stanno creando un esercito di veri e propri zombies privi di fantasia, al confronto dei quali i tanto bistrattati fumetti avevano quantomeno la capacità di stimolare l'immaginazione dei lettori.
Daryl Zed non è altri che un personaggio secondario (anzi, del tutto marginale) che diventa protagonista di una propria serie. L'albo della Bonelli ora in edicola contiene tre storie, tutte legate da un filo conduttore: I mostri sono loro (Faraci/Mari), Il sangue è acqua (Faraci/Stano) e Cerchio chiuso (Faraci/Dell'Edera). Il tutto condito da una vivace colorazione in stile pop art con le pagine deliziosamente ingiallite, a dare un'aura rétro.
Il protagonista è semplicemente un cacciatore di mostri, come chiarisce anche il titolo dell'albo, un uomo tutto d'un pezzo dalla mascella squadrata e dai modi bruschi che per lavoro libera il mondo da ogni sorta di creatura malvagia: alieni, rettiliani, licantropi e soprattutto vampiri. Una specie di Maurizio Merli o Luc Merenda nei panni del commissario di ferro dei poliziotteschi italiani degli anni Settanta. Daryl si muove in un mondo che potrebbe appartenere al recente passato o al prossimo futuro, caratterizzato da atmosfere cupe e spesso violente, un mondo che è messo in pericolo dai crimini efferati commessi da bizzarre creature, per l'appunto i mostri. È pertanto necessario l'intervento repressivo della polizia, coadiuvata dal nostro eroe. Una trama semplice, una struttura classica e lineare, potremmo dire tagliata con l'accetta, tutto il contrario delle raffinatezze di Dylan Dog. Daryl infatti non è un personaggio con velleità artistiche o letterarie; ha lo sguardo cinico e duro, porta sempre in bella vista una pistola e parla come un qualsiasi piedipiatti di un romanzo hard boiled.
Ci sono delle somiglianze tra Dylan e Daryl: entrambi hanno un amico poliziotto, sono schivi e solitari, vivono situazioni al limite con personaggi ricorrenti (su tutti, Johnny Freak). È però diversa, anzi antitetica, la filosofia dei due personaggi, la prospettiva da cui osservano la realtà. Dylan è un uomo tormentato che sa di non avere la verità in tasca; per lui il mondo non è solo bianco e nero, ma fatto di tante gradazioni di grigio, al punto che non è facile capire chi siano davvero i mostri. «I mostri siamo noi» è solito ripetere, a voler significare che il male può albergare in tutti, qualunque significato possa avere il concetto di "male", che per Dylan non è universale. Daryl invece ha una visione manichea del mondo, fatto di buoni e cattivi, dove i primi sono indiscutibilmente positivi e i secondi sono irrimediabilmente malvagi; non esistono sfumature, non è possibile sbagliare e i mostri vanno liquidati senza pietà né ripensamenti. «I mostri sono loro» è solito affermare, né ammette che tale assunto possa essere messo in dubbio.
Leggere Daryl Zed è come affrontare Dylan Dog in una prospettiva rovesciata, un gioco degli specchi in cui l'orrore è il medesimo ma senza possibilità di redenzione o di differenti interpretazioni. La domanda allora resta aperta: ma chi sono veramente i mostri, noi o loro?

26 maggio 2025

"Niente di nuovo sul fronte occidentale" di Erich Maria Remarque: la generazione tradita

