6 marzo 2024

Le suggestioni d'oltremanica dei Frigidaire Tango

Parlare dei Frigidaire Tango significa tornare alle origini della new wave nostrana, prima ancora che nascesse il fenomeno del "rock italiano cantato in italiano" che vide tra i principali esponenti Diaframma e Litfiba. Qualche anno prima, siamo agli inizi degli Ottanta, la musica tricolore si era aperta alle suggestioni d'oltremanica, come già era accaduto nei due decenni precedenti. Se il beat e il progressive furono infatti importati dalla terra d'Albione dando vita a interessanti e originali progetti autoctoni, il punk della prima ora aveva appena sfiorato la penisola. Con la new wave, invece, si può parlare nuovamente di una scena italiana, di cui i Frigidaire Tango furono precursori e protagonisti, al punto da condividere il palco persino coi Sound del compianto Adrian Borland. Originari di Bassano del Grappa, diedero alle stampe solamente un 33 giri (The cock, 1981) e un EP (Russian dolls, 1983). Quest'ultimo contiene Recall, il loro brano più celebre che fu presentato persino in RAI, recentemente riproposto nella traduzione italiana da Giorgio Canali nel suo album Perle per porci. Ho parlato di traduzione perché i Frigidaire Tango cantavano in inglese, al pari di gruppi mitici come Chrisma, Neon e Gaznevada. Scioltisi qualche anno dopo, si sono poi riformati dando alle stampe nel 2009 un disco di inediti cantato in italiano, L'illusione del volo. Ma l'interesse nei loro confronti si era risvegliato già tre anni prima con la pubblicazione di un cofanetto contenente tutta la produzione, The freezer box. L'album di esordio di cui voglio parlare, The cock, è stato invece ristampato in LP nel 2013 dalla Spittle Records, per cui è facilmente reperibile.
Prima di analizzarlo, bisogna partire dal contesto. Come raccontato dagli stessi musicisti in un'intervista disponibile su Vice, in quegli anni non era facile pubblicare un disco, soprattutto perché nell'epoca dell'analogico la registrazione aveva costi proibitivi. Ciononostante, il gruppo veneto ottenne la fiducia di una piccola etichetta indipendente, la Young Records. Il risultato fu eccellente, tanto che The cock è un album che può ancora dire molto a oltre quarant'anni dalla sua uscita. Registrato al Button Studio tra la primavera e l'autunno del 1981, vede Charlie "Out" Cazale alla voce, Steve "Hill" Dal Col alla chitarra, Mark Brenda alle tastiere, J.M. Le Baptiste alla batteria, nonché il bassista uscente (Steve "Elbow" Gomero) e il nuovo Dave Nigger. Il disco è inoltre impreziosito dal sassofono di Alex Strax. Come è evidente dagli pseudonimi, l'Inghilterra era l'immancabile punto di riferimento. Il suono di The cock ricorda infatti i grandi nomi del post punk: Stranglers e Magazine per l'uso delle tastiere, Joy Division per le atmosfere, e ancora The Sound, Ultravox, i primi XTC.
Il basso prepotente che apre Dangerous echo indica subito la via. Ritmo incalzante e bordate di chitarra su un tappeto di tastiere: così si presenta la band nei primi solchi di The cock, in perfetto stile new wave. Nella successiva Anytime you dress so fine fa addirittura capolino un sassofono, mentre Blue & pink è un raffinato gioiellino synth-wave con una meravigliosa coda pianistica su cui si innesta la chitarra lancinante di Dal Col. Push a me ricorda la coeva The fire dei Sound: una traccia furiosa e veloce come da tradizione punk. La prima facciata si chiude con le atmosfere rarefatte di A citizen came, altro brano degno di nota. Resterà sorpreso chi pensi che il lato B sia inferiore, come spesso accade negli album d'esordio. Invece, a parte un paio di riempitivi, il livello si mantiene alto. La strumentale I'm faster non avrebbe sfigurato in dischi inglesi ben più celebri: la furia chitarristica ammansita dal tappeto di tastiere la rende un ideale anello di congiunzione tra passato e "nuova onda". Black curtains è la mia preferita; ricorda qualcosa dei Magazine di Howard Devoto ed è impreziosita da un bell'assolo finale di Dal Col che sembra quasi John McGeoch. La conclusione è affidata all'omonima Frigidaire tango, una sorta di "tango elettronico" che vira verso la musica industriale.
Dopo ripetuti ascolti posso confermare che The cock è davvero una gemma nascosta che avrebbe meritato ben altra fama. Qualche ingenuità c'è, ma dobbiamo pensare che i ragazzi di Bassano erano giovanissimi e si approcciavano a un genere che in Italia era ancora agli albori. L'ispirazione dei gruppi inglesi si sente, tuttavia The cock non è derivativo; anzi, sorprende l'ascoltatore per originalità e compiutezza del progetto. Ai Frigidaire Tango si deve molto di più rispetto a quanto abbiano raccolto, come dimostra il fatto che abbiano suonato con Adrian Borland. Questo 33 giri non può mancare in un'ideale classifica dei cento migliori dischi di rock italiano.
Copertina e retro di The cock (ristampa Spittle Records del 2013)

24 febbraio 2024

Il pittore che ha dato voce al silenzio

Dal 9 febbraio al 26 maggio è possibile visitare a Roma, presso il Palazzo Merulana, la mostra "Antonio Donghi: la magia del silenzio", a cura di Fabio Benzi. Come ho già scritto qualche tempo fa, Palazzo Merulana ha sede nell'omonima via nell'ex Palazzo dell'Ufficio di Igiene, chiuso e pericolante fino a pochi anni fa. Nel 2013 il Comune di Roma, proprietario dell'edificio, ha avviato un project financing per il recupero dell'area; è nato così Palazzo Merulana, oggi sede di un interessante museo di pittura e scultura del Novecento italiano. Lo spazio espositivo è articolato su quattro livelli e ospita stabilmente un centinaio di opere. Il percorso museale si snoda al secondo (il meraviglioso Salone) e al terzo piano (la Galleria), mentre al quarto c'è un'ampia sala utilizzata anche per conferenze. Le opere esposte sono di proprietà dei coniugi Elena e Claudio Cerasi; alla Fondazione a loro intitolata si deve il merito di aver aperto al grande pubblico questa importante collezione privata. La mostra dedicata a Donghi occupa il terzo piano e il biglietto consente di visitare inoltre la collezione permanente e, fino al 3 marzo, un'esposizione dell'artista contemporaneo Vittorio Marella.
Il romano Antonio Donghi (1897-1963) è stato uno dei principali esponenti del cd. Realismo magico, corrente artistica e letteraria che si affermò in Italia fra gli anni Venti e Trenta del Novecento. Agli inizi della carriera si dedicò perlopiù alla paesaggistica, con opere di gusto tradizionale in stile post-impressionista. Nel 1923 la svolta. Donghi entrò a far parte del gruppo di artisti gravitanti intorno alla Galleria Bragaglia, ove erano esposte le avanguardie nazionali e straniere; qui ammirò le opere di Ubaldo Oppi, che lo impressionarono profondamente. Oppi è considerato uno dei fondatori del citato Realismo magico, una corrente che inseriva elementi magici o metafisici in una cornice apparentemente realistica. Per capire di cosa si tratta, vi invito a leggere il romanzo La pietra lunare di Tommaso Landolfi, in grado di spiegare meglio di ogni manifesto questo particolare movimento. Lo stile di Donghi si affinò nei due decenni successivi, rendendolo un artista noto e riconoscibile. Caratteristica è la rappresentazione di figure semplici, uomini e donne ripresi in gesti quotidiani, raffigurati in pose fisse, dallo sguardo profondissimo, realistici al massimo eppure circondati da un'aura sovrannaturale. Ha scritto in proposito il poeta lucano Leonardo Sinisgalli:
«Bisogna veramente nominare il paradiso a proposito di Donghi, e domandarsi di che cosa sono fatti gli angeli. […] Questi fiori che sembrano dipinti sui piatti, questi personaggi a coppie, così limpidi a furia di star fermi, così totalmente privi di ombra, hanno una fissità medianica. Sono spiriti, ecco, e son fatti della stessa sostanza dei fiori. Anche gli angeli devono essere fatti della stessa sostanza.»
Le opere in mostra sono più di trenta, in prestito dalla Galleria Comunale d'Arte Moderna di Roma, dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, dalle collezioni della Banca d'Italia e UniCredit, nonché facenti parte della Fondazione Elena e Claudio Cerasi. Di fatto viene ricostruito l'intero percorso del pittore romano: i paesaggi e le nature morte delle origini, arrivando ai ritratti di figure in interni ed esterni, colti nella dimensione intima della camera da letto, della toeletta o del camerino. Non a caso molte opere rappresentano circensi, attori e saltimbanchi, raffigurati non durante l'esibizione ma nelle pause prima o dopo lo spettacolo. Il teatro, il cinema e il circo ebbero infatti una profonda influenza su Donghi.
Figura di donna, 1932