Voler parlare su queste pagine di un romanzo così celebre e celebrato ha poco senso. D'altronde, cosa mai si potrà dire di nuovo? Al tempo stesso, però, quando un libro è un classico ha sempre qualcosa da raccontare, anche a distanza di anni e di migliaia di recensioni e saggi critici.
Dell'opera principale di Remarque, vero e proprio classico moderno, è stato scritto tutto; tradotta in tante lingue e venduta in milioni di copie, non c'è bancarella dell'usato in cui non se ne trovi anche più di un esemplare. La trama è arcinota: alcuni giovani studenti tedeschi, infiammati dalla propaganda sciovinista, si arruolano volontari per combattere nella Prima guerra mondiale, inconsapevoli di ciò che li attende una volta giunti al fronte. Moriranno quasi tutti, schiantati dalle artiglierie, colpiti da proiettili vaganti, dilaniati dalle schegge, avvelenati dai gas, perfino pugnalati nei terribili assalti all'arma bianca nelle trincee nemiche. Il libro nulla nasconde degli orrori visti e delle sofferenze patite da tutti quei giovani, alcuni poco più che bambini. Un resoconto autentico, duro e tagliente come sa essere solo la verità.
Consapevole di non poter dire nulla di nuovo o di originale, voglio concentrarmi soltanto su un aspetto, quello che mi ha colpito di più. Perché se è vero che Niente di nuovo sul fronte occidentale è principalmente un grido d'accusa contro l'insensatezza della guerra e uno straordinario manifesto pacifista, c'è un altro tema che a Remarque stava particolarmente a cuore, ovvero il tradimento generazionale. Paul e gli altri sono convinti ad arruolarsi dal loro professore di liceo, il nazionalista Kantorek. Questi è un uomo tutto sommato insignificante, che tuttavia grazie a doti retoriche e al carisma esercitato sugli studenti per via del suo ruolo, li persuade ad arruolarsi volontari, di fatto spedendoli al macello. È lui il vero traditore, secondo Remarque, un uomo che ha barattato il suo ruolo di educatore con gli ideali stantii del nazionalismo e del bellicismo.
«Essi dovevano essere per noi diciottenni introduttori e guide dell'età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura e al progresso; insomma all'avvenire. […] Al concetto dell'autorità di cui erano rivestiti, si univa nelle nostre menti un'idea di maggiore prudenza, di più umano sapere. Ma il primo morto che vedemmo mandò in frantumi questa convinzione. Dovemmo riconoscere che la nostra età era più onesta della loro. […] Il primo fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore, e dietro ad esso crollò la concezione del mondo che ci avevano insegnata.»
Questo è, secondo me, il tema centrale del romanzo, un significato forse più nascosto rispetto al palese messaggio pacifista (o meglio, antimilitarista tout court), eppure altrettanto se non addirittura più potente. I valori propagandati dalla classe dirigente crollano al ritmo del disvelamento delle loro menzogne, cadono nelle trincee fangose, sebbene i "professori" continuino imperterriti a propagandarli. E così i civili rimasti a casa non conoscono nulla del fronte, se non le mezze verità e le clamorose bugie raccontate dagli organi di stampa e dalla propaganda. Si opera pertanto un brusco taglio generazionale, destinato a non ricucirsi più. Gli adulti, coloro che avrebbero dovuto istruire i giovani e prepararli al futuro, li hanno invece condotti al massacro sull'onda di discorsi patriottici che si sono rivelati fallaci e menzogneri. La loro colpa è gravissima, quella di aver "contaminato i più schietti sentimenti giovanili", come argutamente riportato nell'introduzione di una vecchia edizione Oscar Mondadori. È la rottura di un patto generazionale, il tradimento della missione educativa, il traviamento dei ragazzi, portati su una strada sanguinosa che da soli mai avrebbero intrapreso. Il grido di rabbia di Remarque è dunque diretto contro quei burattinai che, ben nascosti nelle retrovie, hanno fomentato nei giovani un artificioso spirito belluino che in natura non gli apparteneva.
I soldati di Remarque sono costretti a sparare contro il proprio futuro; il loro è un destino di desolazione, anche per quanti sono all'apparenza scampati alla morte. La migliore gioventù ridotta a un bivacco di profughi lacerati nell'anima, una generazione annientata nel corpo e nello spirito, al punto che anche chi rimane non è davvero un sopravvissuto. Ragazzi a cui la porta dell'avvenire è stata definitivamente chiusa in faccia, perché anche quando torneranno a casa non troveranno che macerie.