Sebbene i paesaggi rientrino tra le opere "minori" dell'artista, quelli esposti sono molto suggestivi. Non sono un critico d'arte, ma ho notato che la medesima fissità che caratterizza i ritratti è presente anche nei paesaggi. Sono luoghi senza tempo, immoti, bloccati in un eterno presente. Si prenda come esempio il Castello di Arsoli: tutto è apparentemente fermo, ma il cancello di ferro aperto sul fondo induce nell'osservatore una sottile inquietudine, come se da un momento all'altro dovesse irrompere sulla scena un personaggio inquietante o un evento inatteso.
Castello di Arsoli, 1946
Via del Lavatore, 1924
Paesaggio toscano (Monte Amiata), 1934
Fruttiera su un tavolo, 1935

I ritratti sono invece i grandi capolavori di Donghi. Come riportato nelle note che accompagnano la visita, Donghi «ha una capacità straordinaria di assorbire i testi figurativi dell'arte antica, dal Trecento al Seicento, celandone accuratamente i riferimenti in soggetti semplici e popolari». Sono personaggi senza tempo, moderni per angoscia esistenziale e un sottile male di vivere che traspare dallo sguardo, e al tempo stesso antichi come divinità, di cui hanno anche la posa ieratica. Osservandoli, viene da chiedersi cosa si nasconda dietro il loro sguardo interrogativo: indifferenza, paura, angoscia, disincanto o semplicemente resa alle grandi domande che attanagliano l'uomo. I personaggi di Donghi cercano una risposta ai dubbi che affollano la mente, oppure semplicemente accettano passivamente gioie e dolori dell'esistenza? Questa la domanda che mi sono posto. D'altronde, sembra emergere un senso di totale incomunicabilità; anche laddove le figure sono in gruppo – come ne La gita in barca o in Caccia alle allodole –, non c'è dialogo tra loro, non si toccano, non si guardano né parlano. Ciascuna è immersa nei propri casi ed è disinteressata ai pensieri e ai sentimenti degli altri.
Donna alla toeletta, 1930
Annunciata, 1940
Ritratto di madre e figlia, 1942
Caccia alle allodole, 1943

Tra le tante opere, mi ha colpito particolarmente Il giocoliere. In una stanza dai colori tenui, abbellita soltanto da una tenda e da un modesto vaso di fiori su un treppiede, un giocoliere prova il suo spettacolo. Vestito con un gilet ocra e pantaloni di velluto viola, è in grado di tenere un cilindro in equilibrio sul sigaro. Lo sguardo è fisso sul cappello, i piedi ben piantati in terra, una mano sul fianco e l'altra in avanti, pronta a prendere il cilindro qualora dovesse cadere. Il quadro è così realistico che lo spettatore non può far altro che rimanere in silenzio, rapito dall'abilità del giocoliere e timoroso che il cappello possa cadere.
Il giocoliere, 1936

Le fotografie rendono l'idea della mostra più di qualsiasi commento, per cui non aggiungo altro. Mi preme tuttavia fare un piccolo appunto. La mostra è ospitata in tre sale abbastanza anguste, sebbene Palazzo Merulana disponga di spazi più ampi e arieggiati, come i saloni al secondo e quarto piano. Dato il notevole afflusso di pubblico, specialmente nei fine-settimana, forse sarebbe stato opportuno collocarla nelle sale più grandi.
Ritratto di donna, 1944
Il cacciatore, 1929

12 febbraio 2024

"La fonte ai confini del mondo" di William Morris: dove tutto è cominciato

Quando si parla di generi letterari o correnti artistiche, c'è sempre divergenza di opinioni circa l'individuazione dell'artista capostipite o dell'opera archetipica. Ciò vale anche per la letteratura fantastica, specialmente per il suo sottogenere noto come fantasy. Se infatti la storia del fantastico è antica quanto l'uomo, come ci insegna Todorov in un suo celebre saggio, il fantasy è invece relativamente recente, risalendo alla seconda metà dell'Ottocento. Sia pure con le dovute cautele, molti concordano che La fonte ai confini del mondo (1896) dell'inglese William Morris possa essere considerato il primo romanzo fantasy della storia, tanto che fu di ispirazione per i grandi maestri del genere, Tolkien e Lewis. Morris nacque a Walthamstow nel 1834 e morì nel 1896; fu scrittore di prosa, poeta, architetto, editore e pittore legato al movimento preraffaellita, nonché attivista politico vicino al socialismo. La fonte ai confini del mondo è stata a lungo inedita in Italia; la prima edizione Fanucci è infatti del 2005, poi ristampata nel 2019.
La trama riprende pedissequamente alcuni tòpoi della letteratura cortese e cavalleresca. In un'epoca che somiglia al Medioevo c'è una terra immaginaria su cui regnano diversi sovrani. Uno di questi è Peter, un regulus che regna sulla felice Upmeads. Peter ha quattro figli e i tre maggiori lasciano la terra dei padri per fare fortuna nel mondo. Il più piccolo, Ralph, è destinato a rimanere a Upmeads; tuttavia il suo temperamento temerario lo spinge ad allontanarsi di nascosto dagli amorevoli genitori. Così un bel giorno parte senza una meta precisa. Inizialmente segue un indefinito desiderio d'avventura, fino a quando viene a conoscenza di una miracolosa fonte che dona eterna giovinezza, salute, felicità e avvenenza a chiunque riesca a bere le sue acque. Senza esitazioni Ralph parte alla ricerca della sorgente, tra mille peripezie che gli faranno acquisire fama, sapere e gloria.
Il tema centrale del romanzo è proprio il viaggio; in ciò si ravvisa l'influenza maggiore che Morris ha avuto sugli altri maestri del genere. Il suo protagonista è perennemente in movimento, a piedi o a cavallo; egli visita città e castelli, attraversa boschi e deserti, valica montagne e supera colline, guada torrenti e fiumi impetuosi, conosce uomini e donne di ogni risma. Le descrizioni delle peregrinazioni di Ralph sono a mio avviso il punto forte del romanzo; forse soltanto Tolkien riuscirà a rendere con maggiore realismo e vividezza lande selvagge e paesaggi immaginari. Morris è, sotto questo aspetto, uno scrittore "ottocentesco", minuzioso nelle descrizioni e attento nei particolari; molte pagine offrono davvero un'esperienza immersiva, sicché sembra di camminare assieme ai suoi personaggi in terre lontane e amene. I dialoghi invece sono spesso verbosi, oltre che improntati a un tono moraleggiante che appesantisce la lettura. Tutti i personaggi, anche i più umili, sfoggiano un linguaggio forbito da poeta cortese che appare poco credibile, rendendo indistinguibile il misero bracciante dal potente abate, il rozzo guerriero dal letterato.
Un altro aspetto poco convincente è che i personaggi sono stereotipati secondo una rigida visione manichea che esaspera gli aspetti buoni e quelli cattivi, senza vie di mezzo. Mi duole dire che in alcuni frangenti ho trovato insopportabile il protagonista. Ralph è l'emblema dell'eroe senza macchia e senza paura: bello, coraggioso, saggio, giusto, in una parola perfetto. A tratti tracotante, non ha l'ingenuità della giovinezza che me l'avrebbe reso più simpatico; nessun dubbio lo sfiora, nessuna difficoltà sembra insormontabile per lui. Per queste ragioni diventa difficile immedesimarsi o anche solo empatizzare con lui, in quanto Morris non instilla mai il dubbio che Ralph possa fallire nella sua missione, per cui l'esito della vicenda appare scontato già dalle prime pagine. Anche gli altri personaggi hanno una psicologia poco approfondita e risultano appiattiti su un'unica dimensione: Ursula è l'incarnazione del bene, il signore di Utterbol quella del male, e così via.
La vera originalità dell'opera, quella che ci fa dire che con Morris "tutto è cominciato", è il perfetto assemblaggio di miti, leggende, tradizioni orali, poemi epici e amor cortese in una storia complessa e abbastanza avvincente. Lo scrittore inglese comprese prima di ogni altro il grande potenziale racchiuso in queste storie tramandate da secoli, purché venissero rielaborate in chiave più moderna per adattarsi ai gusti del pubblico. L'apprezzamento dei suoi colleghi conferma la validità dell'intuizione di Morris.
Mi sono approcciato alla lettura del libro con grande entusiasmo, memore delle piacevoli ore trascorse in compagnia di Tolkien. Le mie aspettative sono rimaste parzialmente deluse per le ragioni anzidette. Non sono un esperto di letteratura fantasy, eppure ritengo che la mancanza di elementi quali la magia, il soprannaturale e l'orrido non consenta di ascrivere completamente il libro al genere. Peraltro il volume è ricco di riferimenti al cristianesimo, per cui il mondo inventato da Morris non è poi così diverso dal nostro Medioevo. La fonte ai confini del mondo è un racconto d'avventura, o meglio un romanzo cavalleresco dalle tinte fantastiche, ma non un fantasy a tuttotondo. Se si accetta questa premessa, resta un libro godibile perché narra una storia senza età che sa accendere la fantasia dei lettori.

30 gennaio 2024

"La rivincita" di Michael Curtin: gli ultimi saranno i primi

Inizio la recensione in maniera insolita, mettendo subito le mani avanti: questo romanzo non mi ha convinto. Ciò non significa che non valga la pena leggerlo; semplicemente, ha deluso le mie aspettative. L'editore italiano lo presenta in quarta di copertina come «un classico della letteratura comica». E invece, salvo nelle pagine finali, è proprio la comicità a mancare. O forse è un umorismo tipicamente irlandese, lontano dai nostri canoni. La rivincita (titolo originale, The replay) è un romanzo del 1981 di Michael Curtin, irlandese di Limerick. Scrittore amato in patria, in Italia è ricordato specialmente per La lega anti-Natale, sempre per i tipi di Marcos y Marcos.
C'è da premettere che l'idea alla base della trama è avvincente. La rivincita è quella che gli ex allievi dell'Istituto chiedono agli avventori del Nook. Quindici anni prima le due squadre si erano sfidate a calcio e i secondi avevano vinto, sia pure in maniera non del tutto limpida. La sfida era stata epica anche per ragioni extracalcistiche di rivalsa sociale: l'Istituto era la scuola privata dell'alta borghesia cittadina, mentre il Nook era un pub proletario, frequentato da giovani squattrinati. La vittoria del Nook non è mai stata digerita da quelli dell'Istituto, che dopo tre lustri organizzano una rivincita. Unica regola: i giocatori devono essere gli stessi di quindici anni prima, senza eccezioni o possibilità di sostituzioni. Il romanzo offre un interessante spaccato di vita irlandese alla fine degli anni Settanta, che emerge attraverso la meticolosa descrizione dei preparativi della partita. L'organizzazione dell'evento copre infatti buona parte del libro, mentre all'incontro vero e proprio sono dedicate soltanto le pagine finali.
La sinossi promette molto, ma a mio avviso l'esito non è sempre all'altezza. Il libro viaggia a due velocità: alcuni capitoli sono gustosi e strappano qualche sorriso, mentre altri sono prolissi e rallentano il ritmo della narrazione. Curtin si diffonde in interminabili dialoghi tra i personaggi, conversazioni che spesso è difficile comprendere fino in fondo o comunque calare nel contesto della narrazione. Preda dei fumi alcolici, i suoi personaggi intavolano lunghe chiacchierate seduti agli sgabelli del Nook, sicché dopo qualche pagina l'attenzione del lettore scema e si ha la tentazione di saltarle. Detto brutalmente, per quanto possa essere una considerazione superficiale e poco tecnica, credo che qualche decina di pagine in meno avrebbero giovato al ritmo e alla godibilità del libro. Alcuni capitoli sembrano quasi dei riempitivi. A titolo di esempio, mi vengono in mente le parti in cui si raccontano nei minimi dettagli le biografie dei calciatori del Nook. È il caso di Stevie Mack, personaggio tutto sommato secondario di cui vengono narrate le peripezie londinesi, sebbene siano quasi del tutto ininfluenti rispetto alla storia. Quanto all'umorismo, i momenti davvero divertenti si contano sulle dita di una mano; prevale un tono cinico e disincantato che al più strappa qualche amaro sorriso. Ciò è coerente con il contesto in cui si muovono i personaggi: una provincia irlandese lenta e sonnacchiosa, la cui unica magra possibilità di evasione consiste nel trascorrere qualche ora ad alta gradazione alcolica in pub sordidi. Chi è appassionato di questo stile di vita potrà sicuramente apprezzare le lunghe scene al Nook, fatte di dialoghi semiseri con le lingue impastate dalla birra. Quanti invece, come il sottoscritto, non abbiano familiarità con il contesto, potrebbero non essere in grado di cogliere sottigliezze e sottintesi in cui si cela lo spirito più squisitamente comico del romanzo.
Se questi sono gli aspetti deboli, La rivincita presenta anche dei punti di forza. In primis, come già accennato, è un vivido resoconto della vita in Irlanda qualche anno fa, con abbondanza dei classici stereotipi. Curtin, sia pure tra le righe, denuncia il peso della rigida morale cattolica nella vita dei suoi conterranei, il sotterraneo conflitto tra ossequio alla religione e desiderio di trasgressione, i drammi dell'alcolismo e della disoccupazione, la miseria di interi quartieri, il rapporto ambiguo con la vicina Inghilterra, egualmente temuta e odiata. È forse questo profilo di velata critica sociale il punto di forza del libro, più ancora dell'umorismo di cui si parla in quarta di copertina. Anche perché, pur non avendolo apprezzato particolarmente, alla fine mi sono trovato comunque a fare il tifo per gli ex ragazzi del Nook, da Stanley Callaghan a Jack O'Dea, passando per Dara Holden e lo sfortunato Gabriel. La loro vicenda di fantasia ci insegna che a volte gli ultimi possono essere davvero i primi.