13 maggio 2025

Sad Lovers and Giants: persi in un mare di sospiri

Quando si parla di un genere musicale con chi ne è appassionato, è matematico che tirerà fuori la vecchia storia della band sconosciuta ai più, quella che "se solo avesse avuto un pizzico di fortuna all'epoca", verrebbe oggi ricordata tra le più influenti del periodo. Criminally underrated, come dicono gli inglesi. Ogni genere ha le sue perle nascoste e la new wave non è da meno. Perché se è vero che tutti conoscono i Joy Division, pochi ricordano The Chameleons e ancora meno hanno sentito parlare di Sad Lovers and Giants (d'ora in avanti, SLaG). E non perché, si badi bene, fossero un gruppo di nicchia, in quanto ai tempi ottennero la loro fetta di successo e tuttora girano in tour. La verità è che nel palcoscenico così fitto di comparse che sono stati gli anni Ottanta inglesi, è fisiologico che alcuni vengano dimenticati, non necessariamente i più scarsi.
Gli amanti tristi e giganti, nome che tradotto in italiano ha un che di naif ma che in inglese suona benissimo, si formarono in Inghilterra nel 1980. La formazione originaria, quella che suonò nei primi due album, era composta da Garce Allard alla voce, Cliff Silver al basso, Tristan Garel-Funk alle chitarre, il batterista Nigel Pollard e David Wood alle tastiere e sassofono. Pollard e Garel-Funk lasciarono la band poco dopo la registrazione del secondo LP e fondarono The Snake Corps.
Se il vinile d'esordio, Epic garden music (1982), conteneva già un pezzo epocale come Clint, cui si aggiunge il capolavoro Things we never did della ristampa in cd con tracce bonus, è con Feeding the flame (1983) che il quintetto fece un deciso balzo in avanti. Copertina algida e inquieta, uno scorcio di paesaggio invernale che ricorda l'immagine del coevo Porcupine di Echo & The Bunnymen. Immagine di copertina che fa da preludio a quanto stiamo per sentire: musica malinconica per anime in disarmo. Viene naturale il paragone con gruppi più blasonati, forse perché parrebbe un azzardo affermare che siano questi ultimi a essersi ispirati ai SLaG; si sentono echi di Cure, Sound, Chameleons, Sisters of Mercy, Bauhaus. La loro è una new wave cupa e dolorosa che abbraccia il dark e il goth, limandone però gli eccessi. Musica per chi è «perso in un mare pieno di sospiri», come recita uno dei loro versi più celebri. Un ritmo compassato che tuttavia sa esplodere in sorprendenti barbagli di luce, come nel ritornello di On another day, per me la più preziosa del mazzo.
«On another day
you would swear my judgment was wrong.
Tracing neat escapes,
now the soft attraction has gone.»
I primi solchi sono quelli di Big tracks little tracks, che detta da subito le regole del gioco: basso possente e chitarre lancinanti, sostenute da una batteria incalzante e uno straniante interludio di sassofono. Evidenti le influenze post-punk, ma è altresì chiaro che i nostri cercavano una via autonoma. Segue la citata On another day, un volo a due palmi da terra con gli effetti delle chitarre e il tappeto di tastiere che disegnano un'atmosfera eterea e soffusa: un viaggio lisergico, una sorta di psichedelia wave. La successiva Sleep (is for everyone) rievoca trame gotiche, mentre Vendetta ricorda i Japan di Ghosts (di un paio d'anni prima), con la voce di Garce che ripercorre le tracce di Sylvian per sfumare infine nell'ammaliante base di chitarre e tastiere. La prima facciata si chiude con l'esplosività di Man of straw, paragonabile per furia a The fire dei più celebri The Sound: un pezzo potente con le chitarre sempre avanti e una sezione ritmica precisa, in puro stile post-punk. Il lato B è meno ispirato e contiene quattro brani, di cui uno strumentale. Senza dubbio la migliore è Your skin and mine, ballata d'amore che si esalta nei delicati contrappunti di chitarre e tastiere, vero e proprio marchio di fabbrica dei SLaG. E quando sembra che il pezzo sia concluso, arriva una lunga coda strumentale in puro incedere dark-wave. Meravigliosa, può contendere a On another day la palma di migliore.
Feeding the flame è un disco che non può mancare nella collezione di un appassionato di new wave. Certo non è un album fondamentale in assoluto, per cui non lo consiglierei a chi si approccia per la prima volta al genere; tuttavia è un tassello importante che testimonia un'epoca di grande creatività, in cui persino nomi meno noti come i Sad Lovers and Giants erano in grado di lasciare il segno. Se siamo qui a parlarne dopo più di quarant'anni, ci sarà un motivo.
L'algida immagine di copertina