18 gennaio 2024

Uomini o lupi? Una pellicola dimenticata del cinema italiano

Il significato più profondo di Lupi nell'abisso, film del 1959 per la regia di Silvio Amadio, è riassunto già nei titoli di testa. Anzi, si può affermare che rappresentino una vera e propria lettera d'intenti.
«La vicenda che vedrete è assolutamente estranea alla cronaca. I personaggi sono di pura fantasia. L'equipaggio di questo sommergibile non appartiene ad alcuna marina del mondo, come è evidente dalle divise, dagli emblemi, dall'armamento, che sono del tutto arbitrari. Per lo stesso motivo i personaggi non hanno nomi, né si fa riferimento a località od epoca.»
L'intenzione del regista e degli sceneggiatori era quella di raccontare una vicenda umana a valenza universale che potrebbe accadere o essere accaduta a qualsiasi latitudine. Per questo motivo, Lupi nell'abisso è un film di guerra anomalo. La trama è tanto semplice quanto appassionante. Un sommergibile sta navigando a pelo dell'acqua per fare ritorno alla base dopo una pericolosa missione. Nulla di più ci è dato sapere: né quale guerra stia combattendo, né quale Paese stia servendo. All'improvviso viene attaccato da tre aerei nemici ed è colpito da una bomba nonostante la subitanea immersione. Seriamente danneggiato, si inabissa fino ad adagiarsi sul fondo del mare a centocinquanta metri di profondità. Una parte del sottomarino non è invasa dall'acqua grazie alle porte a tenuta stagna; è in questo angusto spazio che si trovano gli unici dieci superstiti, tre ufficiali e sette marinai. La situazione è drammatica, ma non senza speranze: il sommergibile è infatti dotato di uno scafandro di salvataggio che può tuttavia ospitare solo una persona alla volta. Sarebbe sufficiente organizzare dei turni per fuggire dalla trappola mortale, se non fosse per un terribile imprevisto. Il cavo di recupero è stato spezzato dall'esplosione; ciò significa che lo scafandro può essere utilizzato un'unica volta. Dopo l'emersione non sarà più possibile farlo rientrare nel sottomarino per salvare gli altri marinai. In parole povere, solo uno potrà salvarsi: gli altri dovranno morire.
Constatata l'impossibilità di riparare il cavo d'acciaio, il resto del film narra la guerra di nervi tra i membri dell'equipaggio per scegliere chi potrà salvarsi. È girato tutto in interni, nello spazio ristretto di un sottomarino mezzo allagato, con i dieci protagonisti che si muovono in pochi metri quadri. Il rischio era quello di una pellicola noiosa, e invece la storia avvince e non c'è neppure un momento di stasi. Il comandante e il nostromo, interpretati rispettivamente dai bravissimi Massimo Girotti e Folco Lulli, vorrebbero una scelta equa, fondata sulla solidarietà e non sull'egoismo. Gli altri marinai, tra cui spiccano attori del calibro di Piero Lulli, Alberto Lupo e Jean-Mark Bory, sono in preda alla paura, accecati dal risentimento verso gli altri e dalla meschinità. Nessuno è disposto a morire lasciando vivere un unico fortunato. La situazione a un certo punto sfugge di mano e il film si trasforma in un thriller con finale a sorpresa.
Il punto di forza della pellicola è nella capacità di generare nello spettatore un sentimento di viva partecipazione rispetto agli eventi, nonché una grande tensione emotiva senza l'uso di effetti speciali. L'avessero fatto gli americani, un film del genere sarebbe stato probabilmente un kolossal, ma non sarebbe stata la stessa cosa. Amadio invece ha confezionato un ottimo esempio di cinema "artigianale" che si regge solo sulla bravura di un grande cast, senza necessità di ricorrere a espedienti spettacolari. La pellicola fu presentata al Festival di Berlino del 1959 ed ebbe una buona accoglienza da parte della critica. E invero, come ho detto, Lupi nell'abisso non è solo una storia di guerra, è qualcosa di più. È un film sulle tendenze bestiali che albergano nel cuore dell'essere umano, tendenze ferine e istintive che emergono prepotentemente quando sono in gioco interessi fondamentali. Nella drammatica lotteria su chi debba salvarsi, sorge la necessità di una scelta più profonda: siamo uomini o lupi? Questa è la domanda che il coraggioso comandante rivolge ai suoi marinai impauriti.
Qualcuno ha accusato la pellicola di nazionalismo, se non addirittura di vuoto sciovinismo. Mai critica fu più ingenerosa. Se esiste un film anti-retorico, questo è proprio Lupi nell'abisso. Al regista e agli sceneggiatori interessava raccontare una vicenda umana e non italiana, una vicenda che sarebbe potuta accadere a qualsiasi equipaggio. Di qui la scelta, precisata nei titoli di testa, di non dare bandiera, nazionalità e neppure nomi ai sommergibilisti. I marinai non hanno alcuna cadenza dialettale e non vengono mai menzionati luoghi reali, proprio per dare valenza universale al racconto. Certamente alcune scene (e dialoghi) risentono un po' degli anni – si pensi alla preghiera finale –, ma questo è un film intelligente e toccante da riscoprire senza indugio.
Massimo Girotti (il comandante) e Folco Lulli (il nostromo)

6 gennaio 2024

"Paso doble" di Giuseppe Culicchia: cronaca di un'Italia precaria

Paso doble (1995) è il seguito di Tutti giù per terra, fortunato esordio di Culicchia da cui fu tratto un film nel cui cast figuravano perfino i componenti del Consorzio Suonatori Indipendenti. Ciò tuttavia non significa che il romanzo non possa essere apprezzato da chi non conosce il precedente. È vero che la storia riprende da dove si era interrotta; tuttavia può essere letta in autonomia, senza che ciò ne pregiudichi la comprensione, anche perché i personaggi sono diversi. A dirla tutta, dalla lettura di Tutti giù per terra sono passati così tanti anni che non rammento quasi nulla, salvo il nome del protagonista e vaghi ricordi delle sue peripezie alla ricerca di un'occupazione, in un'Italia che iniziava a conoscere il dramma del precariato.
In Paso doble ritroviamo Walter alle prese col suo nuovo impiego di commesso in una videoteca/edicola di Torino. Il manager del punto vendita è un tipo ottuso, ossessionato dal bilancio e intimorito dai capi della sede centrale di Milano. Vorrebbe essere come i dirigenti d'azienda americani, rispetto ai quali è una misera macchietta, una copia riuscita male. Egli non ha reali competenze manageriali e crede di legittimarsi agli occhi dei dipendenti usando in continuazione parole e modi di dire anglosassoni. I colleghi di Walter sono invece dei personaggi strampalati usciti da un campionario di casi umani: Super Mario sogna di diventare un modello nonostante non ne abbia il fisico, mentre Egidio ha i modi di un lord inglese ma è un leghista convinto. La trama ruota intorno alle vicende umane, lavorative e sentimentali di Walter. La grigia routine delle sue giornate viene stravolta quando entra in scena Tatjana, una conturbante tedesca naturista, vegana ed ecologista, non si comprende bene se per moda o convinzione. Walter crede di trovare in lei il modo per uscire dal cerchio sempre uguale della sua esistenza, salvo doversi ricredere nell'amaro finale.
Culicchia si avvale del registro umoristico per raccontare una vicenda tragica, quella della prima generazione che si è trovata a fare i conti con il fantasma del precariato, abilmente mascherato dietro l'ipocrisia della "flessibilità" da chi detiene il potere e le redini dell'economia. La Torino in cui si muovono i personaggi di Culicchia è una città in stagnazione dopo la felice stagione del boom. In verità è lo stesso Paese a essere in profonda crisi, con tutte le avvisaglie dei problemi che esploderanno nel decennio successivo: la recessione, il lavoro sottopagato, i costi esorbitanti degli alloggi, la tv spazzatura, il regresso culturale, l'immigrazione. Culicchia coglie inoltre l'occasione per lanciare feroci strali contro quanti nascondono la propria ignoranza dietro l'uso di un inglese modaiolo e di circostanza; in particolare, contro quei manager che infarciscono i loro discorsi di parole come skills, problem solving, misunderstanding e simili.
Lo stile è semplice, immediato e scorrevole, diretto come il linguaggio di tutti i giorni. C'è una forte prevalenza dei dialoghi e ogni capitolo è suddiviso in brevi paragrafi numerati. Poco meno di centocinquanta pagine che si leggono d'un fiato in poche ore. Tirando le somme, si tratta di un romanzo gradevole, divertente, senza troppe pretese, che tuttavia stimola la riflessione offrendo un'accurata ricostruzione di un'età – la metà degli anni Novanta – che ci appare quasi preistorica, dati i rivoluzionari cambiamenti dell'ultimo ventennio. In verità, l'Italia raccontata in Paso doble non è il Paese aureo che spesso rimpiangiamo nostalgicamente, anzi non è poi così diversa da quella a noi contemporanea. L'ossessione per l'apparenza, le ingiustizie del quotidiano, lo sfruttamento del lavoro giovanile, la precarietà, l'avanzare di una tecnologia selvaggia col rischio dello smarrimento dei valori più profondi, l'ambizione di molti e il fallimento di altrettanti, sono aspetti quanto mai attuali. Ecco perché si potrebbe parlare di una valenza "archeologica" della rilettura di Paso doble a quasi trent'anni dalla sua pubblicazione: perché in fondo l'Italia ivi descritta è quella in cui è stato gettato il seme dello smarrimento e della miseria umana del presente.