30 aprile 2025

"L'ombra del suicidio" di Carlo Bernari: un no-global ante litteram

Carlo Bernari (Napoli, 1909 – Roma, 1992) è noto soprattutto per Tre operai, romanzo sui temi del lavoro e delle condizioni della classe operaia che pubblicò giovanissimo, nel 1934. Due anni dopo ultimò un romanzo breve che riprendeva alcune tematiche già trattate, concentrandosi stavolta su quella misera classe impiegatizia che tutto sommato non se la passava tanto meglio. L'opera, sia pur compiuta, rimase inedita fino al 1993, quando fu pubblicata in prima edizione assoluta dalla Newton Compton nella celebre collana "Tascabili Economici 100 pagine, 1000 lire", con il titolo L'ombra del suicidio e il sottotitolo Lo strano Conserti.
Conserti è il protagonista del romanzo, anzi un deus ex machina, il vero e proprio motore dell'azione e nucleo intorno al quale ruotano tutte le vicende e gli altri personaggi, ridotti quasi a comparse. Uomo misterioso e controverso – "strano", come lo definisce il sottotitolo –, di lui sappiamo poco o nulla, salvo qualche scampolo del passato. Sappiamo solo che è un meridionale trasferitosi da poco a Milano per lavorare in una compagnia di assicurazioni. Egli è tuttavia riottoso all'efficientismo meneghino, cui contrappone la propria visione di vita, lontana dalle logiche e dalle lusinghe del profitto.
«Io non sono uno che possa sopportare facilmente l'idea di farmi schiacciare dal capitalismo lombardo.»
Egli è, nelle parole e nei fatti, un anarchico individualista, animato da un indomito spirito di ribellione che, tuttavia, non poggia propriamente su rivendicazioni sociali o di classe. È un oppositore del sistema industriale e capitalistico, nemico giurato della triade "produci-consuma-crepa", per dirla con le parole di una canzone dei CCCP. Conserti è un antagonista della logica del consumismo, prima ancora che la parola entrasse nel lessico comune. E così, da nuovo arrivato nell'ufficetto periferico della grande compagnia di assicurazioni, in breve diventa il più amato, invidiato e al contempo temuto dagli inetti colleghi, grazie alla sua capacità di imporsi persino sui capi, all'apparenza senza alcuna difficoltà. Meridionali come lui, i colleghi sono invece i perfetti ingranaggi del sistema, da cui si sono fatti abbindolare.
«All'inverso s'erano lasciati schiacciare, senza lamentarsi, ma solo consolandosi allorché scoprivano che un meridionale era giunto ad un posto di comando: l'intelligenza del sud, dicevano allora, la spunta sempre; e si confortavano pensando che essi non erano completamente naufragati e potevano sempre salvarsi.»
Lo strano Conserti è per i colleghi, al contempo, esempio e condanna: esempio per ciò che loro avrebbero voluto essere, condanna per quanto avevano ripudiato, ovvero la placida e indolente vita delle campagne meridionali, legata ai cicli sempre uguali delle stagioni, ai ritmi della natura e alle tradizioni degli avi. A Milano, invece, il quotidiano è arido e frenetico, comandato dalla logica del profitto e dal credo imperativo del capitalismo. La contrapposizione nord-sud, tema che sarà ripreso in altri lavori del napoletano Bernari, è in questo romanzo appena accennata, sebbene sia funzionale a definire i contorni della storia. Negli anni Trenta forse il divario era meno accentuato rispetto a quanto sarebbe accaduto con il boom economico, eppure Bernari ha anticipato una tematica che sarebbe stata trattata ampiamente da altri scrittori meridionali (e meridionalisti), praticamente fino ai giorni nostri; mi viene in mente, da ultimo, Dante Maffia.
La ribellione di Conserti parte dalle piccole cose, come il prolungare le pause caffè, per aspirare infine a un obiettivo più alto: sabotare e sovvertire il sistema. La decisione di colpire il simbolo di quel potere, impersonato dalla ieratica figura del Direttore Generale, matura nell'animo del protagonista parallelamente all'acquisizione dell'orrida consapevolezza di essere egli stesso funzionale alla preservazione di quel sistema che aborrisce. La soluzione per liberarsi è una soltanto: prendere una pistola e ammazzarlo.
«Noi siamo i suoi agenti, come per i credenti i preti sono gli agenti di Dio sulla terra. Vivendo noi non misuriamo interamente la sua potenza. Tuttavia la difendiamo, propagandiamo il suo verbo, inconsapevolmente. Siamo la sua polizia, i suoi carabinieri. Come i poliziotti difendono il governo automaticamente, anche se il governo non dice loro: difendimi, arresta quello lì che mi dà fastidio; così noi difendiamo lui, questo padrone, senza conoscerlo, e senza che egli ci dica: difendimi! Lui è tutto.»
L'ombra del suicidio è un romanzo anomalo nel contesto della letteratura italiana del primo Novecento, sebbene al contempo non del tutto eccentrico. Si inserisce infatti nel fecondo calderone della cosiddetta "letteratura industriale", eppure colpisce per la fermezza, oserei dire quasi la violenza, di alcuni suoi passaggi, incredibile soprattutto se si pensa che fu scritto (ma non pubblicato) nel 1936, quando un attacco così frontale ai gangli del potere politico e industriale poteva costare il confino, nella migliore delle ipotesi. Di certo non è anacronistico; tuttavia, anche a volerlo spogliare di alcuni contenuti non più di stretta attualità, resta un romanzo valido e interessante che racconta l'ascesa e il naufragio morale e materiale di un aspirante rivoluzionario, un no-global ante litteram.
Prima e finora unica edizione, anno 1993