26 dicembre 2023

I Timoria e le visioni dal futuro

Dare alle stampe un disco perfetto è una benedizione e al contempo un rischio. Una benedizione se l'artista decide di ritirarsi dalle scene, come un pugile vittorioso che verrà ricordato solo per lo straordinario finale di carriera. Tuttavia, a sfornare un capolavoro si rischia anche di creare enormi aspettative per il futuro; e non di rado pubblico e critica rimarranno delusi. Mi viene in mente la parabola della prima fase della carriera di Alan Sorrenti. Nel 1972 esordì con l'epocale Aria, così perfetto da essere irraggiungibile; Sorrenti provò inutilmente a eguagliarlo con i due successivi 33 giri, sempre di genere progressive, prima della decisa virata verso il pop.
Nel 1995 i Timoria si trovavano esattamente in questa situazione. Due anni prima era uscito il loro capolavoro, quel Viaggio senza vento che a mio avviso si colloca tra i migliori dischi di rock cantato in italiano di sempre. Ripetersi era un'impresa ardua, se non impossibile. Tante erano dunque le aspettative che accolsero 2020 SpeedBall, uscito nel marzo del 1995. Quinta fatica in studio della band, è un disco ottimo che tuttavia sconta il confronto col precedente, rispetto al quale si colloca un gradino sotto. Ciononostante, rimane una delle proposte più interessanti di quell'anno per il rock nostrano, fermo restando che nel 1995 videro la luce, tra gli altri, Germi degli Afterhours e Acidi e basi dei Bluvertigo.
Sulla rete si leggono pareri di ogni tipo su 2020 SpeedBall e in generale sui Timoria. La maggior parte sono commenti favorevoli, oltre a qualche critica motivata. Alcuni sono invece davvero ingenerosi, come purtroppo accade sempre quando si parla di rock nostrano, il cui triste destino è di non essere apprezzato dagli italiani. Snobismo intellettuale, sterile esterofilia, o forse semplicemente l'incapacità di comprendere che la scena tricolore non può e non deve essere paragonata a quelle inglese e americana. A giudizio di molti presunti esperti, si salverebbero solo i mostri sacri degli anni Settanta (Area & co.), oltre ai C.S.I. Il resto è spesso impietosamente contestato: critiche ai Litfiba da El diablo in poi, ai Diaframma senza Miro Sassolini, ai Negrita, ai Marlene Kuntz da Che cosa vedi in avanti. E ciò accade anche ai Timoria, con toni che spesso tradiscono un immotivato pregiudizio.
Tornando al disco, nel 2020 è stato ristampato in occasione del venticinquennale. Oltre all'album, la confezione comprende la registrazione live del concerto tenuto al Rolling Stone di Milano il 18 dicembre del 1995. La ristampa è molto accurata, impreziosita da un ricco libretto con fotografie inedite, i testi e un lungo resoconto di Omar Pedrini sulla genesi del lavoro.
«Eravamo però a un bivio: fare un disco rock-pop, per cercare di soddisfare le radio, per allargare il nostro pubblico e il consenso, o registrare il disco nella maniera più istintiva possibile, autoproducendolo? Ci guardammo tra di noi e in un attimo eravamo tutti d'accordo!»
A differenza dell'illustre predecessore, 2020 SpeedBall non è un concept album, sebbene le canzoni siano legate da un concetto di base: viene immaginato un possibile futuro, una distopia non troppo lontana, a dirla tutta, da quanto si è effettivamente verificato. Un pianeta inquinato in cui si organizzano fughe verso altri mondi (Europa 3), "santi virtuali" che predicano da uno schermo (Guru), relazioni a distanza vissute per mezzo di un computer (2020), giovani senza valori (Week-end), macchine in grado di influenzare il pensiero (Brain machine). Pedrini si preoccupava per il figlio, che avrebbe compiuto ventisette anni nel 2020, la medesima età del padre nel 1995. Ed è incredibile come il futuro immaginato sia vicino al nostro presente, caratterizzato da pandemie, influencer, relazioni virtuali, disastri ambientali.
La formazione è quella storica, con Renga come cantante, Pedrini alla voce e chitarre, Illorca al basso, le tastiere di Ghedi e Galeri dietro le pelli. Quanto al suono, interessanti le rivelazioni di Pedrini nel libretto della ristampa in cd: «ascoltavamo molto prog, tanto rock americano (erano i tempi di Seattle e del grunge) e moltissima musica inglese […]; in questo album anche le influenze metal uscirono poderose». E in effetti il suono è vario e decisamente più "duro" rispetto ai precedenti lavori. Fare l'analisi traccia per traccia ha poco senso, però qualche breve osservazione è d'uopo. I brani in totale sono diciassette, ma cinque sono semplici intermezzi di un minuto o poco più che legano le varie parti del disco. Tali intermezzi sono trascurabili, a parte la funkeggiante No money, no love e la granitica Brain machine, quest'ultima riproposta anche dal vivo. Venendo alle canzoni, ci sono almeno due ballate che potremmo definire radiofoniche: Senza far rumore e Via Padana Superiore. La prima è una classica rock ballad elettrica che mette in evidenza le doti vocali di Renga; è un pezzo emozionante, anche se classico nell'incedere e nella struttura. Via Padana Superiore è invece cantata da Pedrini, che ne è anche l'autore. Inizia con chitarra acustica e voce arrochita, per poi esplodere in un crescendo elettrico che ne fa uno dei migliori pezzi del quintetto bresciano. Il muro chitarristico costruito da Pedrini e la poderosa sezione ritmica di Illorca/Galeri dominano nell'introduttiva 2020, nella stratosferica Sudamerica e nella breve ma decisa Week-end. Sono canzoni d'impatto, a vocazione hard. Bisogna riconoscere che i Timoria abbiano avuto coraggio a percorrere una strada più ostica rispetto alla ballata radiofonica che sicuramente avrebbe portato maggiori consensi. Il manifesto del disco è proprio la title track, con quei versi di portata generazionale divenuti un marchio di fabbrica.
«Vivere, morire in fretta, datemi la via d'uscita.»
Boccadoro è invece l'esempio perfetto del connubio di stili cui accennavo prima. Per stessa ammissione di Pedrini è un pezzo prog, o forse sarebbe meglio dire che si tratta di un brano che richiama atmosfere del rock nostrano degli anni Settanta, tra Le Orme e il Banco del Mutuo Soccorso. Come da tradizione progressive, sono le tastiere di Ghedi a tenere la scena, così come il testo che ricorda alcune cose del Banco. Da segnalare, anche se un gradino sotto alle citate, la soffusa Fino in fondo e l'onirica Europa 3, caratterizzata da un improvviso cambio di ritmo nella seconda parte. Decisamente da rivedere sono invece Mi manca l'aria e Dancin' queen, pezzo sperimentale che dà l'idea di essere un mero riempitivo.
In conclusione, un disco vario e ispirato, forse non immediato ma che sa imporsi alla distanza. A mio avviso non può mancare in una collezione di rock italiano che si rispetti. Se invece non conoscete nulla dei Timoria, suggerisco di partire da Viaggio senza vento.
La copertina e la band in una foto del libretto interno

14 dicembre 2023

Roma da (ri)scoprire n. 8: il sacrario degli uomini liberi

È stata la lettura dell'importante romanzo di Guglielmo Petroni, Il mondo è una prigione, a instillarmi la curiosità di visitare il Museo storico della Liberazione. Nel libro Petroni racconta i duri giorni trascorsi a Roma nel 1944, arrestato dai tedeschi per la sua attività di antifascista e recluso in quattro luoghi: la casermetta dei militi forestali, il commissariato di via Flaminia, l'atroce carcere di via Tasso e, infine, il terzo braccio di Regina Coeli, gestito dagli occupanti tedeschi. Il museo è sito in via Tasso al numero civico 145, proprio nei locali adibiti a prigione dalle SS fino al 4 giugno 1944. L'edificio in origine ospitava gli uffici culturali dell'ambasciata tedesca, ma dopo l'otto settembre del 1943 fu convertito a sede del servizio e della polizia di sicurezza, entrambi gestiti direttamente dalle SS e comandati dal tenente colonnello Kappler. In questo luogo, durante il periodo dell'occupazione, circa duemila tra uomini e donne, militari e civili, accusati di essere partigiani o loro fiancheggiatori, furono segregati, picchiati, torturati, interrogati e detenuti. Trattandosi di un edificio convertito approssimativamente in luogo di detenzione, la permanenza era temporanea e poteva durare da un solo giorno a qualche mese. Successivamente i prigionieri, salvo casi rarissimi in cui furono liberati, venivano destinati al carcere cittadino di Regina Coeli, oppure spediti di fronte al Tribunale di guerra tedesco per essere condannati alla fucilazione, all'internamento in Germania o in un lager. Molti figurano anche tra i martiri delle Fosse Ardeatine. A via Tasso è inoltre attestata la morte di almeno due prigionieri nel corso degli interrogatori.
Il museo si sviluppa su quattro piani e in pratica è composto da tre appartamenti identici e non comunicanti tra loro. Entrando in ciascuno di essi si percepisce immediatamente che si tratta di una civile abitazione convertita in fretta e furia in carcere. Ogni stanza, a eccezione del bagno, venne infatti trasformata in cella dalle SS. Gli appartamenti erano composti da quattro celle, corrispondenti in origine alla cucina, al salone e a due camere da letto. Sui muri sono presenti ancora le carte da parati dell'epoca, mentre nella stanza che doveva essere la cucina ci sono la cappa di aspirazione e il lavello. Vi è poi un ambiente stretto e lungo, originariamente uno sgabuzzino, utilizzato dalle SS come cella di isolamento. Tutte le finestre sono murate, a eccezione di piccole aperture situate in alto per consentire il passaggio di aria. Non è difficile immaginare le terribili condizioni a cui furono costretti i patrioti ivi rinchiusi; anzi, la cosa che più mi ha colpito è proprio lo stridente contrasto tra l'apparenza della civile abitazione, emblema del calore familiare, e la realtà di luogo di tortura, ingiustizia e dolore.
Le stanze adibite a cella
Le sale del museo contengono una grande mole di documenti di ogni genere. Sono esposti ritagli della stampa periodica clandestina delle formazioni partigiane, corrispondenza e pagine di diario dei prigionieri, documenti ufficiali del registro matricola del carcere, sentenze e provvedimenti del Tribunale militare, oltre a decine di giornali, manifesti, avvisi murali e fotografie. Negli espositori sono inoltre contenute medaglie, onorificenze, vestiti e altri piccoli oggetti appartenuti ai prigionieri, a rimarcare che questo è un museo incentrato sull'uomo e non sugli eventi storici. 
Molto toccanti sono le celle di isolamento, lunghe, buie e strettissime perché ricavate negli sgabuzzini. Trattandosi dell'unica parte degli appartamenti che non era rivestita da carta da parati o mattonelle, i prigionieri hanno potuto incidere sulle bianche pareti una serie di pensieri, preghiere, riflessioni e ultime volontà. Fermarsi a leggerle, oltre che commovente, è una tappa obbligatoria per il rispetto che si deve a questi patrioti. C'è poi una grande sala dedicata ai martiri delle Fosse Ardeatine che contiene ritratti, brevi biografie e piccoli cimeli. In tutte le stanze sono presenti cartelli esplicativi in italiano e inglese sulla storia di Roma dall'avvento del fascismo fino alla liberazione.
Uscito dal museo, mi è venuto da pensare che è in luoghi come questo che si è fatta l'Italia libera e democratica in cui abbiamo avuto la fortuna di nascere. Tradizionalmente quando si parla di Resistenza vengono in mente le montagne oppure le strade cittadine in cui si è combattuto; eppure anche nei pochi metri quadrati degli appartamenti di via Tasso è stata tracciata la strada verso la libertà. E colpiscono soprattutto le parole lasciate sui muri delle celle di isolamento dai prigionieri, parole da cui emerge una grande fiducia verso il futuro del Paese.
«Ama l'Italia più di te stesso, più del mondo dei tuoi affetti, più della vita tua e dei tuoi cari, senza limitazione alcuna, con fede incrollabile nel suo destino. Solo così potrai morire per Lei serenamente e senza rimpianti come i Martiri che ti hanno preceduto. A.P.»
Questa la traccia lasciata dal partigiano firmatosi A.P. Sono parole profondamente sentite che non hanno nulla di vuoto e retorico, e anzi invitano tutti noi a una scelta di campo e a un'assunzione di responsabilità.
Un luogo che merita una visita, tanto più che l'ingresso è libero e sono anche disponibili gratuitamente le audioguide.
L'ingresso della Sala delle Fosse Ardeatine
La disposizione delle celle negli appartamenti

3 dicembre 2023

"Il campo 29" di Sergio Antonielli: la dignità dei vinti

Sergio Antonielli è uno dei tanti scrittori dimenticati del nostro Novecento letterario. Nato a Roma nel 1920 e morto prematuramente a Milano nel 1982, fu anche critico e professore universitario, professione quest'ultima particolarmente amata perché permette «il supremo lusso di un po' di libertà», come ebbe a dire. È ricordato per alcuni saggi di letteratura, tra cui una monografia sul Parini, nonché per un pugno di romanzi quali La tigre viziosa (1954), Oppure, niente (1971) e L'elefante solitario (1979). La sua più memorabile prova di narrativa è tuttavia il romanzo d'esordio, intitolato semplicemente Il campo 29. Fu scritto nel 1947 e pubblicato due anni dopo in sole mille copie per le Edizioni Europee; la seconda edizione, sempre in mille esemplari, uscì nel 1952. Dimenticato per oltre mezzo secolo, è stato ristampato nel 2009 dalle Isbn Edizioni, nella meritoria collana "Novecento italiano", ideata per «rileggere alla luce dell'oggi opere della letteratura del secolo scorso […] dimenticate dagli editori e dagli studiosi e che perciò restano sconosciute o poco note all'ultima generazione di lettori».
Il romanzo racconta una vicenda reale ma ignorata dall'opinione pubblica: l'internamento di diecimila soldati e ufficiali italiani in India, prigionieri degli inglesi dal 1941 al 1946. I nostri militari vennero condotti in una zona remota, ai piedi della catena dell'Himalaya. I campi che ospitavano i prigionieri erano quattro, numerati dal 25 al 28; il numero 29 in realtà non esisteva, ma nel gergo dei prigionieri indicava l'aldilà. Quando uno di loro moriva, si diceva avesse raggiunto il campo 29. Nel voler lasciare questa testimonianza, Antonielli si trovò davanti a un bivio, ossia la scelta tra il racconto d'invenzione e il memoir autobiografico. Alla fine optò per una soluzione intermedia, come lui stesso ebbe a dire in uno scritto del 1975 riportato come prefazione all'edizione del 2009: «non riproduzione diaristica, o documento puro e semplice, o romanzo in senso tradizionale, bensì qualcosa d'intermedio: una sorta di traduzione della realtà». E tuttavia, l'aver privilegiato la soluzione del romanzo dev'essere stato intimamente sofferto, in quanto, secondo le sue stesse parole, sarebbe «dovuto andare più a fondo nel senso del documento».
Il campo 29 è un caleidoscopio di personaggi, ciascuno con le proprie ossessioni, idee, simpatie, idiosincrasie. Il protagonista, in cui forse è possibile ritrovare qualcosa dell'autore, è il sottotenente Venturi. All'apparenza cinico e scontroso, in realtà coltiva la solitudine come strumento di difesa contro i rischi della prigionia. I suoi amici sono Bersezio e Diego, il primo ossessionato da una conflittuale religiosità e il secondo che cerca di astrarsi dalle miserie del presente rifugiandosi nella poesia. La prigionia è fame, malattie e privazione della libertà, per quanto gli italiani in India abbiano beneficiato di condizioni decisamente migliori rispetto agli internati in Russia. I principali nemici dei prigionieri di Antonielli non sono dunque la violenza o l'oppressione dei carcerieri, ma il tedio e l'abbrutimento. Nel romanzo è descritta nei minimi dettagli la loro giornata, dalla sveglia fino alle lunghe notti insonni. Giornate tutte uguali scandite dalle medesime, noiose incombenze: la conta mattutina, le perquisizioni, le passeggiate, il tè pomeridiano nel circolo improvvisato, le visite reciproche nelle baracche, la lettura di qualche romanzetto, i ricordi d'Italia che mordono il cuore, piccole meschinità e grandi gesti d'altruismo. Antonielli si sofferma minutamente su quella vita, descrive con dovizia di particolari le baracche, i vestiti dei prigionieri e persino il cibo, offrendo un doloroso spaccato di vita vissuta. Tutti i personaggi sono ben scolpiti e definiti, tutti diversi eppure accomunati da due ossessioni: il desiderio del rimpatrio e la paura di impazzire, che supera persino quella di morire in India.
«Nel deserto delle giornate tutte uguali prendevano a spuntare le idee fisse, germogli della pazzia. L'idea fissa per eccellenza era la donna.»
Molte pagine sono proprio dedicate alla mancanza dell'affettività. Più ancora della fame e delle privazioni materiali, Antonielli descrive l'inappagabile bisogno dei prigionieri di calore umano, di affetto o anche semplicemente di un corpo di donna. Mancanze che conducono molti al suicidio, a disturbi mentali e finanche a perversioni sessuali. 
I soldati italiani prigionieri durante la Seconda guerra mondiale sono stati spesso negletti dalla politica e ignorati dai libri di scuola, pur essendo da sempre oggetto di interesse da parte degli storici. E neppure tutti sono stati trattati allo stesso modo; se infatti si è parlato molto dei prigionieri della campagna di Russia, solo da qualche anno è stato squarciato il velo di colpevole silenzio che circondava i cosiddetti I.M.I., coloro che per ostilità al fascismo furono internati nei campi tedeschi dopo l'otto settembre del 1943. La vicenda dei soldati italiani in India è tuttora ignorata dai più, sebbene sia pregna della stessa sofferenza. Antonielli, testimone diretto, si è fatto carico di raccontare con questo romanzo una storia che, pur collocandosi ai margini dei grandi avvenimenti del secondo conflitto mondiale, meritava di essere narrata per non essere dimenticata. È la storia dei vinti, di un'umanità dolente e lacera che tuttavia conserva un fondo insopprimibile e inalienabile di dignità.
«Ora sapeva che, posto il muro, gli uomini stanno dalla parte di qua: dei vinti. Avrebbe potuto dire agli inglesi: in questo gioco ho perso, ma è il vostro, un gioco volgare. Al mio ho vinto. Chi sei tu che mi tieni qua chiuso, che pubblichi sui giornali, della mia terra, solo le notizie che la infamano; che dici alla radio, della mia terra, della mia gente, solo quanto serve ad umiliarle? Tu sei uno che, perché altri della tua gente, vestiti come te, m'hanno abbattuto con le armi, mi vieni vicino col passo fermo e col volto del padrone. Ma sai che in me qualcosa vive che non è entrato in lotta, che non hai neanche sfidato: il mio nome e cognome; l'anima mia, i sogni per gli anni a venire, l'affetto per la donna che ho lasciata là, per mia madre che muore, forse, mentre ti parlo, lontana da me tutti questi chilometri che m'hai fatto percorrere tra le baionette. E in questo lo sai che non puoi vincermi a quel tuo gioco di botti e rombi e razzi e carri armati. Se qui mi sfidassi potresti perdere. E ti senti a disagio. E mentre a parole mi offendi, non mi guardi negli occhi.»

21 novembre 2023

"La velocità della luce" di Javier Cercas: una geografia del dolore

Chi è nato in Europa negli anni successivi al 1945 ha avuto la fortuna di non conoscere gli orrori della guerra. La democrazia, il welfare state e l'Unione europea non sono esenti da difetti, eppure sono le istituzioni che ci hanno consentito di raggiungere un grado invidiabile di sviluppo e benessere. I conflitti ci sono apparsi quali eventi lontani e quindi inoffensivi, poco più che notizie di telegiornale cui abbiamo prestato un'attenzione distratta. Quel che sta accadendo in Ucraina e Israele ha modificato la percezione, facendo definitivamente cadere l'illusione che la guerra sia un'entità astratta ed esotica che non ci riguarda. I mezzi di comunicazione si limitano però a riportare i fatti, ossia gli effetti materiali del conflitto, senza addentrarsi nel terreno altrettanto minato degli effetti psicologici. Di ciò devono occuparsi i libri.
È il caso de La velocità della luce, romanzo dello spagnolo Javier Cercas edito nel 2003. Racconta la storia di un'amicizia particolare, quella tra l'io narrante e un reduce del Vietnam di nome Rodney Falk. Il primo è uno squattrinato aspirante scrittore spagnolo che alla fine degli anni Ottanta, grazie all'intercessione di un accademico, accetta l'incarico di assistente alla cattedra di letteratura spagnola all'università di Urbana, nell'Illinois. Qui ha modo di conoscere il secondo, un quarantenne tormentato dai fantasmi della guerra combattuta per quasi due anni nel Paese asiatico. Rodney è considerato un disadattato, un outsider incapace di coltivare legami con i suoi simili. Eppure tra i due nasce inaspettatamente una profonda amicizia, finché l'americano carica la sua auto di bagagli e sparisce nel nulla, facendo perdere ogni traccia. Anche lo spagnolo lascia Urbana una volta terminato l'incarico all'università. Torna a Barcellona, portando con sé tre faldoni donatigli dal padre di Rodney: sono le lettere dolorose e allucinate che l'amico inviava dal Vietnam alla famiglia. Ed è proprio questo flebile ma corporeo legame che lo spingerà a tentare di dipanare il mistero che avvolge l'esistenza del reduce.
La velocità della luce è un libro duro e sconcertante, un impietoso atto d'accusa contro la politica statunitense in Vietnam e, più in generale, una feroce critica all'assurda convinzione secondo cui sia possibile risolvere i contrasti internazionali con la guerra. Come ho accennato sopra, Cercas indaga gli effetti psicologici prodotti sui soldati dall'esposizione alla violenza e dalla commissione di atti brutali. Non a caso il cuore del romanzo è nelle lettere che Rodney scrive ai familiari dal fronte; è in queste missive che viene delineata la geografia del dolore che solo chi ha vissuto gli orrori di un conflitto può comprendere fino in fondo. Inoltre, come avrà modo di capire chi lo leggerà, La velocità della luce è anche un'analisi impietosa dell'ipocrisia di una certa classe intellettuale che si fa abbagliare dalle lusinghe del successo, fino a perdere il contatto con i valori essenziali dell'esistenza.
Nonostante l'indubbia potenza della storia, conclusa la lettura mi sono interrogato su quali siano i punti deboli del romanzo. C'è nella trama qualche passaggio un po' forzato, però devo riconoscere che la storia nel complesso è credibile e scritta bene. Rodney Falk è una figura delineata perfettamente, destinata a rimanere a lungo nella mente del lettore. Cercas è stato abile e meticoloso a entrare nella mente del suo personaggio, descrivendo con dovizia di particolari tutti i fantasmi che l'affollano. La figura di Rodney è certamente il punto di forza del libro e la sua elaborazione un atto di coraggio da parte dello scrittore spagnolo. Cercas è riuscito a non trasformare il veterano nella macchietta del reduce, equivoco in cui si rischia di cadere quando si parla di Vietnam; in parole povere, Rodney non è un Rambo, ma un intellettuale sconvolto e segnato dalle drammatiche esperienze del conflitto. Viceversa, non mi è risultato particolarmente simpatico l'io narrante; forse la mia è una considerazione sciocca, ma non riesco a esprimerla diversamente. Lo scrittore protagonista della vicenda è infatti un personaggio con cui è difficile empatizzare: la sua trasformazione da aspirante artista ad arrivista senza scrupoli è troppo repentina per essere credibile. Sembra quasi che si tratti di una persona diversa rispetto a quella che racconta la prima parte della vicenda. Insomma, tanto è granitica la figura di Rodney, quanto debole quella dell'io narrante. Si tratta ovviamente di una considerazione personale che non intacca il valore di un'opera che merita di essere letta, per farci capire ancora (se mai ce ne fosse bisogno) quali orrori la guerra porti inevitabilmente con sé.